MESSAGGI & MESSAGGERI (& corrieri…)

Prosegue in:

L’uomo con la lupara &

Cosa è il genio…

Foto del blog:

Il Tempo & la Memoria (1)   (2)   (3)   (4)

Da:

i miei libri

 

 

 

 

L’interpretazione dei segni, dei gesti, di messaggi e dei silenzi

costituisce una delle attività principali dell’uomo d’onore.

E di conseguenza del magistrato.

La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mu-

tismo, è proverbiale.

Nell’ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo.

L’uomo d’onore deve parlare soltanto di quello che lo riguarda

direttamente, solo quando gli viene rivolta una precisa doman-

da e solo se è in grado e ha diritto di rispondere.

Su tale principio si basano i rapporti interni alla mafia e i rap-

porti tra mafia e società civile.

Magistrati e forze dell’ordine devono adeguarsi.

Nei miei rapporti con i mafiosi mi sono sempre mosso con estre-

ma cautela, evitando false complicità e atteggiamenti autoritari

o arroganti, esprimendo il mio rispetto ed esigendo il loro.

E’ inutile andare a trovare un boss in carcere se non si hanno do-

mande precise da porgli su indagini che riguardano la mafia, se

non si è bene informati o se si pensa di poterlo trattare come un

qualsiasi criminale comune.

I messaggi di Cosa Nostra diretti al di fuori dell’organizzazione –

informazioni, intimidazioni, avvertimenti – mutano stile in funzio-

ne del risultato che si vuole ottenere.

Si va dalla bomba al sorrisetto ironico accompagnato dalla fra-

se:

‘Lei lavora troppo, fa male alla salute, dovrebbe riposare’,

oppure:

‘Lei fa un mestiere pericoloso; io al suo posto, la scorta me la por-

terei pure al gabinetto

due frasi che mi sono state rivolte direttamente.

Le cartoline e lettere decorate con disegni di bare o con l’even-

tuale data di morte accanto a quella di nascita, e i pacchetti con

proiettili sono riservati generalmente ai novellini, per sondare il

terreno.

Quando la mafia fa telefonate del tipo: ‘La bara è pronta’, accen-

tuando l’inflessione siciliana, ottiene senza alcun dubbio un certo

effetto.

In questo caso facili da interpretare, le minacce tendono a mettere

in moto un processo di autocensura.

Direi anzi che si minaccia qualcuno solo quando lo si ritiene sen-

sibile alle minacce.

La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi.

Se la minaccia non raggiunge il segno, passa a un secondo livel-

lo, riuscendo a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parla-

mentari, inducendoli a sollevare dubbi sull’attività di un magi-

strato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a ridurre il per-

sonaggio scomodo al silenzio.

Alla fine ricorre all’attentato.

Il passaggio all’azione è generalmente coronata da successo, da-

to che Cosa Nostra (ed – aggiungo io – i suoi molteplici interessi…)

sa fare il suo mestiere ( cioè è capace….).

Tra i vari attentati falliti, voglio ricordare quello organizzato con-

tro di me nel giugno 1989.

Gli uomini della mafia (ed i servizi….) hanno commesso un gros-

so errore, rinunciando all’abituale precisione e accuratezza pur

di rendere più spettacolare l’attacco contro lo Stato.

Al punto che qualcuno ha concluso che quell’attentato non era

di origine mafiosa (ecco forse il fine…).

Mi sembra che, più banalmente, capita anche ai mafiosi di soprav-

valutare le proprie capacità, sottovalutare l’avversario, voler stra-

fare…

(Giovanni Falcone, Cose di cosa nostra)

 

 

 

 

 

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L’HANNO PRESO IN CASTAGNA

Prosegue in:

L’hanno preso in castagna 2 &

Mentre crescevo: l’oliveto

Foto del blog:

Gente di passaggio  (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

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Giungono a maturazione in Ottobre le castagne, soprannominate

dai latini ‘ghiande di Zeus’ perché anche quest’albero evocava il

dio supremo, reggitore dell’ Universo, grazie al suo tronco corto

possente e ai rami che si allargano in tutti i sensi rendendone la

chioma possente.

Un albero cosmico, forse?

Il suo nome è la traduzione del latino ‘Castanea’, identico al gre-

co che a sua volta deriva da ‘Castanis’, una città del Ponto, in

Asia Minore, dalla quale la pianta passò in Grecia e poi in Italia.

Il Castagno (Castanea sativa), originario dell’Iran, è una specie

che può facilmente acclimatarsi in ogni regione del nostro conti-

nente, tranne nei terreni calcarei.

Può raggiungere i 30 metri di altezza e i 15 di circonferenza e

vivere 1000 anni. Celebre per le sue dimensioni fu in Sicilia il

‘castagno dei cento cavalli’ situato sulle pendici dell’Etna, nel

territorio di Sant’Alfio, così detto perché nel XVI secolo Gio-

vanna d’Aragona, sorpresa da un temporale mentre si stava

recando a Napoli dalla Spagna, trovò riparo con tutto il segui-

to, composto di cento cavalieri, sotto le sue fronde.

Sebbene il tronco principale sia bruciato nel 1923, quel casta-

gno appare ancora gigantesco:

i suoi attuali quattro polloni hanno una circonferenza comples-

siva di 50 metri. A quest’albero Giovanni Pascoli dedicò in My-

ricae una poesia, in lode del legno e dei frutti che hanno scalda-

to e sfamato generazioni di contadini e montanari:

‘Per te i tuguri sentono il tumulto or del paiolo che inquieto

oscilla;

per te la fiamma sotto quel singulto

crepita e brilla;

tu, pio castagno, solo ti, l’assai

doni al villano che non ha che il sole;

tu solo il chicco, il buon di più, tu dai

alla sua prole;

ha da te la sua bruna vaccherella

tiepido il letto e non desia la stoppia,

ha da te l’avo tremulo la bella

fiamma che scoppia.

Scoppia con gioia, stridula la scorza

de’ rami tuoi, co’ frutti tuoi la grata

pentola brontola.

Il vento fa forza

nell’impannata’.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)

 

 

 

 

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IL VILLAGGIO (4)

Precedenti capitoli:

Il villaggio  (1)  (2)  (3)

Prosegue in:

Il villaggio (5) &

Mentre crescevo…

Foto del blog:

Mentre crescevo (3)  &  (4)

Da:

i miei libri

 

 

 

 

Poiché voi siete i miei lettori, e io non sono mai

stato un gran viaggiatore, non vi parlerò di perso-

ne lontane mille miglia, ma di coloro che vi sono

vicini, come lo sono io. E poiché il tempo è poco,

tralascerò ogni cerimoniale e mi asterrò da ogni

sottigliezza. 

Pensiamo al modo in cui spendiamo le nostre vite. 

Questo mondo è il mondo del BUSINESS. 

Un affanno infinito!

Ogni notte il sussultare della locomotiva interrompe

i miei sogni.

Non c’è un giorno di riposo. 

Sarebbe meraviglioso vedere, anche solo per una vol-

ta, il genere umano intento a fare ciò che più gli piace.

Ma non c’è nient’altro che lavoro, lavoro, lavoro.

Non si può comprare tranquillamente un quaderno di

fogli per scriverci pensieri; ché ormai sono fatti solo per

tenerci i conti.

Un irlandese, vedendomi scrivere una minuta in mezzo

a un campo, era convinto che stessi calcolando il mio sa-

lario.

Se un uomo, da bambino, si fosse azzoppato a vita dopo

esser caduto da una finestra, o fosse stato terrorizzato da-

gli indiani fino a perdere la testa, sarebbe compianto solo 

per la sua capacità di dedicarsi agli affari!

Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggior-

mente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa

che questa incessante smania per il BUSINESS. 

Nei pressi della nostra città vive un grossolano e turbolento

adepto del ‘FAR DENARO’, che è in procinto di costruire un

muro di argine lungo il confine dei suoi prati. Le istituzioni

cittadine l’hanno convinto così a tenersi lontano dai guai, ed

egli – l’affarista – vuole che spenda tre settimane, io e lui, per

seguire gli scavi.

Il risultato sarà forse che egli guadagnerà un po’ di soldi da

accumulare e da lasciare ai suoi eredi, affinché possano 

spenderli in modo idiota. 

Se accettassi il lavoro, la gente mi considererebbe un uomo

industrioso e un gran lavoratore; ma se scegliessi di dedi-

carmi ad altri lavori, che offrono un reale e più concreto

profitto, anche se non in termini monetari, allora sarei vi-

sto come UN FANNULLONE.

Tuttavia, dato che per darmi una regola non ho bisogno del

controllo di un lavoro senza senso – e del resto non vedo nul-

la di encomiabile nell’impresa di quel conoscente, almeno

niente di meglio di quanto non veda nelle imprese del nostro 

o dell’altrui governo, per quanto divertenti si possano trovare

l’uno o l’altro – ebbene, io preferisco affinare la mia educazio-

ne a una SCUOLA DIVERSA.

Se un uomo passeggia nei boschi metà di ogni giornata – per

solo il piacere di farlo – corre il rischio di essere considerato

un fannullone; ma se spende l’intera giornata come UNO SPE-

CULATORE, tagliando quegli stessi alberi e spogliando la ter-

ra prima del tempo allora E’ CONSIDERATO UN CITTADINO

INDUSTRIOSO E INTRAPRENDENTE.

Come se una città non avesse altro interesse nelle proprie fore-

ste che quello di abbattarle (ed abbattere di conseguenza colui

che ne canta le virtù…).

(H.D. Thoreau, Uomini non sudditi)

 

 

 

 

 

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IL VILLAGGIO 3 (la loro disperata massoneria…)

Precedenti capitoli:

Il villaggio (1)  &  (2)

Prosegue in:

Il villaggio (4)

Dialoghi con Pietro Autier 2:

Mentre crescevo… (11)  &  (9)

Da:

i miei libri

 

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Talvolta, dopo essere arrivato a casa così tardi, in una

notte oscura e umida, quando il mio piede sentiva il

sentiero che i miei occhi non potevano vedere, sognan-

do e sovrappensiero, finché ero riportato alla realtà del

dovere alzare la mano per rimuovere il paletto della por-

ta, non ero capace di ricordarmi un solo passo della mia

passeggiata; e ho pensato, così, che forse il mio corpo a-

vrebbe trovato la strada di casa anche se il suo padrone

avesse dovuto abbandonarlo, come la mano trova la stra-

da alla bocca senza assistenza.

Molte volte, quando mi succedeva che un visitatore re-

stasse fino a tardi, e che la notte fosse buia, ero obbliga-

to ad accompagnarlo fino al sentiero carraio, dietro la ca-

sa, e poi a indicargli la direzione che doveva seguire, a

mantenere la quale egli era guidato più dai piedi che da-

gli occhi.

Una notte molto buia insegnai la strada in questa maniera

a due giovanotti che erano stati a pescare nel lago. Vive-

vano a circa un miglio di distanza, in linea retta attraverso

i boschi, ed erano abituati a fare quella strada.

Un giorno o due dopo, uno di loro mi disse che avevano va-

gato a lungo per la maggior parte della notte, vicino alle loro

abitazioni, ma che erano riusciti ad arrivare a casa solo ver-

so mattina; nel frattempo erano caduti diversi pesanti scro-

sci d’acqua e le foglie erano molto bagnate ed essi inzuppa-

ti fino alla pelle.

Ho sentito di molte persone che perdettero la tramontana,

anche nelle strade del villaggio, quando l’oscurità era così

densa che sarebbe bastato possibile tagliarla con un coltel-

lo, come si dice. Certuni che vivono nei dintorni, e che era-

no venuti a fare spese in città con i carri, furono talvolta ob-

bligati a fermarsi, durante la notte; e gentildonne e gentil-

uomini che erano andati per fare una visita, deviarono di

mezzo miglio dalla strada giusta, sentendo il marciapiede

solo con le scarpe e ignorando quando voltavano.

Perdersi nei boschi, in qualsiasi momento, è un’esperien-

za sorprendente e memorabile, e insieme preziosa. Spes-

so anche di giorno, durante una tempesta di neve, può ac-

cadere di arrivare a una strada ben nota, e però di non riu-

scire a sapere da che parte si trovi il villaggio. Sebbene si

sappia che per quella strada si è passati un migliaio di vol-

te, non si riesce a riconoscere in essa nulla di familiare, ed

essa appare altrettanto strana di una strada della Siberia.

Naturalmente la perplessità è di notte infinitamente più

grande. Nelle nostre passeggiate più banali stiamo sem-

pre virando, seppure incosciamente, come piloti diretti da

certi fari e da certi promontori, e se andiamo oltre la no-

stra rotta abituale ancora portiamo nella memoria il profilo

di qualche capo là vicino; è solo quando ci siamo comple-

tamente perduti o abbiamo fatto un giro vizioso, ché, in

questo momento, a un uomo basta solo far fare un giro vi-

zioso a occhi chiusi perché si perda, che apprezziamo la

vastità e la singolarità della Natura.

Ogni uomo deve imparare da capo le direzioni della bus-

sola, ogni volta che si risveglia sia dal sonno che da qual-

siasi astrazione.

Solo quando ci siamo perduti, in altre parole, solo quando

abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stes-

si, e a capire dove siamo, e l’infinita ampiezza delle nostre

relazioni.

Un giorno verso la fine della prima estate, che ero andato al

villaggio per ritirare una scarpa dal ciabattino, fui preso e

messo in prigione, perché, come ho detto altrove, non paga-

vo una certa tassa, né riconoscevo l’autorità dello Stato che

sulla porta del Senato, compra e vende, come bestie, uomi-

ni, donne e bambini.

M’ero dato ai boschi per altri scopi.

Ma un uomo, dovunque vada, sarà sempre inseguito dagli al-

tri uomini che lo acchiapperanno con le loro sporche istituzio-

ni e, se possono, lo costringeranno persino ad appartenere

alla loro disperata massoneria.

E’ vero, avrei potuto resistere direttamente con maggiore o

minore affetto, o giurare sanguinosa vendetta contro la soci-

età; ma preferii che la società dovesse giurare vendetta  con-

tro di me, poiché questa è la soluzione più disperata.

(Thoreau, Walden o vita nei boschi)

 

 

 

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IL VILLAGGIO

Prosegue in:

Il villaggio (2) &

Mentre crescevo…

Da:

i miei libri 

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La mattina dopo aver zappato o forse dopo aver letto

o scritto, di solito mi bagnavo nuovamente nel lago,

nuotando attraverso una delle sue insenature, tanto

per tenermi in esercizio, e così mi lavavo via la pol-

vere del lavoro o facevo scomparire l’ultima ruga che

lo studio mi aveva lasciato, e per il pomeriggio ero

completamente libero.

Ogni giorno o due facevo una passeggiata fino al vil-

laggio per sentire qualcuno dei pettegolezzi che là

continuavano, senza posa, a circolare di bocca in boc-

ca o di giornale in giornale, e che, presi in dosi omeo-

patiche, erano realmente rinfrescanti, a loro modo, co-

me il fruscio delle foglie e le fugaci apparizioni dei

ranocchi.

Come passeggiavo nei boschi per vedere gli uccelli e

gli scoiattoli, così passeggiavo nel villaggio per vede-

re uomini e ragazzi, e invece del vento tra i pini, udi-

vo il rumore dei cani.

In una certa direzione, da casa mia c’era una colonia

di topi muschiati, nei prati del fiume; nell’altra dire-

zione, sotto il boschetto di olmi e di sicomoro, c’era

un villaggio di uomini indaffarati, altrettanto interes-

sati, per me, che se fossero stati cani della prateria,

ognuno seduto all’entrata della sua tana, o in corsa

verso quella del vicino, per chiacchierare.

Andavo spesso a osservare le loro abitudini.

Il villaggio, mi appariva come una immensa sala d’in-

formazione, e per mantenerlo in vita, come un tempo

in State Street, da Reading & Co., tenevano da un lato

noci e uve e sale e carne e altri generi coloniali. Talu-

ni hanno un grande appetito per il primo genere di ci-

bo che ho nominato, cioè per le notizie, e posseggono

organi digestivi tanto sani, che possono sedere eterna-

mente immobili, sulle strade pubbliche, lasciando che

le informazioni ribollano e sussurrino attorno a loro

come venti Etesii, quasi stessero inalando etere, il qua-

le produce solo torpore e insensibilità al dolore, ché

altrimenti udire sarebbe spesso doloroso, senza infir-

mare la coscienza.

Quasi sempre, vagabondando per il villaggio, vedevo

una fila di tali valentuomini, seduti al sole, sopra una

scala, con il corpo inclinato in avanti e gli occhi che 

guardavano a destra e poi a sinistra, a tratti, con vo-

luttà, oppure se ne stavano appoggiati a un granaio, le

mani in tasca, simili a cariatidi, ché pareva davvero lo

stessero sostenendo. 

Poiché di solito erano fuori casa, sentivano tutto ciò che

stava nel vento. Questi sono i mulini più grossolani, nei

quali ogni pettegolezzo è dapprima rozzamente digerito

o macinato, avanti di essere vuotato in tramogge più fini

e delicate, dietro la porta di casa. 

Osservai che le parti vitali del villaggio erano il negozio

di generi alimentari, l’ufficio postale e la banca, e che, co-

me parte essenziale del macchinario, erano tenuti in luo-

ghi adatti una campana, un grosso cannone e una pompa

da incendio; e che le case erano disposte in maniera tale

da trarre il miglior partito dall’umanità, cioè lungo senti-

eri e l’una di fronte all’altra, cosicché ogni passante dove-

va passare sotto le forche caudine degli sguardi di tutto il

villaggio, e ogni uomo, ogni donna e ogni bambino poteva 

tagliarli i panni.

Naturalmente, quelli che erano piazzati in prima linea, do-

ve potevano vedere ed essere visti meglio di tutti, e da do-

ve potevano sferrare il primo colpo di forbice, pagavano i

prezzi più alti per il loro posto; mentre i pochi sparsi abi-

tanti dei sobborghi, dove cominciavano ad apparire lar-

ghi vuoti nelle file e il passante poteva scavalcare muric-

cioli o scantonare in un sentiero da vacche e così darsi al-

la fuga, pagavano un’imposta di terreno o di panorama,

assai bassa.

(Thoreau, Walden o vita nei boschi)

 

 

 

 

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QUANDO PERSI MIO FIGLIO

Prosegue in:

(quando persi) Mio figlio &

Mentre nascevo &

La Genesi

Foto del blog:

Quando persi

Mio figlio

Da:

i miei libri

 

Dedicato alla memoria di Giovanni Segantini

 

 

Il bottaio deve intendersi di tinozze.

Ma io conoscevo anche la vita,

e voi che vi aggirate fra queste tombe

credete di conoscere la vita.

Credete che i vostri occhi spazino su un largo

orizzonte,

forse,

in realtà state solo guardando le pareti della tinozza.

Non potete sollevarvi ai suoi orli

e vedere il mondo esterno delle cose,

e così vedere voi stessi.

Siete sommersi nella vostra tinozza –

tabù e regole e apparenze,

sono le doghe della vostra tinozza.

Spezzate e rompete l’incantesimo

di credere che la vostra tinozza è la vita,

e che voi conoscete la vita!

 

 

quando persi mio figlio

 

 

 

 

 

La signora Teresa Mortot, rimasta da poco vedova, si ricordò

improvvisamente di aver perduto nove anni prima un figlio

in montagna e sembrò diventare pazza.

La sua pazzia consisteva in questo: si mise in mente che il fi-

glio era ancora vivo e che quei nove anni non erano ancora

passati; però presentiva vagamente che qualcosa di terribile

sarebbe successo e lottava, in certo modo, nella speranza di

impedirlo.

Dal balcone della sua casa, alta sopra il paese, si vedeva be-

nissimo il Vallon delle Scale e a sinistra la parete biancastra

del Sass de Mezz, donde Andrea era precipitato nove anni

prima.

Il padre Mortot era morto da tre mesi, quando Ernestina, la

figlia, cominciò a sentire la mamma alzarsi in piena notte e

girare per la casa.

Passava da una stanza all’altra, specialmente rovistando in

un cassettone dove c’erano vecchie cose, abiti, scatole, scarpe.

Che cosa cercava?

Poi Ernestina notò che la mamma ogni tanto si fermava, con

la testa un po’ piegata da un lato, come per ascoltare. Ma fuo-

ri c’era silenzio.

 

quando persi mio figlio

 

Una notte, come udì i soliti passi, la figlia si mise una sciarpa

addosso e andò a vedere. La mamma era in piedi, completa-

mente vestita, di fianco al grande letto matrimoniale.

Immobile, era intenta a ascoltare. Quando vide la figlia, por-

tò un indice alle labbra, ‘Sssss, ssss!!’, invitandola a tacere.

Ernestina vide che il cassettone era aperto e la mamma ne 

aveva tirato fuori, disponendoli in ordine sul letto, un vesti-

to, camicie, biancheria da uomo, le robe del fratello morto.

Pensava forse di venderle o utilizzarle in qualche modo?

– Cos’hai, mamma? Che cosa ascolti?

– Sssss, ssss!!

rispose lei dolcemente,

– Poco fa le sentivo.

– Chi mamma? Che è?

– Si sentivano poco fa…..lo aspettano. Passano su e giù, in-

torno alla casa….credono che io dorma….

Ernestina supplicò:

– Mamma, mamma, che cosa succede?

– Non sanno,

spiegò la signora Teresa,

– Non sanno che lui è andato a Venezia per gli esami.

– Chi a Venezia?

– Ma Andrea! Come, non lo sai?

Ernestina cominciò a capire.

– Mamma, mammina,

le disse

– Non è meglio che tu vada a dormire?

– Ssss, ssss!!

fece Teresa

– Non le hai sentite adesso?

Ma c’era silenzio, l’immenso silenzio dei boschi e delle mon-

tagne che di notte scendeva fin giù nel paese.

La mamma ora si mosse. Con precauzioni infinite si avvicina-

va alla porta che dava sul grande balcone di legno verso le

montagne. La signora faceva scorrere adagio adagio il cate-

naccio delle imposte, poi le aprì d’impeto, balzò sul balcone

guardando intorno.

Ma fuori non c’era che la notte, il riflesso della porta accesa

sugli abeti di fronte e più in là solo buio, il nero delle monta-

gne addormentate, chiuse nei loro misteri e nella solitudine.

– Eh, sono svelte, sono!

mormorò la signora Teresa col suo fine sorriso

– Non si fanno mica prendere!

– Chi mamma?

chiedeva Ernestina…

– Chi era?

La signora Teresa fece segno verso un punto indefinito, in

alto, non si capiva bene se al cielo o alle montagne.

– Guardale, guardale,

disse

– Adesso si direbbe che dormano.

Cadendo in quei giorni l’anniversario della morte di Andrea,

la figlia si guardò bene dal parlarne a Teresa, sperando che

se ne fosse dimenticata; ma alla vigilia del giorno la signora

andò a trovare il fratello Giovanni, più vecchio di lei, guida

alpina, che da anni gestiva un alberghetto e non andava più

per montagne.

 

quando persi mio figlio

 

– Giovanni,

gli disse,

– Tu domani devi farmi un piacere.

– Oh, Teresa, beati che ci si vede,

la salutò lui tanto più cordialmente, perché aveva saputo del-

le sue recenti stranezze.

– Senti Giovanni,

disse lei

– Tu domani devi condurmi sul posto.

– Che posto?

– Là, lo sai bene, sul Sass de Mezz, proprio nel punto preciso.

– Ma è impossibile Teresa,

rispose lui imbarazzatissimo.

– E’ in parete …..(non lo vedi) Tu non ci puoi arrivare…

– Oh, io sto bene, io sono ancora in gamba, ce la faccio io a

camminare, non avere paura…. conducimi fammi vedere fin

sotto almeno, là dove si comincia a arrampicare, non ti darò

fastidio, te lo giuro.

Partirono prima dell’alba.

Non si scambiarono parola.

Dopo circa un’ora il sentiero usciva dal bosco, si inerpicava

a serpentina sugli ultimi costoni erbosi e sopra c’erano le ghia-

ie e poi ancora, ai lati del vallone, le pareti solenni: nella pe-

nombra fredda dell’alba stavano immobili, raggiungendo in-

concepibili altezze; e, tra l’una e l’altra, certe gole buie con gi-

ganteschi pietroni in bilico e scoli di pietre bianche denotan-

ti recenti rovine.

– Adesso bisogna andar su di qui,

avvertì Giovanni.

E lasciarono il sentiero.

Un pendio regolarissimo di sfasciumi portava con inclina-

zione scoraggiante fino alle rocce di un balzo solo. I macigni,

via via che si saliva, diventavano sempre più piccoli, finché

furono ghiaia che smottava i piedi prolungandosi in piccole

frane.

Teresa, stanca, guardò in su, vide le lastronate grige che si

protendevano di sbieco nel vuoto, pencolando sopra di lei

con una speciale espressione, e più in alto, ma come lontano!

un gruppetto di tre esili guglie che il sole illuminava lentamen-

te.

Giovanni chiese:

– Vuoi farmarti qui? Non ti basta?

Senza rispondere, lei riprese il cammino.

Come raggiunsero le rocce, il sole non c’era più.

Uno strato informe di nubi si era steso nel cielo, molto al di

sopra delle montagne, che ne divennero grigie e stranamente

quiete.

I due finalmente si fermarono su un estrema terrazza ghiaio-

sa.

– Qui?

chiese Teresa.

Giovanni confermò con un cenno.

Lei piegò la testa a guardare la rupe che si incurvava sopra

di loro con biechi baldacchini giallastri a strapiombo.

Prosegue in:  (qando persi) mio figlio

 

(Masters, Griffy il bottaio, Antologia di Spoon River;

Dino Buzzati, Uno strano caso in montagna)

 

 

 

 

quando persi mio figlio