In riferimento alla prima guera mondiale:
l-avventura-della-bicicletta-17.html
diario-di-guerra-di-un-fante.html
Tempeste di neve fra storie di eretici ed inquisitori in:
tempeste-di-neve-eretici-di-montagna.html
Trecento metri sotto la prima linea noi andiamo a riposo, e se non fosse
per la corvée ci si starebbe da papi.
Invece i giornali.
Dì, faccione, non parlarmi dei giornali, che non ne voglio sentire.
I giornali sono uno spaccio di articoli di fantasia per uso dei minchioni
e delle signorine che hanno il prurito.
Dopo l’attacco a Cima Quattro, abbiamo goduto a farcelo descrivere dal
giornale. Quel giorno c’erano colonne di feriti che scendevano contentoni
di essersela cavata senza rimetterci tutta la pelle.
E il giornalista scriveva che i feriti erano felici di avere dato il loro sangue
per la patria.
E questa?
Sapete che a Sdraussina scendevano tutti quei congelati che, siccome non
potevano più mettere le casse di cottura, avevano infagottato i piedi a terra.
Bene, i giornali stampavano che quei poveri cristi s’erano messi i sacchetti
per non far rumore quando andavano all’attacco, come i sardi, alla trincea
delle frasche.
Finitela con questi giornali!
Ora comincia il bollettino delle novità. Su quegli spettegolamenti di fanti,
l’artiglieria incomincia a levare dal deserto di sassi il suo clamore oceanico.
Dopo quindici giorni di una violenza che si dibatté fra trincea e trincea con
la collera di una bestia aggiogata, siamo retrocessi di rincalzo alla dolina
impressa dietro la cresta come un enorme inbuto d’obice.
L’ufficiale che mi diede il cambio accennò ad un attacco che, su queste posizioni,
il suo reggimento, già dieci volte logorato, dovrà affettuare tra giorni: un
tranquillo presentimento della morte gli faceva le parole pacate e gli occhi
aridi.
Ogni volta si dice: chi sa?
Ma viene un giorno in cui non si può dire: così sia!
Lo lasciai che contemplava i suoi morti, rovesciati dalla stanchezza allo scoperto,
ancor carichi dello zaino, e la desolazione del Carso appeso al cielo per i suoi
pigri tentacoli di fumo.
La dolina è gremita di tane come un alveare: gli estremi ricoveri traforano quasi
l’orlo oltre il quale s’incava il deserto dell’altopiano. E in quell’agglomerazione
di nidi terrosi brulica e si rintana la moltitudine dei soldati, come una legione
di insetti. Il fondo della dolina, untuoso di moticchio rossastro, è crivellato di
croci ubriache: è il cimitero dei soldati raccolti su questo campo di battaglia
aggraffato al nemico.
Affiorano, alla superficie limacciosa, delle scarpe chiodate e delle mani scheletriche,
violette adunche, in cerca di una presa. Talvolta il bombardamento, che non
può aggiustarsi sulla prima linea, troppo prossima alla trincea austriaca,
cercando noi rivanga in questo piccolo campo di morti anonimi, strappandone,
come ad un grembo, delle membra umane. Ma una granata, tentando di
irrompere nella dolina, ha infilato uno dei ricoveri appollaiati lassù, lungo la
cresta, ed ha schizzato fuori da quell’antro un po’ di poltiglia umana.
Scesi a riposo nella pianura friulana, abbiamo conosciuto il nuovo comandante
di compagnia.
E’ un capitano effettivo di nuova nomina: proviene da un’altro reggimento.
Ci siamo avvicinati a lui, presentandoci, come d’uso.
Egli non ci stese la mano, né rilevò l’atto.
Disse al tenente Ventura:
– Lei che è il più anziano in grado, mi presenti agli ufficiali della compagnia.
Caspita, un po’ di disciplina ci vuole.
E’ il pignolo di caserma, impettito come uno struzzo; ha un mento duro e
sporgente che pare un apparecchio male applicato, armato di denti aguzzi che
digrignano le parole. Qualcosa di meccanico nel muoversi, nel parlare, e gli
occhi mongolici che s’arrovellano come due sfere d’avorio fanno pensare a
certi amuleti giapponesi, gli occhi di un imbecille…
(Carlo Salsa, Trincee confidenze di un fante)