NUVOLE (3)

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L’evaporazione dalla pianura alluvionale era troppo modesta,

e troppo calda e asciutta l’aria sovrastante, perché nubi impo-

nenti si formassero in loco, mentre le grandi perturbazioni tras-

portate dalle correnti atmosferiche consumavano quasi tutta l’-

energia molto prima di giungere sul delta del Nilo.

La parmanenza nelle terre semidesertiche del Sinai e di Canaan

espose Mosé e i suoi seguaci non solo alle fluttuazioni stagiona-

li della pioggia, ma anche all’inedito spettacolo dei colossali cu-

mulonembi convettivi, le divine ‘colonne di nubi’ che comincia-

rono a mostrarsi agli ebrei man mano che si allontanavano dalla

bassura deltizia del Goshen.

Fu un’esperienza improvvisa che lasciò un segno durevole, an-

che perché le intemperie continuarono a visitare con regolarità

la loro nuova dimora.


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Agli occhi degli esuli che composero i libri mosaici lo spettacolo

delle nubi, potenti e imprevedibili, diventò il simbolo della na-

tura incerta, strana ed entusiasmante della loro nuova situazione.

Come quegli uomini abituati all’irrigazione fluviale non tardaro-

no a comprendere, per fondare un’agricoltura basata sulle preci-

pitazioni essi avrebbero dovuto interrogare il cielo, e apprende-

re la lingua in gran parte sconosciuta.

Udiamo così le loro domande, poste con crescente urgenza nei

libri di Enoch e Giobbe, echeggiare nei secoli, evitate o lasciate

senza risposta o mutate in cosmologia, in una grande catena di

ragionamenti inesorabilmente attraverso una serie di pietre mi-

liari del pensiero metereologico.

Tra le quali una delle più importanti fu la drammatica interpun-

zione del dicembre 1802, in cui per la prima volta le nubi furono

denominate in modo convincente da un chimico trentenne in un

seminterrato londinese.

Prima di allora furono compiuti tentativi più razionali di svela-

re i misteri dell’atmosfera e di renderne le manifestazioni meno

imprevedibili e minacciose.

Poco si guadagnava, infatti trasformando le nubi in dimore di

dèi remoti e vendicativi, anche se quasi tutte le culture hanno

percorso per qualche tempo questa strada. In quanto confine

ideale tra terra e cielo, le nuvole sono state fonte di miti, oltre

che di delimitazione, rispetto ad altre realtà.

Quali mondi, infatti, non potevano celarsi dietro di esse alla

vista dei mortali?


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Nella mitologia scandinava Frigg, sposa di Odino, era signora delle

nubi.

Nell’elevata Fensalir, la Sala delle Nebbie, con ruota e canocchia e

infinita pazienza ella filava i fili d’oro tessuti dai venti negli orli ro-

sa e arancio dei cirrostrati, che i mortali possono ammirare all’alba

e al tramonto.

Quelle nubi alte erano a lei riservate e intoccabili per gli altri dèi,

sebbene al momento della creazione il cervello del gigante di ghiac-

cio Ymir fosse stato proiettato nell’aria estiva dando origine ai fami-

liari cumuli delle quote inferiori.

Così, almeno, insegnava Alvis, il meno onniscente che recitava i

nomi coi quali ‘le nubi, proprietarie della pioggia’ erano note ‘in

tutti i mondi e in ciascuno’: ‘Gli uomini che chiamano nuvole’; gli

dèi ‘possibilità di pioggia’ e i Vanir ‘nibbi dei venti’.

I giganti le chiamano ‘speranza di pioggia’; gli elfi ‘potenza del

tempo’ e in Hel (l’Ade scandinavo) sono conosciute come ‘elmi

dei segreti’.

(R. Hamblyn, L’invenzione delle nuvole)







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NUVOLE (2)

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Tutte le realtà naturali – comprese ovviamente quelle riguardanti

il clima – nel loro aspetto statico e specialmente in quello dinamico

erano suscettibili di interpretazioni in base a queste idee fondamen-

tali; e la meteorologia cinese si sviluppò in parte per esprimere e

confermare questa concezione sommamente armoniosa.


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In effetti il ciclo dell’acqua, per citare solo un caso, era un esempio

adeguato, concreto e in movimento della collaborazione e del perio-

dico passaggio di consegne dei due principi supremi: il calore sola-

re yang alimenta la nuvolosità yin tramite il semiocculto intermediario

dell’evaporazione.

Nella salita e ricaduta senza fine dell’acqua per evaporazione, con-

densazione e precipitazione l’equilibrio di armonia e avvicendamen-

to sotteso all’intero funzionamento dell’universo mentale cinese.

Perfino la violenza del temporale serviva a illustrare il legame indi-

viduale tra le forme naturali di energia: l’eccesso di pioggia yin ri-

chiedeva, a guisa di contrappeso, una scarica di ‘fuoco’ yang sotto

forma di folgore, per ricondurre entro limiti accettabili lo squilibrio

del cieo in tumulto.

Da qui i singolari doni delle nubi temporalesche alla terra: il tuono,

il fulmine e le tracce di zolfo fortemente elettrizzato.

Per il pensiero cinese tradizionale, essi rivelavano il pagamento di

un debito di energia accumulatosi nel corso del tempo nelle più alte

regioni dell’universo.

Qualche secolo più tardi la religione taoista dotò il suo pantheon di

un intero ministero del Tuono. Quel settore del governo divino inclu-

deva gli dei del tuono e del lampo, il conte del vento, il maestro della

pioggia e il suo giovane aiutante Yun-T’ung, il ‘garzone delle nuvole’

incaricato di tener sempre pronta una consistente riserva di vascelli

celesti, disposti in bell’ordine e carichi di pioggia.

Le moderne teorie riguardo al modello di vita feng-shui (vento e 

acqua) sono le ombre lunghe proiettate fino ai nostri giorni della

forza inesausta di simili idee.


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In contrasto con l’armoniosa concezione cinese, gran parte della

forza morale dell’antico giudaismo venne dal racconto di violenti

fenomeni metereologici vissuti in modo punitivo.

Dal diluvio della Genesi alla grandine dell’Esodo, i libri mosaici

e profetici sono gravati da un cupo clima di vendetta, spesso por-

tato da forti venti orientali.

Il tempo atmosferico sembra dirci il più terrificante di quegli epi-

sodi, è la sola condizione della vita terrena, il solo aspetto perma-

nente del mondo naturale, che non è e non sarà mai signoreggiato

dall’uomo.

Pestilenze e calamità discendevano da cieli plumbei e minacciosi,

causati da malaugurati disturbi delle correnti a getto. 

Provenendo da una civiltà che si affidava per le sue colture all’ir-

rigazione fluviale, situazioni così estreme e imprevedibili pote-

vano suscitare una profonda angoscia circa il futuro che li atten-

deva.

Con precipitazioni medie annuali di appena 25-50 millimetri, il

regno del faraone quasi non conosceva le intemperie e gli ebrei,

che da più di quattro secoli vivevano nei suoi confini, non avreb-

bero mai visto il minaccioso addensarsi delle nubi temporalesche

se la loro esistenza non fosse stata rivoluzionata dall’Esodo. 

(R. Hamblyn, L’invenzione delle Nuvole)

 





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PENSIERI DAL SUD

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pensieri dal sud

 

 







Che cosa ci fa esistere, se non il raggio misterioso che attraversa

talvolta, come una scossa, la selvaggia regione interiore?

E per quanto ciò riesca imperfetto, l’uomo continuerà a parlare

di quel che in lui è più che umano.

I tentativi compiuti dalla scienza per entrare in contatto con altri

mondi sono un tratto significativo di quest’epoca. Non solo nell’-

intento in sé, ma anche nei suoi aspetti tecnici, a stupirci è uno

strano miscuglio di oggettività e fantasia.

Non è forse sorprendente l’idea di tracciare in una zona del Sha-

ra, per mezzo di segnali luminosi, il triangolo rettangolo di Pi-

tagora con i suoi tre quadrati?

Come potrà mai interessarci il fatto che da qualche parte nell’-

universo viva una mente matematica?

Eppure c’è qui un aspetto che richiama alla mente il linguaggio

delle piramidi, un’eco dell’origine sacrale dell’arte, del sapere

solenne della creatura sul proprio senso nascosto, e tutto ciò

in armonia con i presupposti del pensiero astratto e dietro la

maschera della tecnica moderna.

Ci sarà mai qualcuno a captare i segnali radio che noi lanciamo

nei gelidi abissi degli spazi siderali?

Questa traduzione in impulsi elettrici di linguaggi per cui già

sulla terra i fiumi e le catene montuose sono un confine, e che,

tradotti, chiedono ascolto ai margini dell’infinito?

E in quale lingua verrà tradotta la traduzione?

Singolari tibetani, la cui preghiera monotona risuona dai mo-

nasteri rupestri degli osservatori!

Chi potrebbe sorridere dei mulini da preghiera, conoscendo i

nostri paesaggi con le loro miriadi di ruote vorticanti, la frene-

sia che muove la lancetta dell’orologio e la folle corsa dell’albe-

ro a gomiti dell’aeroplano?

L’oppio dolce e rischioso della velocità!

Eppure non è forse vero che il centro della ruota è in piena

quiete?

La quiete è la lingua originaria della velocità. Per quanto si

voglia tradurre la velocità e potenziarla, ogni potenziamento

sarà solo una traduzione della lingua originaria.

Ma in che modo comprenderà l’uomo la propria lingua? 

Ecco, tu posi lo sguardo sulle nostre città. Ne hai viste tante

prima di queste e altre ne vedrai dopo di esse.

Ogni casa è ben costruita, ha un suo scopo preciso.

Ci sono strade anguste e tortuose, che sembrano tracciate dal-

la mano del caso, così come i campi di una regione contadina

conservano il perimetro di spartizioni ereditarie ormai cadute

nell’oblio. 

Altre sono dritte e ampie, e le loro prospettive furono tracciate

da principi e architetti famosi. Il depositarsi nella pietra dei

tempi e delle razze dà luogo a molteplici strati sovrapposti.

La geologia della psiche umana è una scienza a sé.

Tra le chiese e i palazzi pubblici, tra le ville e i casermoni po-

polari, i bazar e i luoghi del divertimento, le stazioni ferrovia-

rie e i quartieri industriali la vita circola e pulsa; il traffico è

intenso, la solitudine straordinaria.

Ma da una così sublime altezza questi accumulatori gigan-

teschi di forze organiche e meccaniche assumono un altro

aspetto.

Anche guardando con un telescopio potentissimo la differen-

za non potrebbe sfuggire.

Le cose, per chi le sovrasta, non mutano nella sostanza ma

mostrano un’altra faccia. Così in questa immagine remota le

differenze fra epoche sfumano l’una nell’altra. Non ci si ac-

corge più che le chiese e i castelli sono millenari mentre i

grandi magazzini e le fabbriche sono dei nostri giorni; tende

piuttosto ad affiorare qualcosa che potremmo chiamare il lo-

ro disegno nascosto: la struttura cristallina comune in cui è

precipitata la materia prima.

Anche nella smisurata varietà dei fini e dei movimenti con-

nessi l’occhio non percepisce più nulla.

Laggiù sulla terra due persone che si incrociano di fretta

sono due mondi a sé, e un quartiere di una città può essere

lontano da un altro più di quanto non disti il Polo Nord dal

Polo Sud.

Ma visto da te, che sei già un essere cosmico pur appartenendo

alla terra, tutto ciò appare nella sua quiete, come la secrezione

prodotta dalle agitazioni vulcaniche e dai succhi volatili della

vita. Spettacolo inesausto e mirabile, come dalla varietà e dal-

l’ostilità dei tempi e dei luoghi cresca forma su forma!

E quella che chiamo la fraternità della vita, in cui ogni ostilità

viene assorbita e tolta.

Quaggiù ci è concesso raramente di vedere il fine fondersi con

il suo significato. Eppure il nostro sforzo supremo tende a quel-

lo sguardo stereoscopico che coglie le cose nella loro corporei-

tà più segreta e più immobile. 

La necessità è una dimensione particolare. 

Noi viviamo in essa, eppure siamo in grado soltanto, e solo

negli istanti significativi, di osservarne le proiezioni.

Esistono segni, metafore e chiavi di vario tipo: siamo come il

cieco che non è in grado di vedere ma che riconosce la luce

dalla sua qualità più opaca, il calore.

Ora, non è forse vero che ogni movimento del cieco per chi lo

guarda si compie nella luce, pur essendo egli avvolto nella te-

nebra più fitta?

Così noi non abbiamo mai visto il nostro volto in specchi di

natura atemporale. Noi parliamo una lingua il cui significato

non ci è del tutto evidente: un linguaggio in cui ogni sillaba

è al tempo stesso peritura e imperitura.

I simboli sono segni del fatto che, nondimeno, la coscienza

del nostro valore ci è data. Essi sono, da un lato, proiezioni

di forme appartenenti a una dimensione nascosta, ma anche

riflettori con cui lanciare i nostri segnali nell’ignoto, e in una

lingua gradita agli dèi.

E questi passatempi enigmatici, questa catena di sforzi mira-

bili in cui consiste il nocciolo della nostra storia – una storia

di battaglie fra uomini e dèi (io il Dio, voi gli uomini…) – so-

no la sola cosa che renda l’uomo degno di studio. 

(E. Junger, Lettera dalla Sicilia all’uomo nella Luna)





 

 

pensieri dal sud

 

IL RISVEGLIO: VERTIGINI COLLETTIVE

 

 

 

 

Son uscito talor fuor  dyck167.jpg  de

le porte,

E mi son fitto in antri et in

spelonche,

E parlato più volte con la Morte.

Ho avuto il naso mozzo

e le mani monche,

I piedi storti e caminar

carponi,

Che mi pareva aver

le gambe tronche.

Ora cavalco in gropa d’un

montone,

Ora sopra un delfin salir

mi pare,

Or sopra un elefante,

or un leone.

Quasi ogni notte sogno

di volare….

Andai per l’aria l’altra notte a vela,

E sopra un alto monte restai preso,

E fui cacciato in un borsel di tela.

Mi son sognato fin che le cicogne

M’hanno portato in qualche oscura grotta

E seppellito là fra le carogne.

Talor son stato levato di peso

E portato in un pozzo, e’ l pozzo farsi

Una lanterna, e io un moccolo acceso…

Talor caduto son d’un fiume in fondo,

Poscia mi sono trovato in una botte,

E giù d’un monte sdruciolare a tondo…

Di molti ho udito dir che si son fatti

Certi sogni sì orrendi e paurosi

Che la mattina son restati MATTI…. 

(………)

 

  

 

 

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NUVOLE

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Sono le nuvole celesti,

dee protettrici degli sfaccendati.

A loro dobbiamo…

l’intelligenza, la dialettica e la ragione.

Aristofane, 420 a. C.



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I primi tentativi di descrivere i fenomeni atmosferici risalgono

alla più remota antichità.

E’ naturale che sia così, perché il clima è sempre stato l’aspetto

saliente dell’esperienza ambientale degli uomini, con la sua

incertezza che spingeva continuamente a nuove descrizioni e

interpretazioni.

Nella storia, il cielo è diventato a più riprese la sede di entità

immaginarie: dei, auspici, ritmi zodiacali e infine i primi bal-

betii del pensiero scientifico.

E’ noto che alcune delle più arcaiche testimonianze scritte fu-

rono tentativi di venire a capo della perenne mutevolezza del

clima. 

Testi egizi, caldei e babilonesi serbati per millenni su tavole

d’argilla e fragili papiri parlano dei misteri delle nubi, del

tuono e della pioggia e includono i primi, sporadici tentati-

vi di previsione meteorologi ca. Quando un alone scuro circon-

da la luna, il mese porterà pioggia o chiamerà a raccolta le nubi,

dichiara un oracolo caldeo di quattro millenni fa.

Se una nube oscura il cielo, si leverà il vento, afferma un altro.

Questi e altri frammenti simili, forse le più antiche ‘previsio-

ni del tempo’ giunte fino a noi, possono essere testimonianze

di un’antica sapienza meteorologica, ma non si può escludere

che alludessero a minacciosi cambiamenti di clima politico e

sociale. 

Quello che oggi è dato cogliervi con certezza è l’atmosfera pal-

pabilmente apprensiva. Ancora più a est, al tempo della dinastia

Shang, gli studiosi cinesi compilarono bollettini più precisi e ten-

tarono di analizzarne il contenuto dividendolo in blocchi di die-

ci giorni – un tentativo le cui tenui tracce sono giunte fino a noi.

Si annotavano arcobaleni, aloni e pareli e si registrava la direzio-

ne prevalente del vento. Anche il livello delle precipitazioni pio-

vose e nevose era misurato, nel secondo caso con canne di bambù

situate nelle province settentrionali.

Nelle regioni collinari dell’antica Cina si fabbricarono anche igro-

metri sulla capacità del carbone di legna di assorbire il vapor d’-

acqua.

Esso era conservato e pesato all’asciutto, poi pesato di nuovo do-

po l’esposizione per un tempo prestabilito all’umidità atmosfe-

rica.

Il tasso di questa era indicato dallo scarto tra la prima e la secon-

da pesatura. Due millenni prima di Cristo, in quelle lontane con-

trade, alcune grandezze naturali cominciarono a essere misurate

e registrate.

I progressi scientifici vanno sempre collocati in più ampi contesti

sociali, e dietro l’evoluzione dell’antica metereologia cinese c’era

il consolidarsi di un’intera concezione del mondo. La dottrina dei

ch’i, i due principi gemelli yin e yang che presidierebbero all’equi-

librio cosmico, stava diventando l’asse intorno a cui ruotava il

pensiero politico e naturale del grande Impero orientale.

Alla fine del IV secolo a. C. il principio yin (le quali erano consi-

derate manifestazioni terrestri del tipo ‘femminile’)  era concet-

tualmente collegato con le nubi e la pioggia, così come la luce

e il calore solari erano ritenuti yang (manifestazioni celesti del

principio ‘maschile’).

Secondo tale dottrina le proprietà ‘femminili‘ e ‘maschili’ sono

insieme opposte e complementari, e nei fenomeni della natura

non si trovano mai allo stato puro – anche se una delle due può

predominare.

(R. Hamblyn, L’invenzione delle nuvole)






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UN CIMITERO

Altre cantiche dello stesso poeta:

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un-ottico.html

una-seconda-canzone.html

il-testamento-di-tito.html

laudate-hominem.html

il-sogno-di-maria.html

un-blasfemo.html

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Solo la morte m’ha portato in collina:

un corpo fra i tanti a dar fosforo all’aria

per bivacchi di fuochi che dicono fatuii,

che non lasciano cenere, non sciolgon la brina.

Solo la morte m’ha portato in collina.

 

Da chimico un giorno avevo il potere

di sposar gli elementi e farli reagire,

ma gli uomini mai mi riuscì di capire

perché si combinassero attraverso l’amore.

Affidando ad un gioco la gioia e il dolore.

 

Guardate il sorriso, guardate il colore

come giocan sul viso di chi cerca l’amore:

ma lo stesso sorriso, lo stesso colore

dove sono sul viso di chi avuto l’amore.

Dove sono sul viso di chi ha avuto l’amore.

 

Che strano andarsene senza soffrire,

senza un volto di donna da dover ricordare,

ma è forse diverso il vostro morire

voi che uscite all’amore, che cedete all’aprile.

Cosa c’è di diverso nel vostro morire.

 

Primavera non bussa, lei entra sicura,

come il fumo lei penetra in ogni fessura,

ha le labbra di carne, i capelli di grano,

che paura, che voglia che ti prende per mano.

Che paura, che voglia che ti porti lontano.

 

Ma guardate l’idrogeno tacere nel mare,

guardate l’ossigeno al suo fianco dormire:

soltanto una legge che io riesco a capire

ha potuto sposarli senza farli scoppiare.

Soltanto la legge che io riesco a capire.

 

Fui chimico e no, non mi volli sposare,

non sapevo con chi e chi avrei generato:

son morto in un esperimento sbagliato

proprio come gli idioti che muoion d’amore.

E qualcuno dirà che c’è un modo migliore.

(Fabrizio de André, Un chimico, Non al denaro non all’amore né al cielo)





 

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IL CIARLATANO A TAVOLA

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Che mirar vol le baronie del mondo

   non lassi di guardar cotai figure;

   e penetrando vada in fino al fondo

   quanto s’ingegnin queste creature

   se pur cresciute,

   di trappolar ciascun a tondo a tondo

   con chiacchiere, calunnie e bugie piene

   di belli prosciutti,

   e con le favole che son le vere strade

   per ingannar la brava gente,

   e modi rari pur che ‘ empino la borsa di danari

   che oltre li prosciutti la panza reclama

   altri piatti infami.

 

Chi fa ‘ l bufon, chi s’industria tagliare 

   dei compagni la borsa destramente…

    questa la vera mente,

   chi finge non poter più camminare

   come istropia; acciò lor dia la gente

   qual cosa da potersi sostenere,

   che simul esser sordo se ben sente

   tal che l’industria lor è lo ingannare…

   l’onesta gente,

   in ogni loco e per terra, e per mare.

 

Ora che da l’altro canto hai ben veduto

   come ciascuno s’adestri in furberia

   mira questo altro lato e più saputo

   mel conoscere tal gente ria:

   acciò tu possa con tuo ingegno aiuto

   fugir di lor ogni poltroneria;

   gli occhi d’Argo bisogna sempre avere

   chi nelle reti non vuol cadere.

 

Non occorre, s’hai occhi, appertamente

   ch’io dica; che veder nel foglio puoi

   quante si sian l’astuzie di tal gente….

   che dopo a tavola come grande Imperator…

   ora siede,

   e come sian accorti li suoi inganni

   chi sulla stessa predica lo vero dovere….

 

E poi al fin ei son ingannati sovente

   da gli altri furbi: a dirla qui fra noi

   poi che l’ingannator resta alla fine

   gli inganni d’altrui, in gran roine.



  

 

 

 

dopo la castagna: il ciarlatano a tavola

 

DA NORIMBERGA A VENEZIA (2)

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…sotto il velame….

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da norimberga a venezia 2








Il Tirolo era terra di caccia e di miniere degli Asburgo.

Innsbruck, il ‘ponte sull’Inn’, Durer la ritrae in un acquerello

tutto tetti aguzzi che si specchiano nel fiume sullo sfondo

delle montagne.

Vi si lavoravano armature resistenti a colpi di balestra e d’-

arma da fuoco portatile. 

Un altro acquerello riproduce il cortile della Hofburg, che

poi fu rimaneggiata da Maria Teresa. Massimiliano non ave-

va ancora intrapreso a far fondere, in un sito poco distante

sulla riva sinistra dell’Inn, le statue degli antenati per la sua

tomba nella cappella imperiale di Wiener Neustadt.

Interrotta la megalomane impresa per la morte dell’impera-

tore, resteranno, in numero di 28, a Innsbruck, intorno alla,

vuota, nella Hofkirche.

Il cardinal d’Aragona iniziò il suo viaggio all’estero entrando

in Tirolo, e le prime impressioni registrate nel giornale di

viaggio fanno pensare alle abituali sorprese nella scoperta del

mondo alpino tedesco: crocefissi di legno lungo le strade, gli

sporti a due o tre finestre da cui guardare nella strada, tetti di

tegole lucide e colorate, campanili ‘alti et acutissimi’.

 

da norimberga a venezia 2


Il Brennero (m. 1375) è il più basso dei valichi che attraversa-

no le Alpi; già vi passavano carri pesanti e grossi; i nomi delle

merci che transitavano nei due sensi riassumono i rapporti e-

conomici internazionali che avevano i loro poli in Norimberga

e Venezia: spezie orientali, cotone, seta, frutta, allume, legno

tintorio, vetri muranensi, botti di vino da sud verso nord; sa-

le di miniera, rame, stagno, lino, lana, utensili metallici, armi,

in senso inverso.

Bolzano è una città murata del vescovo di Trento.

Qui e ancor più a Trento, principato vescovile imperiale, si

sente che il cielo, l’aria, i colori sono cambiati, lo noterà anche

Goethe.

Durer dipinge altri acquerelli.

 

da norimberga a venezia 2


Rovereto era allora la prima terra veneziana; il segno lo si ve-

deva non solo nel leone di San Marco ‘andante’, scolpito sopra

la porta, ma in un certo gusto dell’edilizia urbana.

Nella Valle Lagarina lungo l’Adige erano stati piantati i gelsi.

Il Veneto era saldamente nelle mani della Serenissima signoria.

Nelle città – Verona, Vicenza, Padova – era soltanto all’inizio

quella trasposizione in Terraferma dei modi architettonici lagu-

nari che sempre più le caratterizzerà.

I patrizi veneziani hanno cominciato a investire nella terra; a

Venezia qualcuno degli anziani lamenta questa nuova tenden-

za, rimpiange il tempo in cui si rischiava denaro e fortuna, av-

venturosamente, per mare e nei fondaci oltremare; ora si guar-

da ai campi, si divisano lavori idraulici, bonifiche, trasforma-

zioni di culture, le prossime generazioni si daranno in grande

a farsi costruire ville con pronai di colonne classiche da cui

guardare il verde della campagna e ‘barchesse’ per ricoverare

fieni e messi. 

(L. Camusso, Guida ai viaggi nell’Europa del 1492)







 

da norimberga a venezia 2


BAMIYAN

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bamiyan






 

 


Dopo alcuni giorni trascorsi fra le ricche contraddizioni di Kabul

partimmo per


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il nostro primo viaggio. Ci recammo nell’Hindukush, a Bamiyan, il più

famoso sito buddhista afghano.

Avevo letto i testi buddhisti, mi incuriosivano le origini dell’arte bud-

dhista e ho un’autentica passione per i monasteri in rovina.

Sotto molti aspetti, almeno agli inizi del loro sviluppo storico, bud-

dhismo e cristianesimo sono fenomeni del tutto paralleli. Ero assillato

da pensieri niente affatto impersonali (oltre che da una giovane ed

inesperta per quanto adolescenziale guida, tutrice, interprete, non-

ché spia. Talvolta faceva anche da psicologa volendo ‘penetrare’ a

forza sentimenti e stati d’animo, impressioni e altro. 

Ma la lasciammo venire con noi, dandogli l’illusione di contare

qualcosa, la sapevamo asservita e cultrice del potere, lo ammirava

idolatrava, venerava, di qualsiasi forma ed ispirazione fosse, l’im-

portante che l’etichetta della bevanda con cui si dissetava ogni

giorno portasse su scritto, ‘potere ascoltare prima dell’uso’.

Potere in un mondo dove le donne contano meno del bestiame…).

Né buddhisti né i cristiani, a quanto ne so, hanno mai convertito

una popolazione nomade, forse neppure l’Islam.

Quando il buddhismo si diffuse in Afghanistan le invasioni delle

tribù nomadi erano ancora lontane; è vero il buddhismo si conso-

lidò e mise radici sotto l’impero Kushana, ma i Kushana, cugini dei

parti, a quel punto erano già diventati stanziali e permissivi.

Pare che la dottrina di Siddharta Gautama non sia mai riuscita a

spingersi a ovest nel regno dei parti o nel rinato impero persiano

dei sassanidi, dove i buddhisti non avrebbero dovuto competere

con il paganesimo, bensì con un culto monoteista del fuoco, con

l’ebraismo e con il cristianesimo ortodosso e nestoriano.


Bamiyan.jpg


Buddhismo e nestorianesimo arrivano in Cina, mentre il culto del

fuoco e il buddhismo coesistettero nell’impero Kushana; eppure, a

quei tempi, buddhismo e cristianesimo si sfiorarono appena lungo

le piste commerciali, e nessuno dei due riuscì a insinuarsi nelle du-

re religioni tribali dei nomadi.

Sia i mongoli sia gli arabi invasori erano monoteisti di una certa

purezza e ferocia; è molto difficile scindere il loro spirito intransi-

gente dalla vita disagevole che conducevano, ma credo che se mai

verrà scritta una storia del monoteismo, cioè se mai si potrà dare

una vera spiegazione storica del suo sviluppo, allora si vedrà che

la fede monoteista rappresenta uno stadio particolare dello svilup-

po umano che si è meravigliosamente preservato, e che deve puri-

ficarsi di continuo per sopravvivere.

Forse, alle sue origini, il monoteismo ha più a che vedere con il

cielo reale e con l’idea di una giustizia fatta soltanto di luce e te-

nebra, piuttosto che con qualsiasi istituzione politica.

Gli insegnamenti di Siddharta Guatama sono puri come neve ap-

pena sciolta.

Era un santo della filosofia, come Socrate ed Epicuro; la vita del

Buddha e quella di Socrate si svolgono nell’arco degli stessi cent’-

anni.


bamiyan-buddha2.jpg


Il culto del buddhismo dei primordi era molto rarefatto; il Buddha

era un grande maestro venerato per i suoi insegnamenti, proprio

come Socrate in Occidente: il buddhismo di questo periodo può es-

sere studiato solo attraverso iscrizioni e testi letterari.

Ma la venerazione diede origine al pellegrinaggio.

Dal III secolo a.C. in poi si moltiplicarono i monumentali tumuli

cupola edificati per custodire reliquie del Buddha di sempre più

dubbia autenticità, e a partire dalla nascita di Cristo si affermarono

varie ondate di arte figurativa in qualche modo grecizzante; il bud-

dhismo era diventato una religione popolare piuttosto tollerante

verso le superstizioni.

I principali luoghi del pellegrinaggio erano i tumoli a cupola

(gli stupa) e i decoratissimi monasteri.

Forse i monasteri meglio conservati si trovano nella Cina nordoc-

cidentale, ma anche quello di Bamiyan, in Afghanistan, è un com-

plesso di vaste proporzioni e di grande interesse archeologico.

E’ costituito da più colonie di centinaia di celle scavate nelle pareti

rocciose, con due o tre statue colossali alloggiate in altrettante nic-

chie.

(Peter Levi, Il giardino luminoso del re angelo)

Prosegue in:

pensiero-filosofico.html





bouddha2.jpg

 

IL FALSO

Prosegue in:

con il vero

Sotto il ‘velame’ di un precedente post:

la bestemmia

 

 

….Non sostituisce 

il falso con il vero…

(ogni principio falso

rimane tale nella sua (errata) essenza.

E viceversa:

ogni principio vero

mai potrà divenire il suo contrario.)

Quindi potremmo dire, se la cagione

di ogni popolo è in ragione della sua

ignoranza, il male che per sempre ne

deriva è motivo della sua pochezza.


 



 

il falso







 


Il 24 marzo 1726 il luogotenente di polizia Hérault, assistito

dai ‘signori che occupano il seggio tribunalizio dello Chate-

let’ di Parigi’, rende pubblica una sentenza secondo la quale

‘Etienne Benjamin Deschauffours è dichiarato debitamente

reo convinto dei delitti di sodomia menzionati al processo.

Per riparazione, e per altri motivi, il suddetto è condannato

a esser bruciato vivo sulla piazza di Grève, le sue ceneri

disperse al vento, i suoi beni requisiti e confiscati dal re’.

L’esecuzione ebbe luogo quello stesso giorno.

Si trattò di una delle ultime condanne capitali in Francia

per colpa della sodomia. Ma la coscienza contemporanea

si indignava già abbastanza per questa severità, tanto che

Voltaire se ne ricordò al momento di redigere l’articolo

‘Amour socratique’ del ‘Dictionnaire philosophique’.

Nella maggior parte dei casi la sensazione, se non si limi-

ta a una relegazione in provincia, consiste nell’internamen-

to all’Hopital o in una casa di detenzione.

Ciò costituisce una singolare attenuazione della pena, se

la si paragona con la vecchia punizione, ‘ignis et incendi-

um’, prescritta ancora da leggi non abolite, secondo le qua-

li ‘coloro che cadono in questo delitto sono puniti con il

fuoco vivo.

Questa pena che è stata adottata dalla nostra giurispruden-

za si applica in uguale misura agli uomini e alle donne’.

Ma ciò che dà un significato particolare a questa nuova in-

dulgenza verso la sodomia sono la condanna morale e la

sanzione di scandalo che cominciano a punire l’omosessua-

lità, nelle sue espressioni sociali e letterarie.

L’epoca in cui per l’ultima volta si bruciano i sodomiti è

proprio l’epoca in cui sparisce, con la fine del ‘libertinaggio

colto’, tutto un lirismo omosessuale che la cultura della Re-

naissance aveva perfettamente tollerato. 

Si ha l’impressione che la sodomia, un tempo condannata

sullo stesso piano della magia e dell’eresia, e nello stesso

contesto di profanazione religiosa, non sia più condannata

ora se non per ragioni morali e assieme all’omosessualità.

Quest’ultima diventa ormai la circostanza essenziale della

condanna, e si aggiunge alle pratiche della sodomia, mentre

nasce una sensibilità scandalizzata verso il sentimento omo-

sessuale.

Vengono allora confuse due esperienze che fino allora era-

no rimaste separate: le proibizioni sacre della sodomia e gli

equivoci amorosi dell’omosessualità. Una stessa forma di

condanna racchiude ambedue, e traccia una linea di separa-

zione del tutto nuova nel dominio dei sentimenti. Si forma

così un’unità morale, liberata dalle antiche punizioni, livel-

lata nell’internamento e già vicina alle forme moderne della

colpevolezza. 

Ormai si sono stabiliti nuovi rapporti tra l’amore e la ragio-

ne. In tutto il movimento della cultura platonica l’amore 

era stato ripartito secondo una gerarchia del sublime che l’-

imparentava, a seconda del suo livello, sia con una follia

cieca del corpo, sia con la grande ebbrezza dell’anima nella

quale la sragione è sottoposta all’autorità del sapere.

Sotto le loro differenti forme, amore e follia si distribuivano

nelle diverse regioni della gnosi.

L’età moderna, a partire dal classicismo, impone una scelta

differente: l’amore di ragione e quello di sragione.

L’omosessualità appartiene al secondo.

E così a poco a poco, prende posto tra le stratificazioni del-

la follia.

Essa s’installa nella sragione dell’età moderna, ponendosi

al centro di ogni sessualità l’esigenza di una scelta in cui la

nostra epoca ripete incessantemente la sua decisione. Alla

luce della sua ingenuità ha ben visto che ogni follia si radi-

ca in qualche sessualità turbata; ma questo non ha senso

se non nella misura in cui la nostra cultura, con una scelta

che caratterizza il suo classicismo, ha posto la sessualità 

sulla linea di separazione della sragione.

In ogni tempo, e probabilmente in ogni cultura, la sessua-

lità è stata integrata in un sistema di coercizione; ma solo

nella nostra, e abbastanza di recente, essa è stata separata

in modo così rigoroso tra ragione e sragione, e ben presto,

per via di conseguenza e di degradazione, tra la salute e

la malattia, il normale e l’anormale. 

(Prosegue con-il-vero.html)

(M. Foucault, Storia della Follia)






 

il falso