UNA LETTERA

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(Dopo…anni, secoli, millenni di storia, rileggo una delle tante lettere

scritte, e capisco che allora, caro amico, eravamo un Impero, uomini

convinti delle proprie ragioni di grandezza, potenza, immortalità,

infallibilità, poi nella crescita esponenziale dell’uomo, quell’avvicinarsi

alla cosa prima della nostra venuta …non su una terra nuova, ma

bensì su questa terra così imperfetta, mi rende partecipe che non uno,

ma tutti i motivi spirituali e le esigenze dell’anima sono in pericolo,

…ed il cieco ed inutile fondamentalismo e la sua grandezza e brama

di potere, sono come un nuovo Impero; ma comprendere ed unire ad

una pacifica convivenza…, anche se la cosa parrà impossibile, è il sogno

più grande e duraturo di un governante. Se motivi e ragioni di una fede

possono far apparire il sogno impossibile, credo che la capacità di

riconoscere in quelle che più temiamo, connessioni di reciproca unione

e corrispondenza che annullano e mortificano, di conseguenza, le contraddizioni

di ogni cieco ed assoluto fondamentalismo, possano ristabilire e rinvigorire

il filo storico che le deve congiungere ad un unico fine di speranza e salvezza,

tutto il resto è manipolo di fanatici al soldo di chissà chi….

Valorizzare i legami non può che rendere il nostro compito vero, assoluto,

indelebile, e duraturo, motivo ora del vero Impero…della pace, conoscenza,

uguaglianza, fratellanza.

E’ questa la vera guerra, la vera battaglia più dura da combattere, senza armi,

senza violenza, senza odio, senza discriminazione, la guerra più difficile,

più impegnativa, perché nessuna arma è in grado di affrontare senza il

il dono della conoscenza, nemici figli di quelle tenebre, che io e te

combattiamo da sempre. Per il resto grazie per la tua attenzione e

rinnovo la nostalgia per la tua bella e fertile terra.

Proseguo ora il mio racconto, le mie…memorie. Che da esse si possano

imparare i motivi della pace, giammai della discordia…, eravamo come

fanciulli allora. Siamo uomini ora! Un domani…)

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Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici

dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso.

Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o

il riso lascivo e insolente d’un paggio; l’imperatore, posando sul tavolo una

mano sempre più malferma, murato in un’ebrezza in parte simulata,

sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell’Asia, sprofondava gravemente

nelle sue visioni.

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Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi,

m’avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là

del Caucaso le vie settentrionali dell’Asia. Quell’incantesimo al quale l’imperatore

ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l’aveva

subito prima di lui; egli aveva realizzao pressappoco gli stessi sogni, e ne

era morto, a trent’anni. Ma l’insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva

appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni

pratiche per giustificare l’assurdo, per indurre all’impossibile. Da secoli

ci preoccupava il problema dell’Oriente; sembrava naturale risolverlo una

volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l’India e con il misterioso

paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli

esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei

Parti. Una volta annientato l’impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsadici,

avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l’Asia

unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient’altro che una provincia

di più. Il porto di Alessandria d’Egitto era l’unico dei nostri sbocchi verso

l’India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì ci

trovammo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle

comunità ebraiche.

Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare

quella città insicura. Ma tutte quelle regioni non m’avevano persuaso

del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale

e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria,

creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso,

ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L’Asia, quel mondo

tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di

sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in

questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più

profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo.

Al di là dell’Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei

miraggi, le sabbie ove si affondava, le strade che finiscono senza

metter capo in nessun luogo.

(M. Yourcenar, Memorie di Adriano)

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UNA LETTERAultima modifica: 2011-01-08T08:00:00+01:00da giuliano106
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