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Per la maggior parte degli esseri umani, specie quelli che vivono nelle moderne
comunità urbane e suburbane, la più diretta forma di contatto con gli animali
non umani si verifica all’ora dei pasti: noi li mangiamo.
Questo semplice fatto costituisce la chiave del nostro atteggiamento verso gli
animali, e anche la chiave di ciò che ciascuno di noi può fare per cambiare tale
atteggiamento. L’uso e l’abuso degli animali allevati a scopo alimentare supera
di gran lunga, per numero totale di animali interessati, ogni altro tipo di
maltrattamento. Più di cento milioni di bovini, suini e ovini sono allevati e
macellati ogni anno solo negli Stati Uniti; e per il pollame si raggiunge
l’impressionante cifra di cinque miliardi. E’ qui, sulla nostra tavola da pranzo
e nel supermercato o nella macelleria sotto casa, che entriamo direttamente
in contatto con il più esteso sfruttamento delle altre specie che mai sia esistito.
In generale, noi ignoriamo l’abuso di creature viventi che sta dietro a ciò che
mangiamo. L’acquisto di cibo in un negozio o in un ristorante è il culmine di
un lungo processo di cui ogni parte, a eccezione del prodotto finale, viene
accuratamente celata ai nostri occhi. La carne e il pollo che scopriamo sono
imballati in linde confezioni di plastica, e difficilmente sanguinano.
Non c’è ragione di associare tali involti a un animale vivo, che respira, cammina,
soffre. Gli stessi termini che utilizziamo ne nascondono l’origine: noi mangiamo
non bulls (tori) o cows (mucche) ma beef; non pigs (maiali) ma pork.
Il termine meat è in se stesso ingannevole. Originariamente indicava qualsiasi
cibo solido, non necessariamente la carne degli animali. Tale uso del vocabolo
permane in un’espressione come nut meat (polpa di noce) che sembra implicare
un’imitazione di flesh meat (polpa di carne), ma in effetti ha altrettanto diritto
di chiamarsi meat a titolo proprio. Usando il più generico meat noi esitiamo ad
affrontare il fatto che ciò che stiamo mangiando è in realtà FLESH.
Questi camuffamenti verbali rappresentano semplicemente lo strato superficiale
di una ben più profonda ignoranza sull’origine del nostro cibo. Si pensi alle
immagini evocate dalla parola ‘fattoria’: una casa; una stalla; una frotta di galline
che razzolano nel cortile, sorvegliate da un gallo impettito; una mandria di
mucche ricondotte dai campi per la mungitura; e forse una scrofa che grufola
nel frutteto, con una nidiata di maialini che le corrono dietro squittendo
allegramente.
Pochissime fattorie sono mai state idilliache quanto la tradizionale oleografia vorrebbe
farci credere. Noi continuiamo tuttavia a immaginarcela come luoghi ameni, lontani
dalla vita attiva e tesa al profitto che conduciamo in città. Tra quei pochi cui capita
di pensare alla vita degli animali nelle fattorie di campagna, non molti sono al corrente
dei moderni metodi di allevamento. C’è chi si domanda se la macellazione sia indolore,
e chiunque si sia trovato a viaggiare sulla strada dietro un camion carico di bestiame
saprà probabilmente che gli animali d’allevamento vengono trasportati in condizioni
di estremo affollamento ma pochi sospettano che il trasporto e la macellazione siano
qualcosa di diverso dalla rapida e inevitabile conclusione di una vita comoda e appagante,
una vita che comporta i naturali piaceri dell’esistenza animale senza le difficoltà che
gli animali selvatici devono affrontare nella lotta per la sopravvivenza.
Queste rassicuranti supposizioni hanno ben poca relazione con la realtà dell’allevamento
moderno. Tanto per cominciare, l’allevamento non è più nelle mani di semplice gente
di campagna: nel corso degli ultimi cinquant’anni, l’ingresso nel settore di grandi
società e l’introduzione di metodi di produzione basati sulla catena di montaggio hanno
trasformato l’agricoltura in agro-industria. Il processo ebbe inizio quando le grandi
imprese acquistarono il controllo della produzione di pollame, un tempo appannaggio
della moglie del contadino. Oggi, cinquanta grandi società controllano praticamente
tutta la produzione avicola degli Stati Uniti.
(…….) Le grandi società e coloro che devono sostenerne la concorrenza non sono certo
interessati all’armonia fra piante e animali e natura. La loro è un’attività competitiva,
e i metodi che si adottano sono quelli che riducono i costi e aumentano la produzione.
Così, l’allevamento è oggi ‘allevamento industriale’: gli animali sono trattati come
macchine che convertono foraggio a basso prezzo in carne ad alto prezzo, e qualsiasi
innovazione verrà adottata se porterà a un ‘rapporto di conversione’ più conveniente.
(……) Una volta che gli animali non umani vengono posti al di fuori della nostra sfera
di considerazione morale e sono trattati come cose da usare per soddisfare i nostri
desideri, il risultato è prevedibile.
(Peter Singer, La vita come si dovrebbe)