I musicisti ambulanti di quel periodo avevano un grande
successo, perché il pubblico era più avido di imparare le
canzoni alla moda piuttosto che concentrasi sulle opere
dei maestri del passato.
Un documentario datato 1929 – Nogent, eldorado della do-
menica – ci mostra oltre l’atmosfera delle balere sulla riva
della Marna, dove il giovanissimo Tony Murena aveva
appena debuttato al Casinò du Viaduc, la popolarità dei
cantanti di strada, muniti di megafono e accompagnati
dalla fisarmonica, dal banjo e dalla batteria.
L’autore di questo cortometraggio, Marcel Carné, chie-
derà nel 1947 a Django di comporre la musica del film
La Fleur de l’age che però rimase incompiuto.
Strano fenomeno il destino di questi artisti, dalle espres-
sioni e dagli ambienti così estranei, che proseguono al-
la cieca, in balia di vocazioni e tribolazioni esistenziali,
finché un giorno convergono verso uno stesso punto e
danno vita a un’opera, uno stile, una scuola.
Come fu possibile l’abbinamento fecondo di Django,
musicista di origini e caratteri così diversi?
Secondo Grappelli, i fratelli Reinhardt avevano una certa
notorietà nel suo quartiere di Rochechouart come musici-
sti ambulanti; anche lui nei giorni magri chiedeva l’elemo-
sina, e così si erano incontrati alla svolta di un cortile.
Più tardi, nel 1931, aveva ascoltato di nuovo i due manou-
che nella terrazza del caffè Le Cancan a Pigalle, punto d’in-
contro dei musicisti dei balli parigini. Django, con la mano
sinistra fasciata, suonava ancora il banjo e Joseph la chitar-
ra.
In realtà, sempre apprezzato per la sua potenza sonora, il
famoso banjo persisterà tra i musicisti di strada fino alla
fine degli anni Trenta; ci dimentichiamo troppo spesso che
la Parigi di quei tempi non era silenziosa e vi erano degli
ingorghi mostruosi di cui oggi non abbiamo idea.
Le strade pavimentate risuonavano dello scoppiettìo delle
macchine, del clicchettìo delle carrozze, dello sferragliamen-
to dei tram, tutto ciò ravvivato dalle grida dei piccoli artigi-
ani e dal baccano dei clacson delle automobili.
La chitarra e il violino non avevano molte possibilità di essere
ascoltati. Per questa ragione, gli strumentisti a corda preferi-
vano suonare nei cortili dei palazzi dove l’acustica era miglio-
re.
Pensando alla silhouette elegante di Stéphane Grappelli non
riusciamo a immaginarcelo come violinista errante; eppure lui
ricorda di aver mendicato, se non altro per comprare una sca-
tola di fiammiferi.
‘Per andare a fare la spesa andavo a dare lezioni’, ironizza oggi.
Vita più tormentata di quel che sembra, tutto sommato, rispet-
to al suo eterno sorriso e alla serenità apparente della sua mu-
sica: dopo un’infanzia ‘alla Dickens’, come nota con una certa
amarezza, Stéphane si ritrovò in balìa di se stesso.
Nato a Parigi nel 1908 a Lariboisière, ‘l’ospedale dei poveri’
dove Django fu ammesso d’urgenza vent’anni dopo, comin-
ciò a dieci anni a suonare il violino che un vicino calzolaio,
mandolinista a tempo perso, aveva regalato al padre.
Dopo una settimana, il piccolo Stéphane eseguiva già la Se-
renata di Toselli con una certa destrezza.
Debutto così promettente che al giovane prodigio fu propo-
sta una sostituzione in un ballo di capodanno a Etampes.
Fece diversi mestieri, prima di ritrovarsi nel 1924, all’età di
quindici anni, in un gruppo ambulante napoletano, chitar-
re e banjo-mandolini, degno del futuro Quintette a corda.
Ma il musicista in carica, un chitarrista di nome Lopez,
stravedeva solo per le barcarole e le tarantelle.
E di nuovo la vita alla giornata di un ragazzino di Parigi, il
cui padre, latinista distratto, si immergeva in Virgilio, men-
tre lui si tuffava nella vita per guadagnarsela.
Suonò così nei cortili, nei ristoranti e durante i banchetti pol-
che piccate e serenate, finché un giorno riuscì a farsi assume-
re nelle orchestre di fossa dei cinema muti, grazie alle sue
conoscenze di solfeggio, che aveva imparato dietro consiglio
del padre.
Con il posto di ‘concertino’ (secondo violino), al Teatro Gau-
mont, sui boulevard, Grappelli poté perfezionare la sua tec-
nica presso un certo Meunier, primo violino, e iniziarsi al
pianoforte suonando dei ragtime e improvvisando durante
gli intervalli.
Mestiere difficile quello della fossa; perché se a volte la mu-
sica lasciava il tempo al musicista di seguire il film, con cer-
te partiture più complesse, quale La Congiura dei potenti di
Henri Rabaud, che Grappelli ricorda ancora con terrore, non
era proprio il caso di ammirare il talento di Charles Dullin.
E poi c’erano tre proiezioni al giorno.
Ma quello stesso anno 1925, Stéphane Grappelli fece una sco-
perta decisiva frequentando, lì vicino, un negozio di apparec-
chi a dischi, che funzionavano con le monetine e diffondeva-
no il jazz: Bix Beiderbecke, Eddie Lang e Frankie Trumbauer.
Si entusiasmò per questa nuova musica e comprò un piccolo
fonografo per suonarci senza sosta le cere di Louis Armstrong
e, più tardi quelle di Art Tatum, il suo pianista prediletto.
(Billard/Antonietto, Django Reinhardt il gigante del jazz tzigano)