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..Al contrario, per lui
ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in
cui cominciava ad agire: usando la ‘ragion pratica’ ciascuno
trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi
della legge.
Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann
era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la
teoria di Kant ‘ad uso privato della povera gente’.
In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello
spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che
obbedire alla legge deve andare al di là della semplice…
obbedienza e identificare la propria volontà col principio
che sta dietro la legge – la fonte da cui la legge è scaturita.
Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica;
per Eichmann era la volontà del Fuhrer.
Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la
soluzione finale (caratteristica del PERFETTO BURACRATE)
si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente
molto diffusa in Germania (e non solo…), che essere ligi alla
legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire
come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si
obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare anche di
più di ciò che impone il dovere.
Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della
mentalità della ‘povera gente’ in Germania, non c’è il minimo
dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti
kantiani: ‘una legge è una legge e non ci possono essere ecce-
zioni’.
A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due
casi, nel periodo in cui ‘ottanta milioni di tedeschi’ avevano cias-
cuno ‘il suo bravo ebreo’: aveva aiutato una cugina mezza ebrea
e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di
suo ‘zio’. Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per
lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi,
di aver ‘confessato le sue colpe’ ai suoi superiori.
Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante
cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa
durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacita-
re quel poco di coscienza che ancora poteva avere.
Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito
contro le proprie ‘inclinazioni’, fossero esse ispirate dal sentimento
o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva sempre fatto il
suo ‘DOVERE’.
IL PROBLEMA DELLA COSCIENZA di Eichmann, che è notoria-
mente complesso ma nient’affatto unico, non può essere paragona-
to a quello della coscienza dei generali tedeschi, uno dei quali,
quando a Norimberga gli chiesero: ‘Come è possibile che tutti voi
rispettabili generali abbiate seguito a servire un assassino con tanta
fedeltà?’, rispose che non toccava a un soldato ergersi a giudice
del suo comandante supremo:
‘Questo tocca alla storia, o a Dio in cielo’.
Eichmann, molto meno intelligente e per nulla istruito, capì
almeno vagamente che a trasformarli tutti in criminali non era
stato un ordine, ma una legge.
La differenza tra ordine e ‘ordine del Fuhrer’ era che la validità del
secondo non era limitata nel tempo o nello spazio, mentre questo
limite è caratteristica precipua del primo. E questa è anche la vera
ragione per cui quando il Fuhrer ordinò la soluzione finale esperti
giuristi e consiglieri giudici, non semplici amministratori, stila-
rono una fiumana di regolamenti e direttive: quell’ordine, a dif-
ferenza degli ordini comuni, fu considerato una legge.
Inutile aggiungere che tutti questi strumenti giuridici, lungi
dall’essere semplici frutto della pignoleria o precisione tedesca,
servirono ottimamente a dare a tutta la faccenda una parvenza di
legalità.
(H. Arendt, La banalità del male)