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ODISSEO:
Lo volle un dio: non accusare gli uomini.
Ora noi, figlio nobile del dio dei mari, ti preghiamo e ti diciamo
col cuore in mano: non osare uccidere gente amica venuta alla
tua grotta, non farne orrido pasto alla tua bocca.
Noi preservammo i templi, assicurandoli a tuo padre nel cuore
della Grecia, signore. E illeso resta il sacro porto del Tènaro, e i
segreti promontori di Màlea, è salva la rupe argentifera del Su-
nio, sacra alla fulgida Atena, la rada di Geresto; e tutta l’Ellade,
non ci macchiammo dell’onta di cederla ai Frigi.
Ora anche tu, di tutto questo, hai parte: sono terra greca gli antri
segreti dove vivi, sotto l’Etna che stilla fuoco. Se questi ti ripugna-
no, ebbene c’è una legge per gli uomini: d’accogliere dei supplici
naufragati, d’offrire doni e aiuto di vesti, e non di passare allo
spiedo che infila i buoi le loro carni, in modo che tu sazi la bocca
e la pancia.
Già la terra di Priamo troppi lutti ha fatto in Grecia, bevendosi il
sangue di tanti morti, versato in battaglia; ha rovinato mogli orbe
dell’uomo e vecchie orbe di figli, e incanutiti padri.
Se tu, di quelli che rimangono, arrostendo le carni ora consumi
un fiero pasto, quale scampo c’è?
Dammi retta, Ciclope: lascia stare l’ingordigia procace, e la pietà
scegli sull’empietà: per molti, un lucro disonesto si cangia in un
castigo.
CICLOPE:
Caro omarino mio, per chi capisce, è la ricchezza il vero dio, le
altre cose rumore vano e belle frasi. Dei promontori marini ove
il padre s’è situato, io me n’infischio: a quale scopo li hai messi
innanzi?
A me, straniero, il fulmine di Zeus non fa venire i brividi, non
so proprio in che cosa Zeus è un nume potente più di me.
Di tutto il resto me ne frego, e sta’ a sentire perché me ne frego.
Quando dall’alto manda giù la pioggia, me ne sto in questa
grotta, riparato e all’asciutto, mi mangio un vitellino cotto e
una bestia selvaggia, giacendo a pancia all’aria, e me l’innaffio
a regola d’arte, perché ci bevo sopra un’anfora di latte e, spez-
zettando nel vestito, faccio rumore, a gara con i tuoni di Zeus.
Se poi la tramontana trace fa cadere la neve, m’imbacucco tutto
in pelli di fiere, accendo il fuoco e della neve me ne frego. Il
suolo, volere o no, producendo per forza l’erba, m’ingrassa
le pecore. E io non le immolo a nessuno: solo a me (agli dèi
no), solo a questa, la prima delle divinità, la pancia mia.
Perché, mangiare e bere alla giornata, questo è lo Zeus degli
uomini di senno, e insieme non affliggersi per nulla.
Quanti fecero leggi, complicando l’esistenza, io li mando a
quel paese. La vita mia non rinuncio a trattarla bene – e
neppure a divorare te.
Doni ospitali sì li avrai – ché voglio essere irreprensibile:
saranno il fuoco e questo elemento paterno a quel paiolo che,
nel suo bollore, vestirà bene la tua carne dura.
Avanti, andate dentro: vi dovete mettere intorno all’ara per
il rito al dio dell’antro e satollare me.
(prosegue in Pagine di Storia)