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Inquisitori (sosta a Roma) (4)
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Ne orna l’unica e sola memoria:
Stato antico nominato Pontificio,
simbolo araldico di un grande prelato
eletto quale grande e unico sovrano.
Solo per caso cinge corona di Papa,
pur essendo peggio di qualsiasi
monarca,
da lui solo inventato nel nobile
e fiero creato.
Per nostra salvezza
è re e padrone di questa
grande terra.
E custode del potere immacolato.
La nobiltà si inginocchia
e prega parola,
un uomo prezioso quanto
il grande quadro ammirato.
Orna la grande cappella
col viso afranto e umiliato
per ogni loro peccato.
Ma il nobile prega il valore
della tela,
questo è il suo vero mercato.
(G. Lazzari, Frammenti in Rima,
Dialogo con il nobile che vende parola,
Fr. 15/6)
Per servire l”Offitio’ bisognava conoscere e applicare le leggi;
bisognava soprattutto indagare, collegare le tracce, svolgere
un vero lavoro poliziesco, da sbirro; il Ghislieri lo faceva.
Le sue lettere mostrano come seguisse le tracce dei sospetti,
tenendo conto di ogni indizio e come dettasse precise istru-
zioni per interrogare su punti determinati i testimoni.
Quando si passava alle punizioni, si mostrava duro, ineso-
rabile: se un frate era stato eretico per anni e aveva insegnato
errori, non si poteva tollerare che si concedesse il permesso di
abiurare segretamente ‘per rispetto suo et della religione. Do-
vea egli haver risguardo al honor de Iddio et alla salute del…
prossimo’.
Dunque, abiura pubblica e solenne per il frate; ma anche rab-
buffi per l’inquisitore che aveva perso tempo scrivendo a Ro-
ma per chiedere consiglio e aveva cercato di favorire il colpe-
vole.
Il Grande Inquisitore doveva diventare papa: ma senza dimen-
ticare niente dello stile e delle convinzioni maturate negli anni
precedenti.
Il suo compito di supremo giudice in materia di eresia lo as-
sorbì più di tutto. ‘Vede ogni processo et legge tutte le scrittu-
re’, scriveva il cardinal Girolamo da Correggio nel 1567.
Se si pensa alla quantità di carte processuali che arrivarono a
Roma da tutti i terminali della struttura, si può avere un’idea
del lavoro che il papa domenicano svolgeva.
Leggere processi e scrivere – o far scrivere – lettere sul modo
di portarli avanti fu un compito a cui si dedicò con zelo e sen-
za risparmio del suo tempo. Tanto affaticarsi sulle carte appar-
teneva alla dimensione del potere sovrano così come fu inter-
pretato in quegli anni dal re che ne fu l’incarnazione più cospi-
cua, Filippo II d’Asburgo.
Ma per il papa che incarnò allora gli ideali di guerra santa del-
la Controriforma, l’impegno burocratico fu rivolto soprattutto
alla conduzione dei processi.
Il flusso continuo di lettere che da Roma guidarono i compor-
tamenti dei commissari dell’Inquisizione in tutta Italia fu ispi-
rato e controllato personalmente da lui.
Dai rari spiragli aperti su una documentazione che resta anco-
ra per lo più inaccessibile, risulta che quella accanita lettura
degli atti era guidata da precise convinzioni e da antichi e ra-
dicati rancori e sospetti.
Lo studioso che dall’archivio romano del Sant’Uffizio ha por-
tato alla luce i materiali della dura azione romana contro il dis-
senso religioso a Mantova, ha notato giustamente che gli inter-
rogatori dell’antico segretario del cardinal Ercole Gonzaga, En-
dimio Calandra, batterono soprattutto sui circoli degli ‘spirituali’
italiani degli anni quaranta: erano quelle ‘le ombre che continua-
vano a turbare i sonni degli eredi di papa Carafa’.
Fedele ai sospetti e alle avversioni maturate in anni di faticose e
accanite inchieste poliziesche, come papa doveva dare incremen-
to al lavoro di polizia della fede che gli era familiare (secondo la
sua… coscienza, sempre se ne aveva una….).
Era un lavoro duro e rischioso: il Ghislieri lo conosceva bene.
Si era salvato a stento nel corso dell’inchiesta svolta a Bergamo
contro il Soranzo. I suoi uomini correvano gli stessi rischi. La
ventata di attivismo portata in tutta la struttura dell’ascesa al pa-
pato del Grande Inquisitore creò situazioni di grave tensione e
pericolo.
A Mantova, all’alba del Natale 1567 due frati domenicani furono
ammazzati a colpi di pugnale. Ma mentre i confratelli degli assas-
sini, terrorizzati, si armavano e progettavano di lasciare la città,
il papa fece all’ambasciatore mantovano dichiarazioni di questo
tenore:
“Se noi vedessimo bene a tagliar tutti in pezzi i frati di san
Domenico, non havressimo per questo punto di paura né
lasciaressimo di camminare gagliardamente per quella
buona strada che ci siamo inviati di procurar di debellar
gl’heretici. Noi siamo al mondo per guidar gl’huomini al
cielo: tanto maggiormente debbiamo procurare di gionger-
vi noi stessi: il che si fa per la via de martirii, come hanno
fatto quei due padri, l’anime de quali sono andate al cielo”.
Tanta intransigenza seminava odio.
C’era chi avrebbe volentieri collaborato a quel martirio; un
mantovano esasperato espresse così i sentimenti cittadini
contro l’inquisitore:
Dio voglia ch ‘l vadi in paradiso, per liberar dal inferno
molti poveri!
(Prosegue….)