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Da http://giulianolazzari.myblog.it
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(“I sette cieli e la terra e tutto
ciò che vi si trova celebrano
le Sue lodi, e non v’è cosa
alcuna che non celebri le
Sue lodi, ma voi non comprendete
le loro lodi”. Ghazali)
Non mi è chiaro neppure dove abbia inizio
di preciso la mia memoria; a volte si
estendono di fronte a me panorami
agghiaccianti di anni senza numero,
mentre altre volte mi sembra che il
presente non sia che un semplice
attimo isolato in una eternità grigia e senza forma.
Non so neppure con certezza come sto comunicando questo messaggio.
Mi accorgo di parlare ma ho la vaga impressione che un agente mediatore di qualche
sorta, strano e forse terribile, sarà necessario per portare ciò che dico ai luoghi dove
desidero essere udito.
Anche la mia identità è avvolta nelle nebbie dell’incertezza.
Sembra che io abbia subito un grave shock: un’inattesa e mostruosa conseguenza, forse,
di qualcuna delle mie uniche e incredibili esperienze, che si snodano secondo cicli
interminabili.
Tutti questi cicli di esperienze, naturalmente, hanno avuto per origine quel libro roso
dai tarli. Ricodo quando lo trovai, in una bottega fiocamente illuminata sulla riva del
fiume, là dove la corrente limacciosa e inquinata sembrava attrarre una perenne coltre
di nebbia.
L’edificio era assai antico, tappezzato sino al soffitto di scaffali pieni di volumi in disfacimento,
in ciascuna delle stanze uniformamente prive di finestre. C’erano anche mucchi informi
di libri abbandonati sul pavimento o sistemati in rozze casse di legno.
Fu in uno di questi mucchi che trovai la ‘cosa’. Non ne ho mai saputo il titolo, perché
mancavano le prime pagine. Ma quando lo presi mi cadde di mano, aprendosi verso
la fine: e ciò che vidi fece vacillare i miei sensi.
C’era una formula – una specie di elenco di cose da dire e da fare – che riconobbi come
qualcosa di tenebroso e proibito; qualcosa di cui avevo letto in precedenza solo in frasi
evasive, trasudanti un misto di fascino e orrore, scritte da quanti avevano osato scavare
entro i più gelosi segreti dell’universo: singolari figure dalle cui opere, da tutti sfuggite,
io ero un lettore attento e appassionato.
Quella formula era una chiave – o una guida – verso certe ‘soglie’ o stati di transizione
dei quali i mistici hanno sognato e sussurrato sin da quando la nostra razza era giovane;
soglie che conducono verso ignoti stati di libertà, e verso scoperte al di là delle tre
dimensioni e dei reami della vita e della materia a noi già noti.
Da secoli, ormai, nessuno ne ricordava i passaggi essenziali, né sapeva dove cercarli:
ma quel libro era davvero molto antico. Non un torchio da stampa, ma la mano di un
monaco oscurato dalla follia aveva tracciato quelle terribili frasi latine in una grafia
onciale incredibilmente arcaica.
Ricordo l’occhiata furtiva e il sogghigno del vecchio che abitava quel posto quando
sollevai il libro, e ricordo il curioso gesto che fece con la mano quando me lo portai
via. Non volle essere pagato, e solo molto tempo dopo compresi perché.
Mentre tornavo verso casa, attraversando le vie strette e gonfie di nebbia dei quartieri
prospicienti il fiume abbi l’impressione spaventosa che dei passi silenziosi e leggeri mi
seguissero costantemente. Le case fatiscenti, vecchie di secoli, su entrambi i lati della
via, sembravano vive, e trasudavano una nuova, morbosa malignità: come se si fosse
all’improvviso riaperto un canale, da tempo chiuso, attraverso il quale una conoscenza
malefica si riversava sulla Terra. Mi sembrava che quelle mura, quegli abbaini sporgenti
di mattoni scoloriti, intonaci butterati da muffe, travi annerite – con finestre simili ad occhi
spalancati, le cornee lucide come diamanti – a stento si trattenessero dall’avanzare verso
di me per scacciarmi…eppure non avevo letto che un piccolissimo frammento di quella
formula blasfema, prima di chiudere il libro e portarlo via.
Ricordo, poi, in che modo lessi tutto il volume: il volto bianco come gesso, chiuso nella
stanza sui tetti nella quale da tempo conducevo le mie strane ricerche.
Il grande edificio era silenzioso, perché soltanto dopo mezzanotte avevo iniziato la mia
lettura. Mi sembra di ricordare che allora avevo una famiglia – anche se i dettagli sono
assai incerti – e so che c’erano anche molti servitori. Quale anno fosse, non posso dirlo:
da allora, ho conosciuto ère e dimensioni senza numero, ed il mio concetto di tempo
si è frammentato e ricomposto in maniera diversa.
Lessi a lume di candela – ricordo il gocciolare incessante della cera – e di tanto in tanto
giungevano sino a me rintocchi di lontani campanili.
Se rammento bene, seguivo, quei rintocchi con ansiosa attenzione, perché temevo che
ad essi si sovrapponesse una nota lontana ed estranea.
Quindi, vennero per la prima volta il rumore di colpi ed il fruscio dietro la finestra che
si apriva sugli alti tetti dalla città. Vennero mentre mormoravo il nono verso di quell’
antico incantesimo: fui scosso da un tremito, perché sapevo di che si trattava.
Perché chi passa attraverso una soglia acquista un’ombra, e dopo non è mai solo.
Io avevo evocato qualcosa, ed il libro era davvero ciò che sospettavo.
Quella notte attraversai la soglia.
Mi trovai in un vortice nel quale erano distorti il tempo e la percezione; quando, la
mattina seguente mi risvegliai nella stanza sui tetti, vidi nelle pareti, negli scaffali e
nei mobili strani particolari che non avevo mai osservato prima.
Da allora, il mondo non mi apparve più come quello che conoscevo.
Mescolate con il panorama del presente c’erano sempre delle schegge del passato e dei
frammenti del futuro: anche il più familiare tra gli oggetti assumeva sembianze ignote
nella nuova prospettiva apertasi di fronte alla mia percezione ingigantita.
Dopo di allora continuai a procedere come in un sogno fantastico, tra forme sconosciute
o appena riconoscibili; e ad ogni nuova soglia che varcavo, sempre meno chiaramente
potevo riconoscere gli oggetti propri della sfera ristretta alla quale ero stato sino allora
legato.
Ciò che vedevo io, nessun altro poteva scorgerlo; trascorrevo la mia esistenza nel silenzio
e nella solitudine, per timore di essere considerato un folle.
(H.P. Lovecraft)