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Quando visitammo Parchman per la prima volta, lo strumento più usato per
mantenere la disciplina, con il beneplacido dello Stato, era una larga striscia
di pelle, lunga circa un metro e venti e spessa mezzo centimetro, forata
all’estremità in modo che ogni colpo inferto sulla carne nuda provocasse
delle vesciche che il colpo successivo faceva poi scoppiare.
Per molti aspetti, le prigioni di stato nel Sud somigliavano ai campi di
concentramento nazisti, sia per il trattamento dei detenuti sia per l’effetto
intimidatorio sulla comunità nera.
Tutti i neri sapevano, almeno per sentito dire, cosa significasse andare
‘giù al fiume’, cioè al penitenziario di stato.
Lì alla mercé di fuorilegge che odiavano i ‘negri merdosi’, poteva accadere
qualunque cosa.
L’ombra agghiacciante di un sistema privo di scrupoli, che inghiottiva
così tanti uomini, si estendeva in tutto il Sud e ancora oggi non si è
completamente dileguata.
Le condizioni di vita nei penitenziari riproducevano gli aspetti peggiori
delle piantagioni durante la schiavitù e dei cosiddetti ‘penitenziari liberi’,
l’argine e il campo di lavoro coatto.
Al loro interno i molti ribelli della società si trasformavano in criminali
incalliti, che a volte finivano per preferire la vita di prigione, con le sue
certezze e preoccupazioni prevedibili, alla vita nel mondo libero.
I prigionieri si alzavano molto prima dell’alba e correvano fino ai campi,
per due o più chilometri, mentre le guardie a cavallo li seguivano al
galoppo, puntandogli addosso le pistole.
Venivano poi divisi in due squadre, ciascuna guidata dal lavoratore più
veloce: tutti dovevano seguire il suo ritmo e chi non ci riusciva, quale che
fosse la ragione, veniva punito sempre con grande durezza.
Ho conosciuto un veterano, rispettosamente ribattezzato ‘Capo del Fiume’
perché era stato per vent’anni il capo della prima squadra del penitenziario
più famoso.
I suoi piedi erano diventati ammassi di ossa rotte per i lunghi anni passati
a picchiare in terra nei campi del penitenziario.
Come dice la canzone aveva corso e camminato ‘finché i piedi si erano messi
a girare, come una ruota’.
Dappertutto si raccontavano storie di uomini a lavorare finché crollavano
a terra, morti per il sovraffaticamento.
Un modo per sottrarsi a questo rischio era ‘picchiare Joe’, cioè
l’automutilazione: capitava spesso di vedere un uomo con un braccio o
una gamba soltanto, che si era amputato da solo l’arto mancante.
Quelli che ‘ce l’avevano fatta’, cioè che erano riusciti a scontare la pena
tornando a casa integri nel corpo e nello spirito, venivano giustamente
considerati ‘tipi duri’.
(Alan Lomax, La terra del Blues, Viaggio all’origine della musica nera)