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Che cosa ci fa esistere, se non il raggio misterioso che attraversa
talvolta, come una scossa, la selvaggia regione interiore?
E per quanto ciò riesca imperfetto, l’uomo continuerà a parlare
di quel che in lui è più che umano.
I tentativi compiuti dalla scienza per entrare in contatto con altri
mondi sono un tratto significativo di quest’epoca. Non solo nell’-
intento in sé, ma anche nei suoi aspetti tecnici, a stupirci è uno
strano miscuglio di oggettività e fantasia.
Non è forse sorprendente l’idea di tracciare in una zona del Sha-
ra, per mezzo di segnali luminosi, il triangolo rettangolo di Pi-
tagora con i suoi tre quadrati?
Come potrà mai interessarci il fatto che da qualche parte nell’-
universo viva una mente matematica?
Eppure c’è qui un aspetto che richiama alla mente il linguaggio
delle piramidi, un’eco dell’origine sacrale dell’arte, del sapere
solenne della creatura sul proprio senso nascosto, e tutto ciò
in armonia con i presupposti del pensiero astratto e dietro la
maschera della tecnica moderna.
Ci sarà mai qualcuno a captare i segnali radio che noi lanciamo
nei gelidi abissi degli spazi siderali?
Questa traduzione in impulsi elettrici di linguaggi per cui già
sulla terra i fiumi e le catene montuose sono un confine, e che,
tradotti, chiedono ascolto ai margini dell’infinito?
E in quale lingua verrà tradotta la traduzione?
Singolari tibetani, la cui preghiera monotona risuona dai mo-
nasteri rupestri degli osservatori!
Chi potrebbe sorridere dei mulini da preghiera, conoscendo i
nostri paesaggi con le loro miriadi di ruote vorticanti, la frene-
sia che muove la lancetta dell’orologio e la folle corsa dell’albe-
ro a gomiti dell’aeroplano?
L’oppio dolce e rischioso della velocità!
Eppure non è forse vero che il centro della ruota è in piena
quiete?
La quiete è la lingua originaria della velocità. Per quanto si
voglia tradurre la velocità e potenziarla, ogni potenziamento
sarà solo una traduzione della lingua originaria.
Ma in che modo comprenderà l’uomo la propria lingua?
Ecco, tu posi lo sguardo sulle nostre città. Ne hai viste tante
prima di queste e altre ne vedrai dopo di esse.
Ogni casa è ben costruita, ha un suo scopo preciso.
Ci sono strade anguste e tortuose, che sembrano tracciate dal-
la mano del caso, così come i campi di una regione contadina
conservano il perimetro di spartizioni ereditarie ormai cadute
nell’oblio.
Altre sono dritte e ampie, e le loro prospettive furono tracciate
da principi e architetti famosi. Il depositarsi nella pietra dei
tempi e delle razze dà luogo a molteplici strati sovrapposti.
La geologia della psiche umana è una scienza a sé.
Tra le chiese e i palazzi pubblici, tra le ville e i casermoni po-
polari, i bazar e i luoghi del divertimento, le stazioni ferrovia-
rie e i quartieri industriali la vita circola e pulsa; il traffico è
intenso, la solitudine straordinaria.
Ma da una così sublime altezza questi accumulatori gigan-
teschi di forze organiche e meccaniche assumono un altro
aspetto.
Anche guardando con un telescopio potentissimo la differen-
za non potrebbe sfuggire.
Le cose, per chi le sovrasta, non mutano nella sostanza ma
mostrano un’altra faccia. Così in questa immagine remota le
differenze fra epoche sfumano l’una nell’altra. Non ci si ac-
corge più che le chiese e i castelli sono millenari mentre i
grandi magazzini e le fabbriche sono dei nostri giorni; tende
piuttosto ad affiorare qualcosa che potremmo chiamare il lo-
ro disegno nascosto: la struttura cristallina comune in cui è
precipitata la materia prima.
Anche nella smisurata varietà dei fini e dei movimenti con-
nessi l’occhio non percepisce più nulla.
Laggiù sulla terra due persone che si incrociano di fretta
sono due mondi a sé, e un quartiere di una città può essere
lontano da un altro più di quanto non disti il Polo Nord dal
Polo Sud.
Ma visto da te, che sei già un essere cosmico pur appartenendo
alla terra, tutto ciò appare nella sua quiete, come la secrezione
prodotta dalle agitazioni vulcaniche e dai succhi volatili della
vita. Spettacolo inesausto e mirabile, come dalla varietà e dal-
l’ostilità dei tempi e dei luoghi cresca forma su forma!
E quella che chiamo la fraternità della vita, in cui ogni ostilità
viene assorbita e tolta.
Quaggiù ci è concesso raramente di vedere il fine fondersi con
il suo significato. Eppure il nostro sforzo supremo tende a quel-
lo sguardo stereoscopico che coglie le cose nella loro corporei-
tà più segreta e più immobile.
La necessità è una dimensione particolare.
Noi viviamo in essa, eppure siamo in grado soltanto, e solo
negli istanti significativi, di osservarne le proiezioni.
Esistono segni, metafore e chiavi di vario tipo: siamo come il
cieco che non è in grado di vedere ma che riconosce la luce
dalla sua qualità più opaca, il calore.
Ora, non è forse vero che ogni movimento del cieco per chi lo
guarda si compie nella luce, pur essendo egli avvolto nella te-
nebra più fitta?
Così noi non abbiamo mai visto il nostro volto in specchi di
natura atemporale. Noi parliamo una lingua il cui significato
non ci è del tutto evidente: un linguaggio in cui ogni sillaba
è al tempo stesso peritura e imperitura.
I simboli sono segni del fatto che, nondimeno, la coscienza
del nostro valore ci è data. Essi sono, da un lato, proiezioni
di forme appartenenti a una dimensione nascosta, ma anche
riflettori con cui lanciare i nostri segnali nell’ignoto, e in una
lingua gradita agli dèi.
E questi passatempi enigmatici, questa catena di sforzi mira-
bili in cui consiste il nocciolo della nostra storia – una storia
di battaglie fra uomini e dèi (io il Dio, voi gli uomini…) – so-
no la sola cosa che renda l’uomo degno di studio.
(E. Junger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella Luna)