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Sdraiato sulla mia poltrona, sognai un sogno strano: un paradiso
arabo, con hostess che parlavano una strana lingua, viaggi low-
cost ed armi affilate per i passeggeri della terza e prima classe;
voli per paradisi in remote capitali del Nord iperboreo, e cataloghi
di buoni propositi contro chi osa maligna parola contro il rabbino di
turno, e cataloghi per il rabbino per i nuovi califfi della terza guerra
santa.
Mercato di morte a cielo aperto, un sogno o un incubo?
Quando aprii gli occhi la notte era buia, la luna era scomparsa die-
tro l’orizzonte, tutto era umido e bagnato, il cielo una giungla lussu-
reggiante di stelle, come tanti bazar di maharaja con le loro tiare,
di begum coperte di vistosi gioielli e l’aria era pregna di quell’afflato
mortale; e alte e larghe si alzavano davanti ai miei occhi – allineate
dall’estremo nord all’estremo sud – otto o nove colonne di fumo,
infiammate come se uscissero dai fumaioli di chissà quale fucina
ciclopica accesa tutta la notte, spettacolo immensamente solenne,
grandioso e tremendo nella solenne notte: otto o nove, direi, o for-
se erano sette, o forse dieci, perché non le contai; e da quei crate-
ri sbuffavano getti di sostanza rossiccia, un getto qua e un altro là,
mandando fumi sgargianti che si attorcigliavano intorno a se stes-
si, splendenti di schiere di scintille e di vampate, e tutto era avvol-
to in un vistoso bagliore accecante; perché la fucina era in attivi-
tà, anche se ridotta; e vidi inoltre che, portata dalla corrente del
mare fosforeo, la Speranza si avviava precipitosamente verso
una costa rocciosa, a soli quattro nodi di distanza, una costa
mai segnata su nessuna carta geografica.
Quando provai ad alzarmi, caddi bocconi; e tutto quel che feci
in seguito, lo feci in uno stato di incoscienza: uno stato i cui atti,
all’intelletto sveglio, sembrano irreali come il sogno.
Penso di essermi reso conto immediatamente che quella era la
causa della distruzione degli organismi viventi, che in tutta la re-
gione intorno ancora imperversavano le sue emanazioni venefi-
che, e che a essa mi stavo avvicinando; non so come, credo di
essere riuscito a trascinarmi e scendere. Ho l’impressione che
fosse una terra purpurea, di porfido puro; c’è in me un debole
ricordo, come un sogno, di un continuo rimbombo di onde che
si infrangevano rumorosamente sulla roccia; ma non saprei
dire come le ho udite o sognate.
Di certo ricordo che cominciai a vomitare, con scosse dispera-
te delle mie viscere in travaglio; ricordo che ero supino, quando
spostai la leva di comando nella sala delle macchine; ma non
ricordo invece di essere sceso per la scala, né di essere risalito.
Per fortuna, siccome avevo lasciato la ruota del timone a tribor-
do, la nave, man mano che avanzava, voltava a destra; immagi-
no che poi sarò risalito in tempo per liberare il timone, perché
quando ripresi i sensi ero lì disteso, la testa contro una carda-
nica, un piede poggiato in alto sulla ruota, non si vedeva terra da
nessuna parte, e il sole splendeva.
Mi sentivo così male che per due o tre giorni rimasi senza toc-
care cibo, seduto nella poltrona accanto alla ruota; riprendevo
coscienza, di tanto in tanto, quel che bastava per accertarmi
che la nave non avesse cambiato rotta e continuava ad allon-
tanarsi da quei luoghi; e quando infine ridivenni me stesso,
non sapevo più se erano trascorsi due o tre giorni; di conse-
guenza, il mio calendario, finora tenuto così accuratamente,
potrebbe essere sbagliato di un giorno; perché fino ad oggi
non mi sono mai preso la fatica di verificare se questo che
ora scrivo lo sto scrivendo oggi o in un’altra….
La sera del quinto giorno dopo l’evento sopra descritto, pro-
prio quando calava il sole sull’orizzonte, mi capitò per caso
di guardare il suo disco sospeso sull’orlo del mare; vidi allo-
ra una macchia verde-nera che si stagliava chiaramente sul
rosso del sole, un oggetto ormai, in questi luoghi, molto inso-
lito: una nave; in uno stato disastroso, come accertai quando
fui più vicino, senza traccia di alberi, tutta piena d’acqua, con
ancora appesi al baglio qualche resto di cordame e di vela, il
bompresso spezzato a metà; la coperta era un’unica giungla
di alghe e di forme marine, dalla punta del bompresso rotto fi-
no a poppa; obesa come un riccio, aspettava soltanto il pros-
simo assalto del mare per affondare.
Poiché era l’ora di pranzo, fermai la Speranza a circa venti
metri da questo bastimento; e mentre passeggiavo sulla mia
ampia coperta di poppa, come solevo fare prima di pranzare,
vi rivolgevo di quando in quando uno sguardo, domandandomi
quale razza mai di figli dell’uomo l’avessero abitato, i loro no-
mi, il loro modo di pensare, e di vivere, e le loro facce, finché
non insorse in me il desiderio di andare a vedere di persona;
e così mi tolsi l’ampia tunica, scoperchiai e slegai la scialup-
pa di cedro – la sola scialuppa, oltre a quella mossa ad aria
che mi fosse rimasta – e la calai con le pulegge accanto alla
Speranza.
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