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Poco più a nord, ad Harlem, un altro appuntamento d’obbligo era
diventato il Minton’s Playhouse, sulla Centodiciottesima, una delle
strade più povere del quartiere.
Il locale non era altro che un loft dell’Hotel Cecil, un albergo davvero
poco invitante. Non era l’unico locale ovviamente.
C’erano il mitico Cotton Club, il Monroe’s, il Victoria, lo Yeah Man,
lo Small Paradise, diventato famoso per aver avuto come camariere
nientemeno che Malcom X.
Il Minton’s era proprietà di Henry Minton, non certo un grande gestore,
ma ex sassofonista e primo delegato nero dell’Unione musicisti di New
York. In più, Minton aveva avuto l’accortezza di far dirigire il locale a
Teddy Hill, ex bandleader con il quale avevano suonato un po’ tutti i
anche alcuni di quei giovani scapestrati, Dizzy Gillespie primo fra
tutti, che cercavano di dare al jazz un’impronta nuova.
Dunque Hill aveva pensato di mettere nel club soltanto una sezione
ritmica, formata dal pianista Thelonious Monk, dal bassista Nick
Fenton e soprattutto dal batterista Kenny Clarke, che era il generatore
di ogni situazione musicale.
Per dare vita alle jam session aveva scelto il lunedì, serata di libertà
per quanti lavoravano nei teatri e nei club, organizzando ‘La notte
delle celebrità’.
Il locale era grigio, addirittura povero: una stanza spogliatoio, un bar,
pochi tavolini e una pedana che poteva contenere al massimo sei o
sette musicisti. La cucina era ottima: con tre dollari si potevano gustare
le specialità creole, mentre i cocktail costavano dai 25 ai 30 cents e lo
stesso il baby di whisky.
Hill aveva anche capito che i giovani musicisti erano stufi di quel jazz
commerciale che andava per la maggiore. Sapevano tutti che lo swing
era stato una cosa splendida sotto le mani di Count Basie, ma che quando
le orchestre bianche se n’erano impadronite era diventato una musica
bolsa, adatta solo a far ballare gli smidollati. Così ognuno di loro cercava
di uscirne, di inventare linguaggi nuovi.
Kenny Clarke era uno di questi.
Raccontava il batterista: ‘Mi ero stancato di suonare alla Jo Jones. Era ora
di cambiare, così avevo spostato il ritmo base della percussione dal tamburo
basso al piatto alto, sul quale potevo ottenere variazioni di tono graduando
il colpo della bacchetta. In più ero libero di picchiare tamburo e timpani per
marcare gli accenti’.
Anche Thelonious Monk, che proprio Clarke aveva suggerito a Hill, stava
cercando nuove strade. Monk era un autodidatta ma la sua tecnica, almeno
così afferma il batterista Max Roach, era assai vicina a quella di Art Tatum.
All’epoca aveva già scritto temi che sarebbero entrati nella storia, come
‘Round Midnight’, ‘Blue Monk’, e ‘Epistrophy’, ma che erano ancora
sconosciuti.