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….Ella è nuda, non stipata tutt’intorno da manate d’erba, e,
nuda, lancia da tutto il corpo luce; gran torto sarebbe che
questo santo corpo fosse velato, essa stessa fa fede a se stes-
sa, e c’è ordine che ne siano lontano il naso schizzinoso, la
fronte rugosa, il sopracciglio e la pendente barba, e quanti
indumenti richiede come proprii l’ignoranza, fedi, titoli,
parti.
Avidamente ella aspetta colui che s’appressa, generosa gli corre
incontro, l’accoglie col suo bacio, rinfrancandolo mentre trepida,
e accarezzatolo con volto sereno, concepisce intensamente i fuo-
chi che lentamente egli ha introdotto in lei.
Quali ricchezze d’Oriente, che l’onda del mare cela, e i deserti d’-
Arabia tengono, e i monti stringono nell’alvo profondo, e la terra
dall’amplesso tenace, scaldandole nelle sue vene occulte, nega a
ogni arte o studio umano di poter preparare, quali ricchezze tu
stimerai, o mortale, paragonate a tanto onore?
La fortuna non potrà rendere migliore alcuno, ché la morte tutto
travolgerà e consumerà col suo piede, e riprenderanno le loro sedi
antiche quante cose nate porta nella sua volante corsa la ruota del
tempo: il miglior fine al fato mortale consiste in ciò solo, vivere
d’una vita partecipe alla natura degli Dèi, vita nella quale tu
incorrerai quando t’avrà abbracciato questa diva, sicché tu valga
a sdegnare i sogni del volgo miserando, immerso nelle sorde onde
del fiume letèo.
Quelli che credono d’essere svegli quando seguono fantasmi, e
vane immagini volgono nell’animo, finzioni di sciocca insania,
miseri, e stancano i divi Fauni e i Satiri e i Centauri mezzo fiere
e mezzo uomini, che niente possono e niente anche sono; i quali
una volta ebbero anche una vile e morta vita, empi vasi di spiriti
nocenti, perché nuova materia di guerra si presentasse all’orbe
devoto e ilare.
La grandissima turba che il dèmone cattivo agita con le immagi-
ni e la speranza, lotta per il nettare del cielo e l’ambrosia di Giove,
che gli uomini privi di senno e di mente considerano come unici
strumenti di vita eterna, si sfoga vanamente, urge per meglio
affrettarsi, serbando inviolati i mandati del prete, va a prender-
si dagli orti dell’Erebo le portate e il vino della stoltezza, quale
produce la vigna d’Averno coltivata, presso le fosche rive, dall’-
altro cacodèmone.
Dopo, la plebe irrisa e mal nutritasi dello stigio fungo, vacillan-
do ebbra dopo le tazze della venefica Circe, così consumerà, ne-
gletta da Dio, la vita eterna.
(G. Bruno, De Immenso et Innumerabilibus)