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Tornato in patria il sassofonista perdette
temporaneamente la collaborazione di
Brookmeyer, che rimpiazzò con Tony
Fruscella e successivamente con Jon
Eardley, entrambi trombettisti, e prese
la decisione di fissare nuovamente
la sua base operativa a New York.
Un poco più tardi, nell’estate del
1955, costituì un sestetto – un
organico già sperimentato precedentemente in concerto – nel quale volle al suo
fianco ancora una volta Brookmeyer, Eardley e il tenorsassofonista Zoot Sims.
Il nuovo complesso incise dei buoni dischi per la Mercury, rielaborando anche
vari pezzi già nel repertorio del quartetto, a cominciare dal battutissimo ‘Bernie’s
tune’, e quindi, nel febbraio 1956, varcò l’Atlantico per compiere una turnée che
l’avrebbe portato in varie città italiane e, per due settimane, all’Olympia di
Parigi. In Inghilterra sarebbe approdato l’anno dopo.
La musica che il sestetto faceva era un poco diversa, e più ricca, di quella dei
primi quartetti. Vi era un sapore nuovo, un poco amaro, un piglio disincantato,
a tratti ironico, un singolare gusto per lo sberleffo improvviso, per il clowning
più sbracato che diventa arte elegante attraverso la stilizzazione e che poteva
richiamare alla mente certo Stravinsky. Apparve ancora più evidente, nel sestetto,
la singolare capacità di Mulligan di stimolare gli altri musicisti a dare il meglio,
a suonare con divertimento assieme a lui, che ha sempre avuto il gusto per la
jam session. Suonare con divertimento non vuol dire, per lui, ad ogni modo,
prendere le cose alla leggera, lasciar correre: al contrario, il suo perfezionismo
caparbio, la rigidità del suo carattere, che in quegli anni era particolarmente
irascibile, lo rendevano un leader molto esigente, persino un poco fanatico.
Il sestetto ebbe una vita breve e intermittente: la formula del quartetto piaceva
sempre molto a Gerry, che a essa sarebbe tornato numerose volte, nel corso
della sua carriera, e che riprese ancora al ritorno dai due viaggi in Europa.
Brookmeyer, ma in una
occasione, nel 57, Bock
riuscì a mettergli vicino
nuovamente Chet Baker
per una riunione
discografica.
Nel 1958 però, entrò
per la prima volta
nella cerchia dei
Mulliganiani un
trombettista negro,
Art Farmer, il cui
stile, in linea
degli hard
boppers di
New York,
diede una nuova
fisionomia al quartetto.
Con Farmer e con altri
noti jazzmen attivi
a Los Angels,
Mulligan partecipò
anche, in quello stesso
anno, alle riprese di un
film importante,
‘I want to live’, uno dei pochissimi in cui il jazz apparve in una luce non falsa.
Sempre col trombettista negro inserito nel suo nuovo quartetto tornò poi in
Europa, dove diede molti concerti assieme al trio di Jimmy Giuffre. Agli
ultimi anni 50 risalgono varie sedute d’incisione, organizzate da Norman
nelle quali il
sassofonista
fu messo a confronto,
volta a volta, con altri
illustri solisti, come
Paul Desmond, Ben
Webster, Stan Getz,
Johnny Hodges, e
diede un’ulteriore
dimostrazione della
sua spregiudicatezza
e della sua duttilità.
Solo con Thelenious
Monk, con cui incise
per la Riverside, si
trovò a disagio.
Intanto nella
privata c’erano
stati dei cambiamenti.
Già divorziato una
volta, dopo essere
stato sposato per
breve tempo agli
inizi della carriera,
Gerry aveva visto
naufragare pure
il secondo matrimonio,
e ora si era legato a
Judy Holliday, attrice
cinematografica famosa
e donna di viva
intelligenza, che volle collaborare con lui alla realizzazione di un paio
( e più)…incisioni, rimaste inedite al grande pubblico.
(A.Polillo, Jazz)
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