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Eichmann ebbe molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato,
e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di
pensare.
Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque
cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino LIGIO ALLA
LEGGE.
Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere,
di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge.
Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distin-
zione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di svisce-
rare tale punto.
I logori temi degli ‘ordini superiori’ oppure delle ‘azioni di stato’
furono discussi in lungo e in largo: essi già avevano dominato
tutti i dibattiti al processo di Norimberga, per la semplice ragione
che davano l’illusione che fatti senza precedenti potessero essere
giudicati in base a precedenti e a criteri già noti.
Eichmann, con le sue doti mentali piuttosto modeste, era certa-
mente l’ultimo, nell’aula del tribunale, da cui ci si potesse atten-
dere che contestasse queste idee e impostasse in altro modo la
propria difesa.
Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio ERA IL DOVERE
DI UN CITTADINO LIGIO ALLA LEGGE, egli aveva anche agito
in base a ordini – preoccupandosi sempre di essere ‘coperto’,
e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alterna-
tivamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia
dell’ ‘OBBEDIENZA CADEVERICA’, come la chiamava lui.
La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente
conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato
che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante
l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di
aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica Kantiana e in
particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.
L’affermazione era veramente ENORME! e anche incomprensibile,
poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di GIUDIZIO
DELL’UOMO, facoltà che esclude la cieca obbedienza.
Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice
Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann
avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi
misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’imputato.
E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione
più o meno esatta dell’imperativo categorico:
“Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della
mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio
di leggi generali” (il che non vale, per esempio, nel caso del furto
o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare
di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di
derubarli o di assassinarli).
Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto
la ‘Critica della ragion pratica’ di Kant, e quindi procedette a
spiegare che quando era stato incaricato di effettuare la SOLU-
ZIONE FINALE aveva smesso di vivere secondo i principi
kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato
pensando che era più ‘PADRONE DELLE PROPRIE AZIONI’,
che non poteva far nulla per ‘CAMBIARE LE COSE’.
Alla Corte non disse però che in questo periodo ‘DI CRIMINI
LEGALIZZATI DALLO STATO’ – così ora lo chiamava – NON
SOLO AVEVA ABBANDONATO LA FORMULA KANTIANA
IN QUANTO NON PIU’ APPLICABILE, MA L’AVEVA DISTORTA
FACENDOLA DIVENIRE:
‘AGISCI COME SE IL PRINCIPIO DELLE TUE AZIONI FOSSE
QUELLO STESSO DEL LEGISLATORE O DELLA LEGGE DEL
TUO PAESE’, ovvero, come suonava la definizione che dell’
‘imperativo categorico nel Terzo Reich’ aveva dato Hans Frank
e che lui probabilmente conosceva: ‘agisci in una maniera che
il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe’.
Certo Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile….
(H. Arendt, La banalità del male)