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Dialoghi con Pietro Autier 2 &
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Da questo momento in poi si può dire che la peste fu cosa nostra,
di tutti.
Sino a qui, nonostante lo stupore e l’inquietudine suscitati da quei
singolari avvenimenti, ciascuno dei nostri concittadini aveva pro-
seguito le sue occupazioni, come gli era stato possibile, al suo solito
posto.
E certamente questo doveva continuare; ma una volta chiuse le
porte, si accorsero di essere tutti, e anche lo stesso narratore, pre-
si nel medesimo sacco e che bisognava cavarsela.
….Dopo alcuni giorni, quando fu chiaro che nessuno sarebbe riuscito
a evadere dalla nostra città, si ebbe l’idea di domandare se il ritorno
di quelli che erano partiti prima dell’epidemia poteva essere autoriz-
zato.
Dopo essersi presa alcuni giorni per riflettere, la prefettura rispose
in senso affermativo; ma precisò che i rimpatriati non avrebbero po-
tuto, in nessun caso, lasciare di nuovo la città, e che, s’erano liberi
di tornare, non lo sarebbero stati di andarsene.
E qui alcune famiglie, rare d’altronde, presero la situazione alla
leggera, e sacrificando ogni prudenza al loro desiderio di rivedere
i congiunti, invitarono questi ultimi ad approfittare dell’occasione.
Ma in gran fretta quelli ch’erano prigionieri della peste capirono
il pericolo a cui avrebbero esposto i parenti e si rassegnarono a
sopportare la separazione.
…..In altre circostanze, d’altronde i nostri concittadini avrebbero
trovato una soluzione in una vita più superficiale e più attiva;
ma nello stesso tempo la peste li lasciava oziosi, ridotti a girare
in tondo nella loro tetra città e abbandonati, di giorno in giorno,
agli ingannevoli giochi del ricordo.
Nelle loro passeggiate senza scopo erano tratti a passare sempre
per le stesse strade, e nella maggior parte dei casi, in una città pic-
cola come la nostra, le strade erano precisamente quelle che in al-
tri tempi avevano percorso con l’assente.
(A. Camus, La peste)