DA RUOLO A RUOLO: un olandese (9)

 

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Gente di passaggio: contro la politica di ‘Giulio’

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Da ruolo a ruolo: uno svizzero (10)

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Da ruolo a ruolo (2)

Da:

i miei libri

 

 

 

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Santo cielo, ci può essere una

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felicità maggiore di quella

posseduta da quel tipo di

uomini che vengono comune-

mente chiamati matti, sciocchi,

pazzi e bietoloni, nomi 

bellissimi, secondo me?

Dirò qualcosa di sciocco ed assurdo a prima vista, e tuttavia di 

straordinariamente vero.

Anzitutto non hanno paura della morte: per Giove, non è un

guaio da niente!

Non hanno il tormento della coscienza.

Non vengono spaventati dalle storie dell’inferno.

Non sono atterriti da spettri e fantasmi, non sono torturati dalla

paura dei mali imminenti, la speranza di futuri beni non li di-

strae.

Insomma non vengono straziati dalle migliaia di preoccupazio-

ni cui va soggetta questa vita.

Non provano vergogna, non pudore, non cercano il successo, non

provano ostilità né amore. Infine se si avvicinano ancora un po’ al-

la mancanza d’intelligenza dei bruti non commettono neppure pec-

cato, ci garantiscono i teologi.

A questo punto vorrei mi facessi il piacere di riflettere, demente

di un saggio, da quante angosce di ogni tipo notte e giorno venga

tormentato il tuo animo, vorrei che tu facessi un mucchio di tutti i

fastidi della tua vita: allora finalmente capirai a quanti mali ho sot-

tratto i miei folli.

Aggiungi, poi, che non sono soltanto loro stessi sempre di buon

umore, giocano, canterellano, ridono, ma anche sono oggetto di

piacere, di gioco, di scherzo e di riso per tutti gli altri, a chiun-

que: ed è come se gli dèi, nella loro indulgenza, li avessero do-

nati agli uomini con lo scopo preciso di rasserenare la tetraggi-

ne della loro vita.

(Erasmo, Elogio della follia)

 

 

 

 

 

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DA RUOLO A RUOLO: un olandese (8)

 

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A cosa potrà servire la bellezza, il dono                            uijhgtfgd.jpg

maggiore degli dèi immortali, se viene

guastata dallo spleen?

A cosa la giovinezza, se il lievito della

tetraggine senile la fa inacidire?

Infine cosa sarai in grado di fare nel

modo appropriato, di fronte a te stesso

e agli altri, in ogni dimensione della vita  senza la ben in-

tenzionata assistenza del qui presente Amor Proprio, che a

buon diritto per me è quasi fratello, tanto valore dimostra

nel sostenere ovunque la mia causa?

Infatti cosa c’è di più insensato dell’essere soddisfatti di sé?

Dell’ammirare se stessi?

Ma d’altra parte, come potrai agire in modo elegante aggra-

ziato, non sconveniente se sei scontento di te?

Prova ad eliminare questo sale della via: subito l’oratore che

perora lascerà indifferenti, il musicista non avrà alcun succes-

so coi toni, l’attore sarà preso in giro con le sue Muse, il pitto-

re sarà disprezzato con la sua arte, il medico farà la fame con

i suoi farmaci.

Infine sembrerai Tersite anziché Nireo, Nestore anziché Faone,

maiale anziché Minerva, balbuziente anziché eloquente, cafone

anziché raffinato cittadino.

A tal punto occorre che ognuno lusinghi persino se stesso e si

raccomandi a se stesso con una lisciatina prima di poter godere

della stima altrui.

Infine, dato che voler essere ciò che si è è la componente più

importante della felicità, il mio Amor Proprio riesce ad ottene-

re per la via breve che nessuno sia insoddisfatto della sua bel-

lezza, nessuno della sua intelligenza, nessuno della sua stirpe,

nessuno del luogo di nascita, nessuno della professione, nessu-

no della patria, tanto che l’Irlandese non vuole fare a cambio con

l’Italiano né il Trace coll’Ateniese né lo Scita con l’abitante delle

isole Fortunate. 

Con che diligenza incredibile ha agito la natura, bilanciando tut-

to nella varietà delle cose! Dove ha distribuito più avaramente i

suoi doni, aggiunge un po’ di Amor Proprio….

Ma ho detto veramente una sciocchezza, perché appunto l’Amor

Proprio è certo il dono maggiore. 

Tutto questo per non dire poi che nessuna azione nobile viene

intrapresa senza che io la stimoli, nessuna nobile arte è stata tro-

vata senza che ne fossi io l’inventrice.

Non è forse la guerra germe                                                           erasmo1.jpg

e fonte di tutte le azioni lodevoli?

Ma cosa c’è di più insensato che 

affrontare uno scontro in cui entrambe

le parti riportano più danni che vantaggi

per cause del tutto insignificanti?

Dei caduti, poi, non si parla, come dei

Megaresi.

Poi, quando le schiere scintillanti di ferro hanno preso posizione

su entrambe le fronti e le trombe hanno fatto risuonare il rauco

segnale che se ne può fare, vi chiedo, di questi valenti saggi che,

spossati dagli studi, col loro sangue sottile e raffredato fanno fa-

tica persino a respirare: c’è bisogno di tipi grossi e forzuti, pieni

di audacia e senza cervello.

A meno che non si preferisca come soldato Demostene, il quale

seguendo il consiglio di Archiloco fece appena a tempo a vedere

i nemici per poi scappare gettando lo scudo, soldato buono a nul-

la quanto era saggio oratore.    

Dicono però che in guerra conta molto la riflessione.

Certo, nel comandante, e per di più strategica, non filosofica; per

il resto questo capolavoro che è la guerra si fa                                             

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senza scrocconi, ruffiani, briganti,

killers, burini, deficienti, debitori e

simile bruttura, non con filosofi

abituati alla lucerna.

Del resto quanto poco servono

i filosofi per tutte le faccende

pratiche basta Socrate ad

insegnarlo, lui giudicato dall’oracolo di Apollo, ma non certo

sapientemente, l’unico sapiente: quando provò a fare non so

bene cosa nella vita pubblica, dovette andarsene in mezzo al

riso generale. Ma non era sciocco del tutto, lui che non accetta

di esser chiamato saggio e riserva questo nome soltanto al dio

e che ritiene che il sapiente debba astenersi dalla politica: ma

avrebbe fatto meglio ad insegnare che chi vuole venir contato

fra gli uomini deve astenersi dalla sapienza. 

Cos’altro lo ha costretto a bere la cicuta, quando è stato accu-

sato, se non la sapienza?

(Erasmo, Elogio della follia)

 

 

 

 

 

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DA RUOLO A RUOLO: un francese (7)

 

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Al di là del mare: un americano (6) &

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Da ruolo a ruolo: un olandese (8)

 

 

 

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E’ inutile a ripetere ciò che disse Erasmo in quel famoso libretto,

che oggi sembrerebbe un tessuto di luoghi comuni.

Noi chiamiamo follia quella malattia degli organi del cervello

che impedisce di necessità a un uomo di pensare e agire come

gli altri.

Non potendo amministrare i suoi beni, questo uomo viene inter-

detto; non potendo avere idee consone alla vita sociale, ne viene

escluso; se è pericoloso, lo si rinchiude; se è furioso, gli si mette

la camicia di forza.

Qualche volta si riesce anche a guarirlo, con docce, o salassi o

diete appropriate.

Ma ciò che ci preme osservare, è che quest’uomo non è per nul-

la privo di idee: egli ne ha come tutti gli altri, nella veglia, e tal-

volta anche nel sonno.

Ci si può chiedere come mai la sua anima spirituale e immorta-

le, alloggiata nel suo cervello, ricevendo tutte le impressioni dei

sensi ben nette e distinte, non riesca tuttavia a valutarle netta-

mente.

Essa vede gli oggetti come l’anima di Aristotele e di Platone, o di

Locke o di Newton; intende gli stessi suoni, riceve le stesse sensa-

zioni tattili: come mai allora, avendo le stesse percezioni delle per-

sone più a posto, le combina in un modo così stravagante, senza

poterne fare a meno?

Se questa sostanza semplice e eterna ha a disposizione per funzio-

nare gli stessi strumenti che hanno le anime degli uomini più sag-

gi, dovrebbe ragionar giusto come loro.

Chi può impedirmela?

Io concepisco benissimo che, se un matto vede rosso dove i saggi

vedono blu, se quando i saggi odono una musica questo matto o-

de il raglio di un asino, se, assistendo a un sermone, egli si figura

di assistere a una farsa, se quando gli altri intendono sì, egli inten-

de no, capirei allora che la sua anima ragioni in modo diverso da-

gli altri.

Ma questo pazzo ha le stesse percezioni degli altri: non c’è nessu-

na ragione apparente perché la sua anima, che riceve dai sensi in

ottimo stato gli elementi su cui ragionare, non possa farne un giu-

sto uso.

Eppure l’anima è pura, mi dicono: essa non può andar soggetta in

sé a nessun’ infermità: eccola munita di tutti i punti d’appoggio ne-

cessari; qualunque cosa accada nel suo corpo, nulla può mutare la

sua essenza….

Ma ciò non toglie che quest’anima sia condotta, col suo involucro,

al manicomio.

Questa riflessione può far sospettare che la facoltà di ragionare,

data da Dio all’uomo, sia soggetta ad alterarsi come gli altri orga-

ni. Un pazzo è un malato il cui cervello soffre, come il gottoso è

un malato che ha male ai piedi e alle mani: egli pensava col cervel-

lo, come camminava coi piedi, senza d’altronde avere chiara idea

né della sua incomprensibile facoltà di camminare, né della sua

non meno incomprensibile facoltà di pensare.

Dunque si può aver la gotta al cervello, come si ha la gotta ai piedi?

Insomma, dopo mille ragionamenti, c’è forse soltanto la fede che pos-

sa persuadarci che una sostanza semplice e immateriale vada sogget-

ta alle malattie.

I dotti, o dottori, diranno al matto: ” Caro mio, benché tu abbia per-

duto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale, pura, im-

mortale come la nostra; ma la nostra anima è bene alloggiata, e la tua

male: le finestre della casa sono ostruite per lei, le manca l’aria, soffo-

ca”.

Il pazzo nei suoi momenti di lucidità potrebbe risponder loro: 

” Amici miei, voi presupponete, secondo la vostra abitudine, ciò

che invece è in discussione.

Le mie finestre sono aperte come le vostre, poiché io vedo gli 

stessi oggetti che voi, e odo le stesse parole: bisogna dunque

credere che la mia anima faccia un cattivo uso dei dati delle

sensazioni, o che lei stessa sia come un senso viziato, una

qualità depravata.  In conclusione: o è la mia anima in sé che è

pazza, o io non ho anima”.

Uno dei dottori potrà forse rispondere:

” Fratello, Dio ha creato forse delle anime folli, come ha creato

delle anime savie”.

Ma il matto risponderà:

” Se io credessi a ciò che mi dite, sarei ancor più matto di quel

che sono. Di grazia, voi che la sapete così lunga, ditemi: per-

ché son matto?”.

Qui se i dottori hanno ancora un po’ di cervello, gli risponde-

ranno:

” Non ne sappiamo nulla”.

Essi non comprenderanno perché un cervello debba avere del-

le idee incoerenti (geniali), come non comprenderanno perché

un altro cervello ha delle idee (troppo) normali e ben concate-

nate.

Si crederanno saggi, e saranno tanto pazzi quanto il loro malato.

( Il quale, sempre in un momento di lucidità, potrà dire ancora:

“Poveri mortali, che non potete né trovare la causa del mio male,

nè guarirlo, state bene attenti a non diventare interamente simili

a me, o a non sorpassarmi. Voi non siete più nobili del re di Fran-

cia Carlo VI, del re d’Inghilterra Enrico VI, ne dell’imperatore

Venceslao, i quali perdettero la facoltà di ragionare pressapoco

nello stesso torno di tempo. E non avete neppure un cervello più

fino di Biagio Pascal, di Giacomo Abadie, o di Gionata Swift, che

tutti e tre sono morti pazzi.

L’ultimo almeno ebbe la buona idea di fondare un ospedale per

noi: volete che vada a fissarvi un posto?”.)

(Voltaire, Dizionario filosofico)

 

 

 

 

 

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