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‘Nell’entrare nella piazza, il visitatore vede la folla suddivisa
in gruppi disposti in stretti cerchi, dal diametro di pochi piedi
soltanto.
E lì, al centro di ciascun cerchio, è seduto il musicista, il qua-
le tiene fra le gambe un barile, il cui robusto fondo percuote
con due bastoni, incessantemente, per ore ed ore, come un fol-
le, mentre il sudore gli cola, letteralmente, a rivoli e bagna il
terreno.
Lì, anche, faticano i danzatori, uomini e donne, posseduti, i-
spirati, al punto da non avvertire alcun senso di stanchezza
nelle membra, che si muovono con una tale rapidità e una ta-
le continuità che sembrerebbe possibile soltanto a delle mac-
chine.
La testa è reclinata sul petto, o è rovesciata all’indietro, gli
occhi sono chiusi o mandano lampi, mentre le braccia, fra le
grida, gli urli, gli acuti strilli, si muovono nell’aria o segnano
il tempo, e le mani percuotono le cosce, accompagnando una
musica che sembra eterna.
‘I piedi difficilmente si muovono per uno spazio maggiore
della loro lunghezza, ma si sollevano e ricadano, si torcono
in dentro e in fuori, toccano il terreno prima coi talloni e poi
con le punte, sempre più rapidamente, tanto che l’occhio del-
l’osservatore non è in grado di seguirli’.
Più di trent’anni dopo, nel numero del febbraio 1886 di ‘Cen-
tury Magazine’, George W. Cable, un romanziere di New Or-
leans, scriveva:
‘La bamboula continua a urlare, a rumoreggire, a contercer-
si, a far capitomboli…. La musica però è cambiata….’
(A. Polillo, Jazz)