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Jimmy sbatté a tutta forza contro un muro, picchiando sui
mattoni con la fronte.
Andò giù come un sasso, rimbecillito ma ancora cosciente.
Walker lo udì lamentarsi e si fermò, cercando di aguzzare la vista
e cogliere lo sguardo del negro.
Aveva sempre sentito dire che gli occhi di un negro brillano nell’
oscurità come quelli di un animale, e la sua pistola era pronta ad
aprire il fuoco al minimo scintillio.
Lo sentiva muoversi, quel negro, ma non riusciva a vedere un
accidente.
Jimmy si alzò lentamente in piedi.
Gli pareva di essere stato preso a frustate con una catena di ferro
massiccio, e fu solo la volontà di sopravvivenza che lo spinse a
correre di nuovo.
E di colpo si ritrovò a volare a mezz’aria.
Il passaggio piegava secco a destra, e si abbassava di tre gradini.
Atterrò sulle ginocchia e sulle palme delle mani, che il ruvido
cemento s’affrettò subito a spellare. Il dolore – acuto, improvviso –
ebbe l’effetto di uno stimolante: in men che non si dica, Jimmy
saltò in piedi e riprese a correre. Ma la pausa nel buio aveva fatto
riacquistare il raziocinio a Walker. Il detective si frugò nella tasca
interna della giacca e ne estrasse una torcia sottile come una penna
stilografica. Il minuscolo raggio gli consentì di scorgere la svolta
del corridoio e i gradini. Nel frattempo, Jimmy aveva girato un
altro angolo ed era scomparso alla vista.
Per un istante Walker valutò se ricaricare la pistola.
Mentre cercava la torcia, la mano gli era finita sui proiettili di
scorta che teneva in tasca, ed era sicuro che ce ne fossero di ancora
buoni. Ma non poteva rischiare di perdere tempo, tra quel labirinto
di corridoi e il negro che già aveva preso un certo vantaggio.
Jimmy si era messo a correre trascinando la mano sinistra lungo la
parete, e con la destra a precederlo. Al buio, svoltò due angoli e
piombò di colpo in un tozzo corridoio illuminato. Non udiva più
i passi del suo inseguitore.
Sentì montargli la speranza. Sulla destra vide una porta chiusa.
La aprì, guardando all’interno. C’era un letto disfatto, una toletta
bruciata dalle cicche e vestiti luridi penzolanti dalle sedie, oltre a
una bottiglia di whisky vuota, con tanto di bicchiere, su un tavolo
coperto da una cerata.
Ma non c’era anima viva.
Era di certo la stanza dell’aiutante di chissà quale portinaio.
Nell’uscire, richiudendo la porta, udì dei passi alle sue spalle.
‘Aiuto!’ urlò, trascinandosi in avanti.
‘Aiuto! Qualcuno mi aiuti!’
Nessuna risposta.
Svoltò all’estremità del passaggio proprio mentre Walker lo imboccava
all’estremità opposta, e si ritrovò nell’ennesimo corridoio.
Uno sguardo sulla sinistra gli consentì di scorgere una lunga distesa
di parete intonacata e ben illuminata, e un pavimento pulito.
Girò a destra e si trovò di fronte a una massiccia porta di quercia.
Li udiva benissimo, ora, quei passi.
Non c’era tempo di girare di nuovo l’angolo e prendere quell’assassino
per la collottola. Se la porta non si apriva, poteva considerarsi un
uomo morto.
‘Ehi!’, sentì una voce.
‘Ehi!’
Non si voltò.
Quella voce significava morte.
Coraggio, fatti ammazzare, gli gridava quel figlio di troia.
Si sentiva lo stomaco grande come un pisello, e la nausea che gli
era salita alla bocca sapeva di vomito rancido.
Fece per afferrare la maniglia.
Ecco come finisce la carriera del figlio della signora Johnson, pensò
con una dose di quella amara autoironia che ai bianchi piace chiamare
‘umorismo da negri’.
Provò la maniglia. La sentì girare. Spinse la porta. Si aprì.
‘Ehi! Ehi, laggiù!’,
udì di nuovo la voce.
Ehi lo vai a dire a tua nonna, pensò.
La luce che filtrava dal corridoio, attraverso la porta aperta, gli fece
vedere quella che sembrava una batteria di macchine per cucire elettriche,
che giravano con lento movimento circolare in uno stanzone quadrato.
Jimmy si sentiva così stordito che gli parve di galleggiare sulla loro
scia.
Lo sforzo fatto per restare in piedi gli aveva fatto tirare in dentro lo
stomaco, e il sangue aveva ormai preso a calargli, caldo e appiccicoso,
giù per la gamba.
Forse si era anche pisciato addosso.
Inebetito, cercò la serratura senza neanche rendersi conto di cosa stesse
facendo.
Era una Yale; quando abbassò la leva che rilasciava il paletto, la
serratura scattò all’istante a chiudere la porta.
‘Ehi! Ma chi cazzo è che urla?’
‘Non la udì, Jimmy, questa voce. E neanche il rumore strascicato dei
passi che scendevano lungo il corridoio e si accostavano alla porta.
Non udì l’uomo provare la maniglia e scrollare la porta e attaccare
a sbraitare con la voce irritata, mezza ubriaca.
‘Apri la porta e vieni fuori. Non me ne frega un cazzo di chi sei. Ho
un lavoro da finire, io.’
Aveva già perso i sensi prima di toccare il pavimento.
(Chester Himes, Corri uomo corri)