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La nonna era un’ardente seguace della chiesa Avventista
del Settimo Giorno, ed io costretto a simulare un’adora-
zione per il suo Dio; era questo il compenso che’ella esi-
geva da me per il mio mantenimento.
Gli anziani della sua setta commentavano un Vangelo
sovraccarico d’immagini d’immensi laghi di fuoco e-
terno, di mari prosciugati, di valli piene di ossa calci-
nate, di un sole che inceneriva, di una luna sanguigna,
di stelle che cadevano sulla terra, di un bastone che si
tramutava in un serpente, di voci che parlavano delle
nubi, di uomini che camminavano sull’acqua, di Dio
che cavalcava i venti, di acqua cambiata in vino, dei
morti che si alzavano e tornavano vivi, dei ciechi che
ci vedevano, degli storpi che si mettevano a cammina-
re; una salvazione piena di bestie fantastiche, con mol-
teplici teste, corna, occhi e piedi; sermoni che parlavano
di statue con la testa d’oro, spalle d’argento, gambe d’ot-
tone e piedi d’argilla; una narrazione cosmica che inco-
minciava prima del principio dei tempi e finiva con le
nubi del cielo che si dissipavano al Secondo Avvento di
Cristo; cronache che si concludevano con l’Armageddon;
drammi affollati dai miliardi e miliardi di esseri umani
che erano vissuti o morti nei tempi e finalmente Dio li
giudicava per la vita o per la morte….
Mentre ascoltavo il vivido linguaggio dei sermoni ero spinto
ad una fede emotiva, ma non appena uscivo dalla chiesa e
vedevo lo smagliante splendore del sole e sentivo la vita pal-
pitante della gente per le strade mi persuadevo che nulla di
tutto quello era vero, che nulla sarebbe accaduto.
E una volta ancora conobbi la fame, la fame pungente, la
fame che metteva nel mio corpo un’irrequietezza senza
scopo, la fame che mi rendeva impaziente, che mi faceva
ardere di collera, che faceva balzar l’odio dal mio cuore
come il dardo della lingua d’un serpente, la fame che
creava in me esigenze strane.
Qualsiasi cibo potessi sognare non mi appariva nean-
che per la metà così delizioso quanto i wafer vanigliati.
Ogni volta che avevo un nichel correvo all’alimentari
dell’angolo e mi comperavo una scatola di wafer vani-
gliati, e poi me ne tornavo verso casa, adagio, in modo
da poterli mangiare senza doverne far parte ad alcu-
no.
Poi mi mettevo a sedere sui gradini della porta di ca-
sa e sognavo di mangiarne un’altra scatola; il desiderio
diventava poi così acuto che mi dovevo forzare a far
qualcosa per dimenticare.
Imparai un sistema di bere acqua che, avessi o no de-
siderio di acqua, mi faceva sentir pieno per un po’ di
tempo; mettevo la bocca sotto un rubinetto e lasciavo
venir giù l’acqua a tutta forza, facendo entrare la vio-
lenta cascata direttamente nello stomaco fino a riem-
pirlo.
Alle volte lo stomaco mi doleva, ma per un poco mi sentivo
pieno.
In casa della nonna non si mangiava mai carne di maiale o
di vitella e raramente carne di qualsiasi sorta.
Di rado si mangiava pesce, e in questo caso soltanto quello
pieno di scaglie e di spine. Lievito non se usava mai; addu-
cevano che contenesse una sostanza chimica dannosa per
l’organismo.
Per colazione mangiavo polenta al sugo, fatta di farina e
lardo, che continuavo poi a sentirmi sullo stomaco per ore
ed ore.
Dovevamo prendere continuamente bicarbonato di soda
contro l’acidità di stomaco.
Alle quattro del pomeriggio mangiavo un piatto di verdu-
ra condita al lardo. Alle volte, la domenica, compravamo
dieci soldi di carne di bue che normalmente risultava im-
mangiabile.
Il piatto favorito della nonna era un arrosto di pistacchi
ch’ella faceva rassomigliare alla carne, ma che aveva un
sapore alquanto diverso.
La mia posizione in casa era delicata; io ero un inferiore, un
dipendente non invitato, un congiunto che non professava
alcuna religione e la cui anima si trovava in pericolo morta-
le.
La nonna, basando la sua logica sulla giustizia di Dio, asseri-
va decisamente che un peccatore, in una famiglia, poteva at-
tirare l’ira del Signore sull’intera casa, dannando tanto il
colpevole che l’innocente, e in più di un’occasione interpre-
tò la lunga infermità di mia madre come il risultato della
mia mancanza di fede.
Io divenni abile nell’ignorare queste minacce cosmiche, e
mi si sviluppò una sorta d’insensibilità verso tutte le pre-
diche metafisiche.
(Richard Wright, Ragazzo negro)