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Per quattro anni, Pechino accompagnò il Tibet verso un maggiore
grado di autonomia e una rinascita religiosa che erano diventati
inimmaginabili da quando il Dalai Lama era fuggito in esilio nel
1959.
Furono eliminate le tasse e il Paese ritornò alla proprietà privata,
dopo che vennero smantellati gli ultimi pezzi del sistema delle
comuni e i resti del Grande balzo in avanti. I cambiamenti ebbero
un effetto immediato e positivo sul benessere dei tibetani.
Al centro di quelle politiche c’era la consapevolezza che fosse pos-
sibile ricondurli all’ovile del comunismo attraverso il progresso e
lo sviluppo economico più che con la forza bruta.
Ma alla metà degli anni’ 80, forse sentendosi sicura degli sforzi po-
litici fatti, Pechino cambiò la politica di riforme, allontanandosi dal-
la ricerca di progresso per i tibetani e sostituendola con un’aggressi-
va modernizzazione economica, definita su scala nazionale più che
locale.
In quegli anni di riforme, però, i tibetani avevano rafforzato la loro
identità culturale. La rinascita dei monasteri e la fiorente cultura
religiosa contribuirono alla crescita di un senso di indignazione
nei confronti dei cinesi e un inorgoglito desiderio di protestare a
voce alta.
Nel settembre del 1987, i monaci inferociti dalla risposta al vetriolo
della Cina agli sforzi del Dalai Lama per risvegliare la consapevo-
lezza internazionale sulla situazione tibetana, protestarono fuori
dal tempio di Jokhang.
Più di una decina furono arrestati e, di conseguenza, scoppiò una
rivolta di solidarietà.
I tibetani assaltarono e incendiarono la stazione di polizia del
Barkhor. La polizia cinese sparò sulla folla dai tetti, uccidendo
dieci persone e ferendone moltissime altre.
Le agitazioni e la tensione continuarono per un anno e mezzo.
Intanto il Dalai Lama conduceva una campagna di opinione, ri-
volta ai governi occidentali, per far conoscere la causa dei diritti,
se non dell’indipendenza, del Tibet, che gli fece vincere il Premio
Nobel per la pace nel 1989.
Ancora una volta, Pechino fu costretta a reistaurare l’ordine sulle
sue rauche frontiere e nominò segretario del partito nella TAR Hu
Jintao, il giovane governatore della provincia del Guizhou, uno
dei candidati alla presidenza del partito.
Con la prospettiva di succedere a Jiang Zemin, Hu non poteva per-
mettersi errori. Il giorno dopo la sua nomina, la polizia represse un’
altra protesta nel Barkhor, questa volta sparando direttamente a chi-
unque facesse sventolare una bandiera del Tibet.
Un mese dopo, Hu si recò a Shigatze per incontrarsi con il Panchen
Lama, che però gli oppose una certa resistenza, prendendo al volo
l’opportunità per criticare apertamente il dominio della Cina sul
Tibet, con un lacerante ed insolito richiamo ai laeder di Pechino.
Cinque giorni dopo, nonostante fossero note le sue buone condizio-
ni di salute, fu trovato morto nel monastero di Tashi Lhunpo, dove
viveva, apparentemente per un infarto: la sequenza di eventi portò
molti tibetani a convincersi che Hu avesse qualcosa a che fare con
quella morte.
La rabbia crebbe.
I tibetani si resero conto in fretta che per loro, senza protezione del
Panchen Lama, l’epoca delle riforme liberali era alla fine.
(prosegue…..)