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pionieri dell’alpinismo (lupi di montagna) (2) &
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Non si muoveva un filo di brezza, non un sassolino che frullasse;
il monte regale taceva cupo, quando io tortuosamente con molti
colpi di picozza nel canalone di ghiaccio, che sembrava di vetro
temperato.
Non volevo uscire subito al di là delle fauci della morte, perché
rocce ripide e glabre seguivano la sponda meridionale del cana-
lone; invece scavai circa cinquanta gradini su per il colatoio.
Non ho mai visto un solco di valanghe così profondamente inca-
vato. Anche levando la mano in alto, non riuscivo a raggiungere
l’orlo.
Quindi ci portammo sulla parete ovest e qui la fatalità spalancò
le sue fauci sanguinose. La roccia oscura era costruita a lastroni
erti, quasi senza cornici e risaliti, spesso con una superficie solo
debolmente rugosa. Ma sopra stava il sottile velo di ghiaccio
vetrato, in principio solo qua e là, successivamente di cento me-
tri più compatto.
Andavo senza scarpe, insinuandomi come una biscia per qual-
che ora tra gli strati di ghiaccio; ma Lorria doveva ogni volta
aspettare, finché lo potevo recuperare con l’aiuto della corda.
Vennero strisce di neve e, per non perdere tempo, affrontavo
la fatica del gradinare a piedi nudi e a mala pena m’accorgevo
del freddo.
Specialmente a disagio si stava sotto le isole di neve; quivi si
trovavano grosse nicchie ghiacciate, donde pendeva come una
cascatella gelata: picchiando con forza, saltavano delle zolle
di ghiaccio irregolari, che lasciavano fratture ben poco utili per
gli appoggi.
Anche con le grappe non guadagnammo gran che, perché non
facevano presa sullo smalto, che copriva la roccia levigata.
Così combattemmo per più di sette ore e il cammino si faceva di
mano in mano più scabroso. Solo verso le undici il sole si river-
sò su questa parete ovest brutalmente stagliata e prima di mezzo-
giorno solo qua e là qualche pietruzza volò sulle nostre teste: l’-
avanguardia dell’esercito selvaggio.
Alle tredici eravamo circa al livello del pinnacolo della cresta
dello Zmutt e poiché il vetro sulla roccia si faceva di ora in ora
più ostinato, riconoscemmo chiaramente che né quel giorno né
l’indomani avremmo potuto passare, ma appena dopo una set-
timana di completo denudamento della roccia.
Perciò, indietro! Presto sulla parete di Penhall si sarebbe scate-
nato l’inferno.
Se avessimo posseduto la conoscenza del Cervino degli alpi-
nisti posteriori, avremmo tentato, anziché salire a destra nella
linea della cima, d’inerpicarci a sinistra verso la cresta nord:
lassù vi è buona roccia e un bivacco sicuro. E se il giorno dopo
fossimo stati abbastanza in forza, avremmo raggiunto il Corno
sopra questa cresta, la quale tutte le settimane al giorno d’oggi
è superata da gente di mediocre capacità.
Ma nel 1887 la via di Mummery era altrettanto greve di enigmi
come la nostra parete di Penhall. Tuttavia io credo che questa
fuga in alto ci avrebbe allora salvati; perché la trappola verso
il basso, nel canalone, la trovammo più tardi già chiusa.
Fu proprio questa dura esperienza, che nel 1895 m’indusse sul
Morchner ad esigere dalla mia compagna l’aspro disagio della
prosecuzione della salita piuttosto che ritornare per i solchi del-
le valanghe.
Accigliato e col cuore furente mutai direzione.
Con lotta tenace scendevamo tortuosamente e circospetti per
quelle chine desolanti. Alla fine il sole scottante di sud-ovest
sciolse tutti i ceppi all’inferno. I vincoli del ghiaccio si spezza-
rono stridendo e cominciò un fracasso da scuotere le ossa, qua-
le si poteva difficilmente immaginare.
Massi neri, grandi come carri ferroviari, si staccavano da qual-
che parte lassù, rimbalzando strepitando per centinaia di me-
tri, volavano sopra i risalti scoppiando in cocci innumerevoli,
che fischiavano per l’aria disseminandosi a tromba in forme
e direzioni imprevedibili……
(prosegue in: lupi di montagna (2))