ALZATI, MORTO (intermezzo blues)

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Quando visitammo Parchman per la prima volta, lo strumento più usato per 

mantenere la disciplina, con il beneplacido dello Stato, era una larga striscia

di pelle, lunga circa un metro e venti e spessa mezzo centimetro, forata

all’estremità in modo che ogni colpo inferto sulla carne nuda provocasse

delle vesciche che il colpo successivo faceva poi scoppiare.

Per molti aspetti, le prigioni di stato nel Sud somigliavano ai campi di

concentramento nazisti, sia per il trattamento dei detenuti sia per l’effetto

intimidatorio sulla comunità nera. 

Tutti i neri sapevano, almeno per sentito dire, cosa significasse andare

‘giù al fiume’, cioè al penitenziario di stato.

Lì alla mercé di fuorilegge che odiavano i ‘negri merdosi’, poteva accadere

qualunque cosa. 

L’ombra agghiacciante di un sistema privo di scrupoli, che inghiottiva

così tanti uomini, si estendeva in tutto il Sud e ancora oggi non si è

completamente dileguata.

Le condizioni di vita nei penitenziari riproducevano gli aspetti peggiori

delle piantagioni durante la schiavitù e dei cosiddetti ‘penitenziari liberi’,

l’argine e il campo di lavoro coatto.

Al loro interno i molti ribelli della società si trasformavano in criminali

incalliti, che a volte finivano per preferire la vita di prigione, con le sue

certezze e preoccupazioni prevedibili, alla vita nel mondo libero.

I prigionieri si alzavano molto prima dell’alba e correvano fino ai campi,

per due o più chilometri, mentre le guardie a cavallo li seguivano al

galoppo, puntandogli addosso le pistole.

Venivano poi divisi in due squadre, ciascuna guidata dal lavoratore più

veloce: tutti dovevano seguire il suo ritmo e chi non ci riusciva, quale che

fosse la ragione, veniva punito sempre con grande durezza.

Ho conosciuto un veterano, rispettosamente ribattezzato ‘Capo del Fiume’

perché era stato per vent’anni il capo della prima squadra del penitenziario

più famoso.

I suoi piedi erano diventati ammassi di ossa rotte per i lunghi anni passati

a picchiare in terra nei campi del penitenziario.

Come dice la canzone aveva corso e camminato ‘finché i piedi si erano messi

a girare, come una ruota’.

Dappertutto si raccontavano storie di uomini a lavorare finché crollavano

a terra, morti per il sovraffaticamento.

Un modo per sottrarsi a questo rischio era ‘picchiare Joe’, cioè

l’automutilazione: capitava spesso di vedere un uomo con un braccio o

una gamba soltanto, che si era amputato da solo l’arto mancante.

Quelli che ‘ce l’avevano fatta’, cioè che erano riusciti a scontare la pena

tornando a casa integri nel corpo e nello spirito, venivano giustamente

considerati ‘tipi duri’.

(Alan Lomax, La terra del Blues, Viaggio all’origine della musica nera)

 

 

 

alan lomax.jpg

RISERVA AUREA

riserva aurea

 

Nel 1863 (circa, nel giovane stato americano…) nel regno del denaro

e delle banche era in atto una rivoluzione non meno sconvolgente

dell’emancipazione.

Nei decenni che avevano preceduto l’attacco a Fort Sumter, la funzione

più importante di un istituto di credito era in genere emettere carta moneta.

Normalmente costituiva un fondo di riserva di monete d’oro, poi concedeva

prestiti emettendo la propria carta moneta. 

riserva aurea

La gente usava per i normali pagamenti queste banconote stampate

privatamente, sulla base del fatto che potevano essere cambiate in oro

presso la banca emittente. Un istituto ben gestito metteva in circolazione

carta per una somma equivalente al massimo a due o tre volte le sue

riserve monetarie.

Questo era almeno l’ideale.

In realtà molti istituti spericolati – definiti ‘banche a rischio’ emettevano

banconote per un valore molto superiore alle loro riserve (sempre che

ne avessero), e spesso fallivano! 

riserva aurea

Se invece la situazione era normale le banconote venivano scontate da

chi le accettava come pagamento, in base alla reputazione e alla distanza

della banca emittente, dato che la possibilità di cambiare i biglietti in

metallo dipendeva appunto da questi due fattori.

‘Un uomo non poteva viaggiare da uno stato all’altro’ lamentava il 

‘St. Louis Democrat’ senza subire una decurtazione che va dal 5 al 25%

del suo denaro. La contraffazione imperversava: nel 1860 si calcolava

che circolassero 5000 varietà di banconote false.

Questo sistema confuso e incoerente crollò definitivamente nel 1861.

Allo scoppio della guerra, gli americani allarmati corsero a cambiare

le banconote in oro, proprio mentre il governo federale attingeva

denaro liquido dalle banche per i prestiti di guerra. 

riserva aurea

Da Manhattan al Missouri rurale, le banche smisero improvvisamente

di riscattare le loro banconote. ‘Non esiste una moneta d’oro o d’

argento in circolazione nel paese’, osservò il senatore John Sherman.

‘Sono tutte ben nascoste’.

La gente si ritrovava in mano fasci di banconote quasi senza valore,

mentre il governo statunitense non poteva più vendere obbligazioni

alle banche per finanziare lo sforzo bellico. In un modo o nell’altro il

Congresso doveva intervenire. Dichiarò Sherman:

Occorrono soldi o avremo un governo spaccato. 

La risposta federale alla crisi cambiò per sempre la faccia dell’economia

americana. Innanzitutto il Congresso creò una moneta cartacea nazionale,

soprannominata immediatamente greenback, ‘biglietto verde’.

A differenza delle banconote private, il greenback era valuta legale –

era obbligatorio accetarlo come pagamento in tutte le transazioni pubbliche

e private – e, a differenza di tutti gli altri tipi di carta moneta della

storia americana non poteva essere cambiato in oro. Era denaro non

perché rappresentasse un bene con un suo valore intrinseco, ma perché

lo stabiliva la legge. Poi il Congresso istituì un sistema di banche

nazionali dotate di statuti federali. Questo provvedimento doveva

servire sia a stabilizzare la struttura finanziaria del paese, sia a creare

un mercato per le obbligazioni nazionali.

Per spingere le banche degli stati a entrare in questo sistema il Congresso

impose una pesantissima tassa del 10% sulle loro banconote.

Di consenguenza le banche nazionali potevano permettersi di emettere

carta moneta , che era standardizzata.

Le nuove banconote nazionali recavano stampato il nome della banca

emittente e potevano essere cambiate solo in greenbacks, non in oro.

Alla fine del 1865 quasi 1000 banche statali si erano trasformate in

banche nazionali.

(T.J. Stiles, Jesse James, storia del bandito ribelle)

Prosegue in:

riserva-aurea-2.html

 

 

riserva aurea

 

 

SEZIONE AUREA

 

(Il fatto che il rapporto aureo sia espresso da un numero ‘irrazionale’

e l’impossibilità, per l’intelletto umano, di comprendere l’idea della

divinità sarebbero equivalenti. – Luca Pacioli-)

 

sezione aurea

 

 

L’ultimo dei grandi studiosi di geometria greci che contribuirono 

anche allo studio del rapporto aureo fu Pappo di Alessandria,

vissuto nel IV secolo d.C. 

Nella Synagoghé Pappo fornì un nuovo metodo per la costruzione

di dodecaedro e icosaedro, e operò alcuni confronti sui volumi dei

poliedri, sempre servendosi del rapporto aureo. Il commento di Pappo

alla teoria euclidea dei numeri irrazionali ricostruisce con eleganza lo

sviluppo storico di tali numeri, e ci è giunta grazie alle traduzioni in

lingua araba. Ma inutile fu il coraggioso sforzo di Pappo di contrastare

la decadenza generale della teoria matematica, e in particolare della

geometria, e dopo la sua morte, con il diffuso sopirsi della creatività

scientifica e filosofica, la teoria del rapporto aureo entrò in una

lunga fase di ristagno.  

Ad Alessandria, la grandiosa biblioteca andò distrutta in seguito a

varie campagne militari, dapprima romane, poi cristiane e infine

islamiche. Perfino l’Accademia fondata da Platone cessò ogni attività

dal 529 d.C., quando l’imperatore bizantino Giustiniano ordinò la

chiusura di tutte le scuole greche.

Nel deprimente periodo che seguì, la cosiddetta ‘età oscura’, il vescovo

e storiografo francese Gregorio di Tours si lamentò che ‘tra noi lo

studio delle lettere ha cessato di vivere’.

L’intera impresa della conoscenza prese nuova dimora in India e

nel mondo arabo. E un evento di enorme importanza per la matematica

e la cultura in generale fu, in quell’interludio, il diffondersi dei

cosiddetti ‘numeri arabi’ – che meglio sarebbe chiamare ‘cifro indo-

arabe’ – e della notazione decimale.

Il più importante matematico indù del VI secolo d.C. fu Aryabhata.

Nel suo libro più famoso, intitolato ‘Arybhatiya’, troviamo la frase

‘da a posto ciascuno è dieci volte il precedente’ a indicare l’impiego

del sistema di notazione ‘posizionale’.

Una lamina indiana del 595 già contiene dati numerici scritti col sistema

posizionale, suggerendo che i simboli in essa impiegati fossero in

uso già da qualche tempo.

Il primo indizio della diffusione verso occidente delle cifre indù si

trova negli scritti del vescovo nestoriano Severus Sebokht, della città

di Keneshra sull’Eufrate. Scriveva il vescovo nel 662 dell’era volgare:

‘Ometterò qualunque discussione sulla scienza degli indiani…e dei

loro preziosi metodi di calcolo che superano ogni descrizione. Mi

limito a dire che questo computo si basa su nove segni’.

Con l’ascesa dell’Islam, gli studi matematici cominciarono a essere

coltivati in tutto il mondo mussulmano. Fu proprio grazie allo

sviluppo dell’Islam nell’VIII secolo che gran parte della matematica

antica fu preservata. Molto importante, a questo riguardo fu l’istituzione

a Baghdad della ‘Beit al-hikma’ (casa della Sapienza) per decisione del

califfo al-Mamun (786-833).

Il funzionamento della Casa (della sapienza silenzio…e saggezza)

si ispirava a quello della celebre ‘università’ di Alessandria, il Museo,

e in effetti l’impero abbaside incorporò tutto il superstite sapere

alessandrino.

Vuole la leggenda che il califfo avesse deciso di far tradurre in arabo i

più prestigiosi testi greci dopo che in sogno gli era apparso Aristotele.

Prosegue in:

sezione-aurea-2.html

 

 

sezione aurea

 

TI PROIBISCO DI ANDARE OLTRE

Dello stesso autore:

il-popolo-degli-abissi.html

l-uomo-e-la-natura-ciao-bellezza-14.html

1841 in:

1841.html

  

ti proibisco di andare oltre

 

In questa impresa….

‘Non una parola, siamo tutti finiti!

Fai che gli americani e inglesi scoprano che in queste montagne c’è l’oro

e siamo rovinati: si riverseranno a migliaia su di noi e ci metteranno al

muro; alla morte’.  

ti proibisco di andare oltre

Così parlò nel 1804, a Sitka, il vecchio governatore russo Baranov,

rivolgendosi a uno dei suoi cacciatori della Slovenia che aveva tirato

fuori dalla bisaccia una manciata di pepite d’oro.

Baranov era un commerciante di pellicce che aveva capito anche troppo

bene la situazione, e per questo temeva l’arrivo degli indomabili e robusti

cercatori d’oro di razza anglosassone.

Decise di sopprimere la notizia e lo stesso fecero i governatori dopo di lui,

al punto che gli Stati Uniti acquistarono l’Alaska nel 1867 per le pelli e

le pescherie, senza immaginare quali tesori giacevano sotto la sua

superficie. Ma non appena l’Alaska divenne suolo americano, migliaia

dei nostri avventurieri si incamminarono e navigarono verso nord. 

ti proibisco di andare oltre 

Furono gli uomini dei ‘giorni dell’oro’, uomini della California, di

Fraser, Cassiar e Caribou. Erano tutti posseduti dalla misteriosa fede

senza limiti del cercatore d’oro, e credevano nella vena dorata che

si estendeva attraverso le Americhe, da Capo Horn alla California:

in qualche modo sapevano che non si esauriva in British Columbia

e che al contrario si estendeva molto più a nord.

‘Più a nord!’ divenne dunque il loro motto. 

ti proibisco di andare oltre

 Non persero molto tempo, e già nei primi anni settanta del XIX

secolo, lasciando i bacini di Treadwell e di Silver Bow a quelli che

sarebbero venuti dopo, si lanciarono verso il grande e ignoto bianco.

Nord, più a nord, si dannarono sinché i loro picconi finalmente

risuonarono sulle spiagge gelate dell’Oceano artico mentre davanti a

fuochi di legno alla deriva sulle sabbie color rubino di Nome tremavano

per il freddo.

Ma per comprendere appieno l’enormità di questa avventura, occorre

avere in mente quanto fosse remota e di recentissima acquisizione

l’Alaska.

ti proibisco di andare oltre

 L’interno della regione e il confinante territorio canadese erano un’area

selvaggia: centinaia di migliaia di chilometri quadrati ignoti e inesplorati

come l’Africa più nera. Nel 1847, quando i primi agenti della Hudson’s

Bay Company superarono le Montagne Rocciose dal Mackenzie per

praticare il bracconaggio a dispetto dell’Impero Russo erano convinti 

che il fiume Yucon scorresse a Nord per sfociare  nell’Oceano artico.

Centinaia di chilometri più in giù si trovovano gli avamposti dei

commercianti, che invece non avevano idea di dove fossero le sorgenti

dello Yukon. Ci volle molto tempo prima che i russi e anglosassoni

scoprissero che stavano occupando lo stesso potente corso d’acqua.

Poco più di dieci anni dopo, Frederick Whymper compì un viaggio

risalendo la grande ansa sino a Fort Yucon, sotto il Circolo Polare

Artico. 

ti proibisco di andare oltre

Da forte a forte, dalla stazione di York Factory, sulla Baia di Hudson,

a Fort Yucon, in Alaska, i commercianti inglesi trasportavano le merci

con un viaggio che, tra andata e ritorno, richiedeva da un anno a un anno

e mezzo. Nel 1867 un disertore fuggì lungo lo Yukon e scese sino al mare

di Bering: divenne così il primo uomo bianco a percorrere il passaggio

di Nordovest via terra, dall’Atlantico al Pacifico. Grazie a questo viaggio

il Dr. W.H. Bell della Smithsonian Institution poté fornire una descrizione

piuttosto accurata del fiume Yucon, ma anche lui non era riuscito a vedere

la sorgente e questo non gli permise di apprezzare la meraviglia di questa

grande via naturale d’acqua.  

ti proibisco di andare oltre

In questo senso non esiste al mondo un fiume più eccezionale.

Lo Yucon parte da Crater Lake, a meno di 50 chilometri dall’Oceano, e

scorre per quasi 4000 chilometri attraverso il cuore del continente finendo

per svuotarsi in mare. Basta una marcia di 45 chilometri per accedere a

una via di comunicazione lunga un decimo di tutto il perimetro terrestre.

Frederic Whymper, socio della Royal Geographical Society, dichiarò di

aver sentito dire che gli indiani chilkat sino al 1869 ogni tanto attraversano

la catena costiera partendo dal mare per giungere alle sorgenti dello Yukon.

Ma fu un cercatore d’oro che puntava a nord, sempre a nord, il primo uomo

bianco ad attraversare il terribile passo Chilkoot per arrivare alle sorgenti

dello Yukon. E’ una cosa di ieri, ma quell’uomo è un eroe leggendario

ormai quasi dimenticato di nome Holt, e le nebbie del tempo hanno avvolto

la data esatta del suo passaggio: a seconda delle fonti che avvenne nel

1872, nel 1874 o nel 1878.

La matassa non verrà mai sbrogliata.

Holt arrivò sino all’Hootalinqua, e al suo ritorno sulla costa raccontò di

aver trovato oro grezzo. Il primo avventuriero dopo Holt di cui sia rimasta

traccia è un certo Edward Bean. Costui nel 1880 condusse un gruppo di 25

minatori da Sitka verso l’interno di questa terra non mappata, lo stesso anno,

altri gruppi superarono il passo, costruirono imbarcazioni utilizzando il

legname locale e discesero lungo lo Yukon verso nord.

Da qui in poi, per un quarto di secolo gli eroi sconosciuti e mai celebrati

brancolarono alla ricerca di oro in lotta con il gelo: loro lo sapevano quel

metallo li aspettava da qualche parte all’ombra del Polo. 

Yukon fiume pescoso ed inesauribile risorsa…… 

(Jack London, I cercatori d’oro del Nord)

 

 

ti proibisco di andare oltre

  

 

AVVENTURE DELLA DOMENICA POMERIGGIO: UNA GRANDE NAVE SFIDA IL TEMPO (8)

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Eretici e altro in:

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avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 

 

Woodget faceva lavorare gli uomini tanto duramente che alla fine della

guardia cadevano sfiniti.

Me erano soddisfatti, e il Cutty Sark volava docile verso nord!

Sette settimane più tardi, mentre il clipper si preparava a salpare di nuovo,

l’armatore tornò a bordo con un gruppo di amici e un grosso pacco avvolto

in carta scura. Fece visitare la nave agli amici, offrì vino e panini nel quadrato 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 ufficiali, distribuì sigari e brindò a Woodget. Poi accompagnò i visitatori

sul ponte di poppa, portando con sé il pacco. Quando l’aprì, ne trasse una

sorpresa per tutti e un regalo per la nave: un mostravento dorato alto

circa un metro foggiato come la succinta camiciola della strega. 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Willis ordinò al più anziano degli apprendisti di collocarlo al suo posto,

e mentre il ragazzo si arrampicava veloce sulle sartie, la voce di Old

White Hat risuonò da una sponda all’altra del Tamigi per esprimere

un entusiasmo sinceramente condiviso da tutti i presenti.

Ripetendo l’elogio di Tam o’Shanter alla bella strega, l’armatore gridò:

‘Perfetto, Cutty Sark!’ 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Per Woodget e il Cutty Sark i nove anni che seguirono il primo successo

furono i più belli della loro vita. Il capitano comandò il veliero in altri

nove viaggi tra Londra e Sydney, e il clipper rispose docilmente ai suoi

ordini: non impiegò mai più di 100 giorni per viaggio, e solo due volte

superò i 90. E non passò anno senza che battesse il Thermopylae.

Ma il Cutty Sark non si accontentò di vincere i propri simili.

 avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Gli accadde anche di superare le navi a vapore, le nuove venute che

poco per volta andavano soppiantando i velieri da tutti i mari.

Il 25 luglio 1889, in vista della costa australiana, dietro alla poppa

del Cutty Sark comparve il nuovo battello a vapore Britannia.

Il vento era debole, e il Britannia passò avanti. Osservandolo dal

ponte, Woodget commentò con un ufficiale: ‘Se il vento rinfrescasse

un poco, potremmo offrire uno spettacolo a quei passeggeri’.

E poco dopo il vento rinfrescò. 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Woodget aveva aspettato il momento con tutte le vele spiegate.

Durante la notte l’ufficiale di guardia del Britannia avvistò alcune

luci di via che non riuscì a identificare. Ne accennò sul giornale di

bordo, poi svegliò il capitano per riferirgli che un veliero aveva superato

il Britannia a una velocità che lui stimava essere sui 17 nodi.

L’indomani mattina, quando il vapore entrò nel porto di Sydney, l’

equipaggio e i passeggeri rimasero stupefatti nel vedere il Cutty Sark

all’ancora e gli uomini che serrevano gli ultimi gerli ai pennoni della

vela maestra.

Sfilandogli davanti, i passeggeri e l’equipaggio del Britannia applaudirono

calorosamente.

Anche per Woodget furono anni bellissimi. 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Conduceva la nave di testa sua, a volte anche contro il parere di Willis.

A Willis piaceva che tutte le lance di bordo fossero verniciate di nero in

alto e di bianco in basso, e un giorno in cui si trovava a bordo scoprì che

erano state dipinte tutte di bianco. Ne chiese ragione a Woodget, e questi

gli rispose seccamente: ‘Bianche sono più belle’.

Old Jock capì che era meglio non contrastare il suo ottimo comandante,

e le lance rimasero bianche.

Woodget aveva alcune piccole manie, altrettanto poco ortodosse di

alcuni ordini che impartiva. C’è solo da stupirsi che un comandante come

lui, sempre sulla breccia, trovasse il tempo di dedicarvisi.

Per esempio, egli teneva in cabina una bicicletta e amava usarla nell

interponte, lo spazio libero tra il ponte di coperta e la stiva, che a volte

gli serviva anche da pista di pattinaggio a rotelle.

A causa della lentezza delle operazioni di carico della lana, il capitano

e l’equipaggio erano ben conosciuti in tutta Sydney.

In genere i clipper vi arrivavano nei mesi di giugno, luglio, e agosto

per approfittare, nel viaggio di andata, delle migliori condizioni meteo-

roligiche, ma le pecore degli allevamenti dell’entroterra non venivano

tosate prima di settembre-ottobre. 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 Per i marinai e gli apprendisti il soggiorno in Australia era estremamente

rilassante dopo le ardue fatiche delle manovre in mare. Erano autorizzati

a scendere a terra per divertirsi nelle taverne, con le generose ragazze di

quella città in piena espansione. Organizzavano pic-nic sulle splendide

spiagge australiane e regate nella grande baia, e facevano amicizia con i

colleghi degli altri clipper.

Uno dei passatempi preferiti era il canto corale.

Nelle sere di calma l’equipaggio di una nave intonava una canzone, che 

veniva subito ripresa da una delle navi affiancate, poi da un’altra e da

un’altra ancora. E nel porto si levavano le voci congiunte di una decina

di equipaggi. 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 A volte qualcuno cantava una strofa, e la flotta intonava a una voce il

ritornello, poi un altro attaccava la strofa successiva, e la canzone faceva

il giro del porto. Vari marinai suonavano l’armonica, il violino e altri

strumenti, e la musica si diffondeva armoniosamente per miglia e 

miglia sulle ali del….vento!

(I Clipper, redattori delle edizioni Time-Life)

 

 

avventure della domenica pomeriggio: una grande nave sfida il te

 

CORRI UOMO CORRI (5)

 

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Alias Walker in:

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corri uomo corri (5)

 

 

Il Big Bass Club si trovava sulla Centoventicenquesima strada nei pressi

dell’Ottava Avenue, proprio nel cuore di Harlem. Aveva la sagoma di

un contrabbasso incastonato all’interno di una parete di piastrellata.

Nella vetrinetta che fiancheggiava l’ingresso erano appese numerose

fotografie delle attrazioni che era solito ospitare.

E, nella sua foto, Linda Lou Collins aveva una tale somiglianza con

Pearl Bailey da far sorgere qualche legittimo dubbio sulla buona

fede dei gestori del locale.

L’entrata dava su una sala anch’essa a forma di contrabbasso da un

lato, il ricurvo bancone del bar; dall’altro, una sfilata di separè.

Sulle pareti erano dipinte, a mo’ di ‘murale’, le prime otto battute di

svariati successi di blues. 

corri uomo corri (5)

 In fondo alla sala, un tendaggio nascondeva l’accesso a un privè il

cui unico requisito d’ammissione era il danaro. Si trattava di tutto

un altro mondo, un vero proprio night-club per i ricchi di Harlem,

unico sulla faccia della terra.

L’atmosfera era allo stesso tempo sensuale e animalesca, l’aria

pesante, densa, ricca di aromi, pungente e profumata. Il luogo

pullalava di tori che tenevano d’occhio le proprie giumente.

Tori addomesticati, certo, ma pur sempre pericolosi. 

Ogni uomo aveva in tasca un coltello, e recava su di sé le cicatrici

di tante battaglie. E le mammelle di ogni giumenta erano rigonfie

di sesso, odoravano di stalla; giumente che erano state montate un’

infinità di volte e non aspettavano altro che essere montate ancora

e ancora. Tori che il più delle volte sembravano belli tranquilli,

come rinchiusi in qualche recinto. Ma la violenza era sempre nell’aria,

un’aria fragrante di fumo e di whisky.

Era un ritrovo per gente che trafficava nel vizio: papponi, giocatori

d’azzardo, delinquenti di media e piccola tacca, madame e prostitute.

Esclusa la borghesia nera, costoro erano gli unici a potersi permettere

un posto del genere. 

I prezzi erano troppo alti per la classe operaia.

Ma i negri della classe media – uomini d’affari e professionisti, medici,

avvocati, dentisti e necrofori – loro sì, che si facevano vedere ogni volta

che gli saltava il ghiribizzo di far baldoria nei bassifondi.

L’ntrattenimento era un buon livello, anche se calibrato per un pubblico

nero.

Quindi, doveva essere buono per forza.

Gli avventori non facevano altro che starsene lì a sbevazzare, ascoltare

la musica e sgranocchiare pollo fritto. A divertirli, ci pensavano le

varie attrazioni del locale.

Il ballo non era previsto. 

corri uomo corri (5)

Chi voleva ballare, veniva invitato dal direttore a muovere il culo e

andarsene al Savoy Ballroom. Laggiù sì che c’era un sacco di posto.

Nessuno si azzardava a flirtare con le donne altrui.

Quando Walker spinse di lato il tendaggio del privé, Linda Lou

….stava cantando.

‘Come to me, my melancholy baby……..’ 

corri uomo corri (5)

 ……Un corridoio  sotterraneo collegava i seminterrati di tutti gli edifici

del Peter Cooper Village.

Walker entrò nella sala caldaie a tre isolati di distanza dal palazzo in

cui abitavano lui ed Eva, per poi risalire dalla scala di servizio e

raggiungere l’appartamento di Eva.

Pose l’orecchio alla porta sul retro.

Non udì alcun rumore.

Usò la chiave della donna per far scattare la serratura senza rumore.

Poi girò il pomello con la mano sinistra e aprì la porta in totale silenzio.

Ancora con la sinistra sul pomello, estrasse la pistola con la destra e la

tenne sollevata. Poi spinse in tutta fretta, la pistola spianata, ed entrò

in casa. Richiuse la porta con la stessa velocità e lo stesso silenzio

con cui l’aveva aperta. 

corri uomo corri (5)

 Si fermò nell’oscurità e trattenne il respiro per ascoltare meglio. 

Nessun rumore.

Si trovava nella stanzetta sul retro che serviva da lavanderia.

Avanzò quatto quatto, con la mano sinistra tesa davanti a sé.

Appoggiò l’orecchio alla porta della cucina e si mise di nuovo in ascolto.

Non poteva credere che fosse uscita.

Magari si era addormentata, pensò.

Era più da lei, restare seduta al buio e rimuniginare chissà cosa.

Aprì in silenzio la porta della cucina e, alla cieca, avanzò nella stanza.

Una seconda porta dava sul lato del soggiorno che fungeva da sala

da pranzo.

Cercò di scorgere anche la minima luce filtrare da sotto la porta, ma

l’entrata era immersa nel buio.

Quindi anche le tende erano tutte tirate, altrimenti si sarebbe visto

l’alone dei lampioni stradali, pensò. 

Pose ancora l’orecchio alla porta. 

Gli parve di udire un respiro.

Trattenne il fiato, e non udì più niente.

E’ una cosa che non sopporto fare, si disse.

Sarebbe stato meglio poterle sparare al buio.

Rimase immobile per parecchi minuti, aspettando che il suo sesto senso

gli fornisse eventuali indicazioni di pericolo. Ma non accadde nulla.

Aprì silenziosamente la porta e brancolò nel buio con la mano

sinistra alla ricerca dell’interruttore. La grossa piantana in fondo al

canapè si accese prima ancora che la sua mano riuscisse a sfiorare

l’interruttore.

Proprio al centro del canapè sedeva Brock, la calibro 38 d’ordinanza

dritta al cuore di Walker. 

– Getta la pistola, Matt, disse atono.

Walker si bloccò come se fosse diventato di pietra.

Piano piano le sue dita mollarono la presa sul’impugnatura dell’arma,

che piombò sul tappetto con un tonfo.

Sorrise a Brock con aria da ragazzino.

– Ma CHE ASTUTO FIGLIO DI PUTTANA, disse a bassa voce.

– Sicuro, rispose Brock.

– Occhio a quel che fai, o ci lasci le penne.

– Ho anche la pistola d’ordinanza, disse Walker sorridendo.

Vuoi pure quella?

– No, rispose Brock, scuotendo il capo. Non mi spareresti mai con il

revolver d’ordinanza.

– Non essere troppo sicuro, disse Walker.

– Correrò il rischio, disse Brock, e ripose il suo revolver nella fondina.

Siediti.

Walker acchiappò una sedia da pranzo, con lo schienale rigido, e vi

si mise di traverso, proprio di fronte a Brock. Poi guardò il cognato

con un sorrisetto malinconico.

– Eva ha cantato, disse.

– Sicuro, rispose Brock. E cosa pensavi che facesse, che se ne restasse

zitta in eterno?

– Sapevo che avrebbe cantato, disse Walker, ma non che l’avrebbe

fatto così presto.

Pensavo che avrei avuto l’opportunità di sgombrare il campo.

– Sicuro, disse Brock. Di metterla a tacere per sempre.

– Era l’unica cosa da fare, rispose Walker. Così nessuno ne avrebbe

mai saputo niente.

 – No, fece Brock. Io lo sapevo già da prima.

Walker lo guardò interessato. 

 – E’ per colpa della mia storia, ipotizzò. Sapevo che non l’avevi bevuta.

Ma sapevo anche che senza Eva non potevate farmi niente.

– No, non è per la tua storia, disse Brock. In realtà, io non avevo bevuto

neanche la prima, quella che hai rifilato al procuratore. Ma quando mi

hai raccontato la seconda versione, al Lindy’s, avevo già capito tutto.

Walker parve incuriosito.

– Razza di furbacchione.

Un vero figlio di puttana, insomma. Come hai fatto, allora?

– Ho trovato la prostituta, quella che ti sei scopato quella sera.

– Ah sì? E hai saputo dov’era? Walker gli rifilò uno sguardo offeso.

E non mi hai detto niente?

– Sicuro. Mica volevo farla ammazzare.

– E cosa sapeva?

– Sapeva che avevi la pistola. Hai minacciato di uccidere anche lei,

con quella. Dove l’hai pescata?

– L’ho presa nel museo della Omicidi,

disse Walker.

– E’ l’arma usata da Baby Face per far secco Jew Mike.

– Ah, ecco da dove veniva.

– Pensavo che tu avessi indovinato anche questo,

disse Walker.

– Certo che quella notte devo aver proprio dato fuori di testa,

aggiunse poi.

– Chissà quant’altra gente ho ammazzato….

(Chester Himes, Corri uomo corri)

 

 

corri uomo corri (5)

 

 

 

              

 

CORRI UOMO CORRI (4)

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corri uomo corri (4)

Jimmy sbatté a tutta forza contro un muro, picchiando sui

mattoni con la fronte.

Andò giù come un sasso, rimbecillito ma ancora cosciente.

Walker lo udì lamentarsi e si fermò, cercando di aguzzare la vista

e cogliere lo sguardo del negro.

Aveva sempre sentito dire che gli occhi di un negro brillano nell’

oscurità come quelli di un animale, e la sua pistola era pronta ad

aprire il fuoco al minimo scintillio. 

corri uomo corri (4)

Lo sentiva muoversi, quel negro, ma non riusciva a vedere un

accidente.

Jimmy si alzò lentamente in piedi.

Gli pareva di essere stato preso a frustate con una catena di ferro

massiccio, e fu solo la volontà di sopravvivenza che lo spinse a

correre di nuovo.

E di colpo si ritrovò a volare a mezz’aria.

Il passaggio piegava secco a destra, e si abbassava di tre gradini.

Atterrò sulle ginocchia e sulle palme delle mani, che il ruvido

cemento s’affrettò subito a spellare. Il dolore – acuto, improvviso –

ebbe l’effetto di uno stimolante: in men che non si dica, Jimmy

saltò in piedi e riprese a correre. Ma la pausa nel buio aveva fatto

riacquistare il raziocinio a Walker. Il detective si frugò nella tasca

corri uomo corri (4)

interna della giacca e ne estrasse una torcia sottile come una penna

stilografica. Il minuscolo raggio gli consentì di scorgere la svolta

del corridoio e i gradini. Nel frattempo, Jimmy aveva girato un

altro angolo ed era scomparso alla vista.

Per un istante Walker valutò se ricaricare la pistola.

Mentre cercava la torcia, la mano gli era finita sui proiettili di

scorta che teneva in tasca, ed era sicuro che ce ne fossero di ancora

buoni. Ma non poteva rischiare di perdere tempo, tra quel labirinto

di corridoi e il negro che già aveva preso un certo vantaggio.

Jimmy si era messo a correre trascinando la mano sinistra lungo la

parete, e con la destra a precederlo. Al buio, svoltò due angoli e

piombò di colpo in un tozzo corridoio illuminato. Non udiva più

i passi del suo inseguitore.

 corri uomo corri (4)

Sentì montargli la speranza. Sulla destra vide una porta chiusa.

La aprì, guardando all’interno. C’era un letto disfatto, una toletta

bruciata dalle cicche e vestiti luridi penzolanti dalle sedie, oltre a

una bottiglia di whisky vuota, con tanto di bicchiere, su un tavolo

coperto da una cerata.

Ma non c’era anima viva.

 corri uomo corri (4)

Era di certo la stanza dell’aiutante di chissà quale portinaio.

Nell’uscire, richiudendo la porta, udì dei passi alle sue spalle.

‘Aiuto!’ urlò, trascinandosi in avanti.

‘Aiuto! Qualcuno mi aiuti!’

Nessuna risposta.

Svoltò all’estremità del passaggio proprio mentre Walker lo imboccava

all’estremità opposta, e si ritrovò nell’ennesimo corridoio.

Uno sguardo sulla sinistra gli consentì di scorgere una lunga distesa

di parete intonacata e ben illuminata, e un pavimento pulito.

Girò a destra e si trovò di fronte a una massiccia porta di quercia.

Li udiva benissimo, ora, quei passi. 

Non c’era tempo di girare di nuovo l’angolo e prendere quell’assassino

per la collottola. Se la porta non si apriva, poteva considerarsi un

uomo morto.

‘Ehi!’, sentì una voce.

‘Ehi!’

Non si voltò.

corri uomo corri (4)

Quella voce significava morte.

Coraggio, fatti ammazzare, gli gridava quel figlio di troia.

Si sentiva lo stomaco grande come un pisello, e la nausea che gli

era salita alla bocca sapeva di vomito rancido.

Fece per afferrare la maniglia. 

Ecco come finisce la carriera del figlio della signora Johnson, pensò

con una dose di quella amara autoironia che ai bianchi piace chiamare

‘umorismo da negri’.

Provò la maniglia. La sentì girare. Spinse la porta. Si aprì.

‘Ehi! Ehi, laggiù!’,

udì di nuovo la voce.

Ehi lo vai a dire a tua nonna, pensò.

La luce che filtrava dal corridoio, attraverso la porta aperta, gli fece

vedere quella che sembrava una batteria di macchine per cucire elettriche,

che giravano con lento movimento circolare in uno stanzone quadrato.

Jimmy si sentiva così stordito che gli parve di galleggiare sulla loro

scia.

Lo sforzo fatto per restare in piedi gli aveva fatto tirare in dentro lo

stomaco, e il sangue aveva ormai preso a calargli, caldo e appiccicoso,

giù per la gamba.

Forse si era anche pisciato addosso.

Inebetito, cercò la serratura senza neanche rendersi conto di cosa stesse

facendo.

Era una Yale; quando abbassò la leva che rilasciava il paletto, la

serratura scattò all’istante a chiudere la porta.

‘Ehi! Ma chi cazzo è che urla?’

‘Non la udì, Jimmy, questa voce. E neanche il rumore strascicato dei

passi che scendevano lungo il corridoio e si accostavano alla porta.

Non udì l’uomo provare la maniglia e scrollare la porta e attaccare

a sbraitare con la voce irritata, mezza ubriaca.

‘Apri la porta e vieni fuori. Non me ne frega un cazzo di chi sei. Ho

un lavoro da finire, io.’

Aveva già perso i sensi prima di toccare il pavimento.

(Chester Himes, Corri uomo corri) 

 

 

 

corri uomo corri (4)

 

 


UNA LISTA PER WOODY (2)

 
  
Prosegue in:
 
 
 
 

una lista per woody (2)


….Quello che vi trovai sarebbe potuto uscire da un romanzo poliziesco.

Joe Hill era un emigrato svedese che aveva combattuto nella guerra contro

il Messico. Aveva condotto un’esistenza nuda e misera, intorno al 1910 era

stato un militante sindacale nell’Ovest, una figura messianica che VOLEVA

ABOLIRE L’ORDINAMENTO CAPITALISTICO DEL LAVORO, operaio

meccanico, musicista e poeta.

Lo chiamarano il Robert Burns degli operai.

una lista per woody (2)

 Aveva scritto ‘Pie in the Sky’ ed era stato il precursore di Woody Guthrie.

Questo era tutto quello che avevo bisogno di sapere. Poi, nello Utah, era

stato condannato per omicidio in base a prove indiziarie e fucilato.

La storia della sua vita è intensa e profonda.

Era un organizzatore sindacale   hill2.jpg 

per conto dei Wobblies, il

settore militante della

classe operaia

americana.

Viene messo sotto processo

per aver ucciso il

proprietario DI UNA

DROGHERIA e suo figlio

in una rapina a mano

armata da pochi

dollari e la sua unica difesa

consiste nel dire:

‘PROVATELO!’.

Il figlio del droghiere, prima di morire, spara  un colpo a qualcuno, ma non ci

sono prove che la pallottola colpisca il bersaglio. Joe però presenta una ferita

da pallottola e la circostanza è considerata incriminante. Quella stessa notte

sono cinque le persone ferite da un’arma da fuoco. Vengono curate allo stesso

ospedale, poi rilasciate, e tutte spariscono. Joe sostiene che si trovava altrove

al momento del crimine, ma non dice dove e con chi. Non fa nessun nome,

nemmeno per salvarsi la pelle. La supposizione di tutti è che ci sia coinvolta

una donna e che Joe non voglia esporla alla vergogna.

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La faccenda diventa ancor più strana e complicata.

Un amico di Joe sparisce il giorno dopo.

Tutto si fa contorto.

Joe è adorato dai lavoratori dell’intera nazione, minatori e lavoratori dei macelli, 

pittori di insegne e fabbri ferrai, stuccatori, installatori di canne fumarie, metallurgici.

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Chiunque fossero, Joe li aveva uniti e aveva combattuto per i diritti di tutti, aveva

rischiato la sua vita per rendere la vita migliore alle classi più povere, agli

svantaggiati, ai lavoratori peggio pagati e peggio trattati di tutta la nazione.

Se leggete la sua storia, il suo personaggio viene fuori per quello che è.

Lo capite benissimo che non è il tipo di persona che si mette a rapinare e a uccidere un

droghiere a caso. Non rientra minimamente nel suo carattere. E’ impossibile che abbia

fatto una cosa del genere per quattro soldi. Tutto, nella sua vita, parla di onore e di

giustizia. Era un instancabile viaggiatore e un protettore dei deboli in servizio di 

pattuglia permanente. Ma per I POLITICI E GLI INDUSTRIALI che lo odiavano

era solo UN CRIMINALE INCALLITO E UN NEMICO DELLA SOCIETA’.

Da anni cercavano l’occasione per liberarsi di lui.

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Joe era stato giudicato colpevole ancora prima che cominciasse il processo.

L’intera storia è stupefacente.

Nel 1915 le marce e le manifestazioni in sua difesa riempirono le strade di tutte le

grandi città americane, Cleveland, Indianapolis, St. Louis, Brooklyn, Detroit e molte

altre, dovunque ci fossero lavoratori e sindacati. Fino a quel punto lo conoscevano

e lo amavano. Perfino il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, cercò di

convincere la magistratura dello Utah a riprendere in mano il caso, ma il governatore

dello Utah fece marameo al presidente. Quando tutto sta per finire, Joe dice:

‘SPARGETE LE MIE CENERI DOVUNQUE TRANNE CHE NELLO UTAH’.

‘Joe Hill’ venne scritta non molto tempo dopo questi fatti.

una lista per woody (2)

 Di canzoni di protesta ne avevo sentite parecchie, ‘Bourgeois Blues’ di Leabelly,

‘Jesus Christ e Ludlow Massacre’ di Woody, ‘Strange Fruit’ resa celebre da Billie

Holiday e altre ancora, ed erano tutte migliori di Joe Hill. Le canzoni di protesta

sono difficili da scrivere senza dal loro un tono che sa troppo di predica. 

Rischiano di venire fuori a una sola dimensione.

Bisogna saper mostrare alle persone un lato del loro carattere che loro stesse ignorano.

Joe Hill non ci va neanche vicino, ma se mai c’è stato qualcuno che poteva ispirare una

canzone, quello era lui. Joe aveva quella luce negli occhi.

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Pensavo che, se la canzone l’avessi scritta io, l’avrei immortalato in maniera differente,

più come un Casey Jones o un Jesse James. 

Era così che bisognava fare. 

C’erano due maniere di realizzare la cosa. 

Una consisteva nell’intitolare la canzone ‘Scatter My Ashes Any Place but Utah’, spargete

le mie ceneri dovunque tranne che nello Utah, e fare di quel verso il ritornello. 

L’altra era di scriverla                                        Joe_Hill_Funeral.JPG                                                                  

come ‘Long Black Veil’,

qualcuno che parla dalla

tomba, una canzone dal

mondo dei morti.

E’ una ballata nella quale

un uomo sacrifica la sua

vita per non far cadere 

l’onta su una donna e a

causa di ciò che non può

dire deve pagare PER IL CRIMINE COMMESSO DA UN ALTRO.

Più ci pensavo, più ‘Long Black Veil’ mi sembrava una canzone che avrebbe potuto

scrivere lo stesso Joe Hill, la sua ultima.

Non scrissi la canzone per Joe Hill.

Ci pensai, ma non lo feci.

La prima canzone di una certa importanza che finii per scrivere, la scrissi per….

Woody Guthrie.

(Bob Dylan, Chronicles)

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MINTON’S PLAYHOUSE

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minton's playhouse


 

Poco più a nord, ad Harlem, un altro appuntamento d’obbligo era

diventato il Minton’s Playhouse, sulla Centodiciottesima, una delle

strade più povere del quartiere.

Il locale non era altro che un loft dell’Hotel Cecil, un albergo davvero

poco invitante. Non era l’unico locale ovviamente.

minton's playhouse

 C’erano il mitico Cotton Club, il Monroe’s, il Victoria, lo Yeah Man,

lo Small Paradise, diventato famoso per aver avuto come camariere

nientemeno che Malcom X.

 

minton's playhouse

Il Minton’s era proprietà di Henry Minton, non certo un grande gestore,

ma ex sassofonista e primo delegato nero dell’Unione musicisti di New

York. In più, Minton aveva avuto l’accortezza di far dirigire il locale a

Teddy Hill, ex bandleader con il quale avevano suonato un po’ tutti i

anche alcuni di quei giovani scapestrati, Dizzy Gillespie primo fra

tutti, che cercavano di dare al jazz un’impronta nuova.

Dunque Hill aveva pensato di mettere nel club soltanto una sezione

ritmica, formata dal pianista Thelonious Monk, dal bassista Nick

Fenton e soprattutto dal batterista Kenny Clarke, che era il generatore

di ogni situazione musicale.

 

minton's playhouse

Per dare vita alle jam session aveva scelto il lunedì, serata di libertà

per quanti lavoravano nei teatri e nei club, organizzando ‘La notte

delle celebrità’.

Il locale era grigio, addirittura povero: una stanza spogliatoio, un bar,

pochi tavolini e una pedana che poteva contenere al massimo sei o

sette musicisti. La cucina era ottima: con tre dollari si potevano gustare

le specialità creole, mentre i cocktail costavano dai 25 ai 30 cents e lo

stesso il baby di whisky.

 

minton's playhouse

Hill aveva anche capito che i giovani musicisti erano stufi di quel jazz

commerciale che andava per la maggiore. Sapevano tutti che lo swing

era stato una cosa splendida sotto le mani di Count Basie, ma che quando

le orchestre bianche se n’erano impadronite era diventato una musica

bolsa, adatta solo a far ballare gli smidollati. Così ognuno di loro cercava

di uscirne, di inventare linguaggi nuovi.

Kenny Clarke era uno di questi.

Raccontava il batterista: ‘Mi ero stancato di suonare alla Jo Jones. Era ora

di cambiare, così avevo spostato il ritmo base della percussione dal tamburo

basso al piatto alto, sul quale potevo ottenere variazioni di tono graduando

il colpo della bacchetta. In più ero libero di picchiare tamburo e timpani per

marcare gli accenti’.

 

minton's playhouse

Anche Thelonious Monk, che proprio Clarke aveva suggerito a Hill, stava

cercando nuove strade. Monk era un autodidatta ma la sua tecnica, almeno

così afferma il batterista Max Roach, era assai vicina a quella di Art Tatum.

All’epoca aveva già scritto temi che sarebbero entrati nella storia, come

‘Round Midnight’, ‘Blue Monk’, e ‘Epistrophy’, ma che erano ancora 

sconosciuti.

 

 

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