Da http://giulianolazzari.myblog.it
In una società dei consumi, tale contesa ha conseguenze materialistiche.
E’ come se gli individui tentassero di placare la propria ansia esistenziale attraverso gli
acquisti.
Secondo il punto di vista convenzionale, la ricetta del progresso è semplice: più si consuma,
più si diventa felici.
Un esame approfondito di ciò che motiva i consumatori rivela una vasta gamma di fattori,
famiglia, amicizia, salute, approvazione dei pari, comunità, scopo, noti per avere una forte
correlazione con la feliità di cui si dichiara di godere.
In altre parole, gli individui credono veramente che, attraverso i consumi, si ottengono
amici, comunità, senso del proprio scopo e così via. Ma ci troviamo di fronte a un paradosso
per certi aspetti tragico. Le persone conoscono bene le cose che le rendono felici, ma hanno
una scarsa comprensione di come fare a ottenerle. La tesi secondo cui sempre più consumi
portano a un livello più elevato di benessere si rivela errata.
Avvelendosi di dati raccolti si è verificata l’ipotesi che il livello di soddisfazione di vita
sia legato all’aumento del reddito. Di positivo c’è che l’equazione quasi funziona: si
assiste infatti a un trend crescente di soddisfazione per la propria vita ai livelli più
bassi del reddito. Di negativo c’è che il rapporto continuerà a diminuire all’aumentare
del reddito.
In gran pate dei paesi industrializzati, nella migliore delle ipotesi, vi è solo una blanda
correlazione tra del reddito e felicità dichiarata e in paesi con redditi medi oltre i 15.000
dollari, la correlazione tra aumento del reddito e un livello di soddisfazione di vita più
elevato è praticamente nulla.
Nel corso del tempo, si può raccontare lo stesso paradosso all’interno di singole nazioni.
Negli Stati Uniti, dal 1950 il reddito reale pro capite è triplicato, ma la percentuale di
individui che dichiara di essere molto soddisfatta non è affatto cresciuta, anzi, dagli anni
70 ha registrato un calo.
In Giappone per molti decenni la soddisfazione di vita non ha registrato grossi cambiamenti.
Nel Regno Unito, la percentuale di individui che si dichiara molto soddisfatta è passata
dal 52 del 1957 al 36% di oggi.
Nei paesi occidentali alcuni aspetti fondamentali del benessere individuale, invece di
migliorare sembrano aver subito un declino.
Nell’America del Nord, i tassi di depressione raddoppiano ogni decennio. Il 15% degli
americani di 35 anni ha già sofferto di una forte depressione. Quarant’anni fa, si parlava
solo del 2%. Negli Stati Uniti, a un certo momento della vita, un terzo della popolazione
soffre di malattie mentali gravi, e circa la metà di queste persone sarà colpita da una
grave depressione inabilitante. Nel corso di un qualsiasi anno, circa il 6% della popolazione
soffrirà di depressione clinica e attualmente in America del Nord, il suicidio è la
terza causa di morte più comune tra i giovani adulti.
Risalire alle cause di questa infelicità non è particolarmente facile, ma vi sono due serie
di dati piuttosto convincenti che vedono come il consumismo stesso ne sia in parte
responsabile.
La prima serie rivela una correlazione negativa tra i comportamenti materialistici e il
benessere soggettivo. Il filosofo Alain de Botton ha mostrato come una società iniqua
porti ad alti livelli di ‘ansia da status’ tra i cittadini.
Lo psicologo Tim Kasser e colleghi hanno mostrato come chi mostra comportamenti più
materialistici, definendo e misurando il proprio valore attraverso il denaro e i possedimenti
materiali, dichiara livelli inferiori di felicità. Rincorre l’autostima attraverso la ricchezza
materiale sembra un tipo di ‘gioco a somma zero’ in cui il bisogno costante di migliorarsi
e di approvazione serve solo a far sì che ci si fossilizzi in una nevrotica spirale di
consumi.
Un secondo nucleo di prove altrettanto convincenti collega la crescente infelicità all’
indebolimento di certe istituzioni fondamentali. Il benessere soggettivo dipende in
maniera determinante da stabilità familiare, amicizia e forza della comunità. Ma, nella
società dei consumi questi aspetti sono stati messi in secondo piano.
(Tim Jackson, WorldWatch Institute)