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L’evaporazione dalla pianura alluvionale era troppo modesta,
e troppo calda e asciutta l’aria sovrastante, perché nubi impo-
nenti si formassero in loco, mentre le grandi perturbazioni tras-
portate dalle correnti atmosferiche consumavano quasi tutta l’-
energia molto prima di giungere sul delta del Nilo.
La parmanenza nelle terre semidesertiche del Sinai e di Canaan
espose Mosé e i suoi seguaci non solo alle fluttuazioni stagiona-
li della pioggia, ma anche all’inedito spettacolo dei colossali cu-
mulonembi convettivi, le divine ‘colonne di nubi’ che comincia-
rono a mostrarsi agli ebrei man mano che si allontanavano dalla
bassura deltizia del Goshen.
Fu un’esperienza improvvisa che lasciò un segno durevole, an-
che perché le intemperie continuarono a visitare con regolarità
la loro nuova dimora.
Agli occhi degli esuli che composero i libri mosaici lo spettacolo
delle nubi, potenti e imprevedibili, diventò il simbolo della na-
tura incerta, strana ed entusiasmante della loro nuova situazione.
Come quegli uomini abituati all’irrigazione fluviale non tardaro-
no a comprendere, per fondare un’agricoltura basata sulle preci-
pitazioni essi avrebbero dovuto interrogare il cielo, e apprende-
re la lingua in gran parte sconosciuta.
Udiamo così le loro domande, poste con crescente urgenza nei
libri di Enoch e Giobbe, echeggiare nei secoli, evitate o lasciate
senza risposta o mutate in cosmologia, in una grande catena di
ragionamenti inesorabilmente attraverso una serie di pietre mi-
liari del pensiero metereologico.
Tra le quali una delle più importanti fu la drammatica interpun-
zione del dicembre 1802, in cui per la prima volta le nubi furono
denominate in modo convincente da un chimico trentenne in un
seminterrato londinese.
Prima di allora furono compiuti tentativi più razionali di svela-
re i misteri dell’atmosfera e di renderne le manifestazioni meno
imprevedibili e minacciose.
Poco si guadagnava, infatti trasformando le nubi in dimore di
dèi remoti e vendicativi, anche se quasi tutte le culture hanno
percorso per qualche tempo questa strada. In quanto confine
ideale tra terra e cielo, le nuvole sono state fonte di miti, oltre
che di delimitazione, rispetto ad altre realtà.
Quali mondi, infatti, non potevano celarsi dietro di esse alla
vista dei mortali?
Nella mitologia scandinava Frigg, sposa di Odino, era signora delle
nubi.
Nell’elevata Fensalir, la Sala delle Nebbie, con ruota e canocchia e
infinita pazienza ella filava i fili d’oro tessuti dai venti negli orli ro-
sa e arancio dei cirrostrati, che i mortali possono ammirare all’alba
e al tramonto.
Quelle nubi alte erano a lei riservate e intoccabili per gli altri dèi,
sebbene al momento della creazione il cervello del gigante di ghiac-
cio Ymir fosse stato proiettato nell’aria estiva dando origine ai fami-
liari cumuli delle quote inferiori.
Così, almeno, insegnava Alvis, il meno onniscente che recitava i
nomi coi quali ‘le nubi, proprietarie della pioggia’ erano note ‘in
tutti i mondi e in ciascuno’: ‘Gli uomini che chiamano nuvole’; gli
dèi ‘possibilità di pioggia’ e i Vanir ‘nibbi dei venti’.
I giganti le chiamano ‘speranza di pioggia’; gli elfi ‘potenza del
tempo’ e in Hel (l’Ade scandinavo) sono conosciute come ‘elmi
dei segreti’.
(R. Hamblyn, L’invenzione delle nuvole)