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A causa della sua immensa mole e della quantità di olio che poteva
esserne estratto (un eseplare grande poteva darne persino 3000 galloni,
cioè 12.000 litri circa) la balenottera azzurra fu dapprima il bersaglio
principale dei norvegesi nel Mare delle Balene.
I norvegesi si dedicarono alla caccia di questi cetacei con tale ferocia e
competenza che ancora nel 1905 la loro flotta fu in grado di massacrare
265 balenottere azzurre in un’unica stagione, ma nel 1908 una flotta ben
più consistente poté trovarne e ucciderne solo 36. Sotto tutti i punti di
vista, la balenottera azzurra si era commercialmente estinta nel Mare delle
Balene a quell’epoca; così i norvegesi cominciarono a dare la caccia alla
balenottera comune e a ciò che restava della megattera nodosa.
E’ a Millais che dobbiamo la seguente significativa descrizione della caccia
dei norvegesi alla megattera nodosa:
Le balene manifestano un insolito attaccamento ai piccoli. Li assistono e tentano di difenderli
se sono gravemente ferite. Quest’effetto è contraccambiato dal piccolo… Il comandante Neilson
si trovava a caccia nella baia di Hermitage quando incontrò un’enorme megattera nodosa
femmina con il suo piccolo. Una volta ‘agganciata’ la madre, vedendo che era esausta, il
comandante diede l’ordine di calare la barca per fiocinare l’animale. Ma quando la barca si
avvicinò alla balena ferita, il piccolo continuò a muoversi intorno al corpo della madre
frapponendosi tra la barca e la preda. Tutte le volte che il primo ufficiale tentava di mettere
in azione la fiocina, il piccolo interveniva tenendo a bada per oltre mezz’ora il ramponiere,
rivolgendo la coda verso la barca e sbattendola furiosamente sull’acqua quando questa si
avvicinava. Alla fine, la barca dovette essere rihiamata per evitare un incidente.
Un nuovo arpione venne sparato contro la madre, che morì.
Il fedele piccolo si adagiò a questo punto a fianco del corpo della madre morta dove
venne colpito in malo modo dalle fiocine, ma non ucciso. Data la posizione nella
quale si trovava, fu impossibile ucciderlo, per cui un’arpione gli fu sparato contro.
Le grandi balenottere scomparvero dalle acque di Terranova (non già per
rifugiarsi in qualche lontano santuario, come pretendono certi apologisti per
giustificare l’assenza degli animali) per finire nei calderoni, nelle pentole a
pressione e nelle attrezzature per la conversione in farina di pesce dell’industria
della caccia alla balena.
Lo scoppio della prima guerra mondiale diede un po’ di sollievo, mentre gli
uomini concentravano le loro energie distruttive gli uni contro gli altri. A quell’
epoca, le grandi balenottere dell’Atlantico nordoccidentale avevano proprio un
disperato bisogno di tregua. Dall’inizio dell’offensiva norvegese nel 1898, più
di 1700 balenottere azzurre, 6000 balenottere comuni e 1200 megattere nodose
erano state ‘raccolte’ nel Mare delle Balene. Questi numeri, bisogna tenerlo
presente, rappresentano solo le balene consegnate agli stabilimenti di lavorazione.
Essi non tengono conto delle balene mortalmente ferite, dei piccoli morti di
fame dopo l’uccisione della madre e neppure delle balenottere che perirono
in seguito alle ferite infette.
Se insisto su questo punto, lo faccio perché sembra che le balene siano singolarmente
indifese nei confronti dei batteri e dei virus. Pare che non dispongano di un
sistema immunitario di protezione. Ciò costituisce un fattore di mortalità
raramente menzionato nelle discussioni sulla caccia alle balene e di solito
ignorato nelle statistiche ufficiali che registrano i danni inflitti dalle baleniere.
I balenieri, invece, si sono sempre resi ben conto del fattore ‘infezione’ e se ne
sono serviti a proprio vantaggio sin dai tempi remoti.
Già nel IX secolo gli abitanti dei fiordi norvegesi attiravano branchi di balenottere
minori nelle insenature più profonde dei loro lunghissimi fiordi, impedendone
poi la fuga con le reti. Gli animali intrappolati venivano attaccati non con
giavellotti o lance ma con proiettili sparati da balestre, proiettili specialissimi
che erano stati di proposito intinti in botti piene di carne in putrefazione.
Gli organismi ‘inoculati’ in tale maniera nella balena erano così virulenti che la
balenottera infetta moriva in tre o quattro giorni, con il corpo ridotto a un’
unica massa di tessuti in preda alla cancrena e alla setticemia.
La carne delle carogne era naturalmente priva di valore, ma il grasso restava
incontaminato e veniva estratto per produrre olio da lucerna, pece d’olio e
altri prodotti simili. Le balenottere boreali venivano ancora uccise in alcuni
fordi nei pressi di Bergen con lo stesso barbaro metodo fino all’inizio del
nostro secolo.
Verso il 1908, dopo aver sterminato le grandi balenottere su entrambi i versanti
del Nord Atlantico, sciami di battelli-killer norvegesi scesero oltre l’equatore nell’
Atlantico meridionale. Da qui si diffusero ben presto nel Pacifico e poi nell’
oceano Indiano. Alle loro spalle sorsero stabilimenti costieri e si diffuse come
un miasma il puzzo della ‘megamorte’. Il massacro delle balene dei mari tropicali
temperati assunse proporzioni senza precedenti: comportò la virtuale eliminazione
in pochi anni delle balene nere australi, delle tribù finora indenni di megattere e
l’estinzione quasi completa delle balene grigie nel Pacifico settentrionale.
Ma non era abbastanza.
L’industria norvegese della caccia alla balena diventava una specie di moderno
Moloch dall’appetito insaziabile. Ed era rimasto ancora un grande oceano da
sconvolgere. La flotta dei Killer si spinse ancora più a sud finché non trovò,
al largo dell’estrema punta dell’America meridionale, una tale quantità di
balene quale non si era più vista sin da quando i primi baschi si erano spinti
nel Mare delle Balene quattro secoli prima.
Nel 1912, 62 baleniere d’assalto salparono dalle basi sulle Falkland e sulle
Orcadi australi, spazzando le acque circostanti con tale rapacità da consegnare
nell’estate di quell’anno agli stabilimenti per la lavorazione oltre 20.000
carcasse di balene. Circa l’80% di queste era costituito da animali della
specie meattera nodosa, il resto da un misto di balene franche, balenottere
azzurre e balenottere comuni. Poiché le balene erano presenti con incredibile
abbondanza, i singoli balenieri potevano ucciderne con facilità decine e più
in una sola giornata. E siccome potevano farlo, spesso lo facevano. Una
baleniera salpata dalle Falkland uccise 37 balene tra l’alba e il tramonto.
Le carcasse vennero munite di opportune bandierine e lasciate andare alla
deriva per essere recuperate quando il battello, finito il massacro della
giornata, fosse pronto a ritornare allo stabilimento. Venivano recuperate se
si riusciva ancora a trovarle. Troppo spesso si perdevano nel buio o nella
nebbia, o erano portate via dal vento e dalle correnti. Se prendiamo in
considerazione le perdite dovute a questo solo motivo, insieme alla mortalità
abituale delle balene ferite e dei piccoli rimasti orfani, le vere dimensioni del
massacro cominciano a scuotere davvero la fantasia.
La lavorazione delle carcasse era improntata agli stessi criteri di spreco dell’uccisione
degli animali. Siccome le carcasse erano tante, gli uomini tagliavano via solo
gli strati di grasso più spessi della schiena e del ventre, come racconta Ommaney:
Le carogne venivano lasciate andare alla deriva nel porto. Le carcasse finivano prima o poi
all’asciutto per decomporsi sulla costa, e ancora oggi l’insenatura di Deception Harbour
nelle Shetland australi e molte baie e insenature dell’isola Georgia del Sud circondate da
banchi di ossa, crani, vertebre e costole sbiancati, un momento alla rapacità della specie
umana.
Il puzzo aleggiante nell’atmosfera di questi porti era leggendario.
Ma il direttore di uno stabilimento americano per la lavorazione delle balene
proclamò non tanto tempo fa:
E chi se ne frega? Quello è il puzzo dei soldi, e per me è un buonissimo odore.
(F. Mowat, Mar dei massacri)
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