PITTURA DI ALTRI MONDI: ALBERT BIERSTADT (5)

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget

Foto del blog:

esploratori

perduti &

un

incontro

Da:

i miei libri






Albert Bierstadt nacque                                                    Mount Rainier Albert Bierstadt.jpg

il 7 gennaio 1830 a

Solingen in Prussia.

Ultimogenito di sei

figli, immigrò con la

famiglia negli Stati Uniti

all’età di due anni,

stabilendosi a New Bedford,

capitale del New England,

nel Massachusetts.

Poco è noto della sua

primissima formazione                                              bierstadt2.jpg

come pittore;

probabilmente iniziò

da autodidatta,

lavorando in seguito

all’organizzazione degli

spettacoli con ‘lanterne

magiche’ – una sorta di

proiezioni su ampi

schermi di immagini

dipinte su vetro –

che, all’epoca

incontrarono un 

ampio successo di

pubblico, prefigurando                                                         bierstadt3.jpg

l’avvento del cinema.

Nel 1853, come molti

altri artisti americani,

Bierstadt andò a studiare

all’Accademia di Dusseldorf,

conosciuta come una delle

migliori scuole europee

per la pittura del paesaggio.

Nella città tedesca frequentò

la colonia di artisti americani

stringendo amicizia con Thomas

Worthington Whittredge,

Carl Wimar ed Emanuel Leutze.

Prima di ritornare a New Bedford,

nel 1857, completò la formazione

artistica con un lungo viaggio

attraverso la Germania, la

Svizzera e l’Italia.                                                     bierstadt4.jpg

L’osservazione del

paesaggio alpino e delle

coste italiane, insieme

ai numerosi schizzi

realizzati durante il

percorso, diventeranno

per il pittore, un

patrimonio

insostituibile e dal quale

attingere con frequenza

nella sua successiva

carriera di paesaggista.

Nel 1859, insieme al suo

amico, il pittore Francis

Shedd Frost, Bierstadt si                                         bierstadt5.jpg

recò per la prima volta,

nel West.

A Saint Joseph, nel

Missouri, si unì a una

spedizione militare

di rilevamento guidata

dal colonnello Frederick

Lander, attraverso le

distese deserte

dell’Ovest americano

fino ai sentieri

delle Montagne

Rocciose.                                                  

Quando, alla fine dell’anno, ritornò a New Bedford,

riportando con sé fotografie, numerosi schizzi e og-

getti indiani, la sua carriera era ormai ben definita.

Si stabilì infatti, infatti a New York e iniziò a espor-

re i grandi paesaggi delle Montagne Rocciose riscuo-

tendo un enorme successo.

(The American West, l’arte della frontiera americana 1830-1920)





Bier8.jpg

 

PITTURA DI ALTRI MONDI: ROBERT HENRI (4)

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget


 





Nato nell’Ohio,                                           henriportrait.jpg

Robert Henri Cozad-

questo il suo vero

nome – visse l’infanzia

e l’adolescenza nel

Nebraska e nel

Colorado, prima di

trasferirsi con la famiglia

nel New Jersey.

Per due anni, a partire dal 1886,

seguì gli studi artistici presso la

Pennsylvania Academy of Fine

Arts ma, già nel 1888, decise di

trasferirsi a Parigi per conoscere

direttamente le fonti dell’arte

impressionista da lui                                                              henri.jpg

profondamente

amata.

Frequentò infatti,

nella capitale francese

sia la famosa Académie

Julien che, per breve

tempo, l’Ecole des

Beaux Arts.

Tornato a Philadelphia

nel 1891, insegnò per i

successivi tre anni alla

Philadelphia School of

Design for Women per

poi soggiornare

nuovamente a Parigi

dove, in sintonia con

i nuovi movimenti

artistici                                                                              RobertHenri-BlindSpanishSinger.jpg

europei, rivide

le proprie convinzioni

sulla poetica impressionista,

scurì la tavolozza – fino

ad allora luminosa e

chiara – e rese più

corposa la pennellata.

Nel 1896 e nel 1899

espose le sue opere ai

Salons parigini.

Al suo ritorno in America

si trasferì a New York

dove divenne membro

della National Academy

of Design e insegnò alla

New York School of Art

fino al 1909, quando decise

di aprire autonomamente

una propria scuola che ebbe come allievi, tra gli altri,

Edward Hopper, Patrick Henry Bruce e Stuart Davis.

Fu tra gli animatori del GRUPPO DEGLI OTTO – noto

anche col nome ‘Ash Can Group’ – movimento che pro-

pugnava un moderato espressionismo formale unita-

mente al realismo dei soggetti pittorici.

Henri organizzò, inoltre, nel 1910, l’Esposizione degli

Indipendenti a New York.

Nel 1931 il Metropolitan Museum di New York gli de-

dicò un’importante mostra commemorativa.

(The American West, l’arte della frontiera americana 1830-1920)




 

RobertHenri-IndianGirl.jpg

                                                              

PITTURA DI ALTRI MONDI: HENRY FRANCIS FARNY (3)

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget






Henry Francis Farny nacque a                       farny2.jpg

Ribeauville, in Alsazia

nel 1847.

Nel 1853 immigrò

insieme alla sua

famiglia a Warren

in Pennsylvania,

per trasferirsi in

seguito a Cincinnati.

Nel 1867 iniziò

la collaborazione

come illustratore

per la rivista ‘Harper’s’

che proseguì fino

al 1890,                          farny1.jpg

quando Farny

decise di dedicarsi

completamente

alla pittura.

Nel 1867 andò in Europa.

Durante il suo soggiorno

a Dusseldorf, dove seguiva

alcuni corsi di pittura,

incontrò Albert Bierstad,

già noto al pubblico sia

europeo che americano, che

lo incoraggiò e gli propose di

intraprendere insieme un viaggio

verso le Montagne Rocciose.

Nel 1873 partecipò all’Esposizione

Internazionale di

Vienna,                                                    farny3.jpg                                       

nello stesso anno e nel

1875 soggiornò

nuovamente a Monaco

e nel 1881 si recò per

la prima volta nel West

dove ritrasse le tribù

dei Sioux.

Qualche anno più tardi

accompagnò il

finanziere Henry Villard

in una spedizione celebrativa per il completamento del-

la Northern Pacific Railway da Saint Paul a Puget Sound,

nello stesso Washington.

Tra il 1880 e il 1890 la fama di Farny come pittore e illu-

stratore dell’epopea del West si era ormai consolidata. 

La sua pittura, in linea con i dettami della scuola mona-

cese, mantenne sempre un impianto realistico, percepi-

bile nella precisione dei dettagli, frutto, peraltro, della

grande quantità di schizzi e di fotografie realizzate dal-

lo stesso artista durante i suoi numerosi viaggi.

D’altra parte, l’indubbia perizia nel rendere le grada-

zioni luminose della luce nelle grandi pianure, le ampie

e chiare campiture cromatiche e il particolare taglio del-

le immagini sembrano derivare perlomeno in parte, dal-

la conoscenza delle stampe giapponesi – di grande attua-

lità nell’Europa contemporanea – nelle quali anche la pic-

cola dimensione assume un ampio respiro compositivo. 

Evidentemente, però, l’entusiasmo che trasse dai viaggi

nel West e che gli fece affermare: “Le pianure, l’intero pa-

ese e la sua gente sono più ricchi di materiale per un arti-

sta che ogni paese europeo”, lo portò con altrettanto idea-

lismo a stravolgere la reale situazione in cui, all’epoca, si

 trovavano le varie tribù indiane.

I paesaggi del West dipinti da Farny intorno al 1890 era-

no ormai opere di fantasia o ricostruzioni in studio; ciò

che era stato fonte dell’originaria ispirazione era comple-

tamente e definitivamente scomparso, così in New Terry-

tory del 1893, i precisi dettagli oscurano la fondamentale

realtà: all’epoca nessun territorio era passibile di occupa-

zione perché la gran parte degli indiani americani erano

ormai confinati nelle riserve.

(The American West, l’arte della frontiera americana 1830-1920)





Farny_32.jpg

 

PITTURA DI ALTRI MONDI: FREDERIC SACKRIDER REMINGTON (2)

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget







Nel 1889 Remington vinse                             rigattiere.jpg

la medaglia d’argento all

Esposizione Universale

di Parigi.

In quella stessa

occasione,

la commissione

selezionatrice per

l’arte americana,

rifiutò di esporre la

tela di Albert

Bierstadt,

‘Last of the Buffalo’,

giudicandola

antiquata.                                               l antiquario.jpg

Il gusto narrativo, il realismo

descrittivo, le chiare armonie

cromatiche, le composizioni

ampie e leggibili che caratterizzano

i lavori di Remington fino all’ultimo

decennio del secolo hanno come

diretti antecedenti le opere di

pittori accademici francesi, in

particolare Louis Ernest

Messonier, Jean Léon

Gerome, Jean Baptiste Edouard Detaille,

che Remington, pur non conoscendo

personalmente, poté studiare in alcuni musei o attraverso

stampe e letture.

Se inizialmente l’entusiasmo per il nuovo mondo, fatto di

eroismo e avventura, natura selvaggia e inesplorata, pote-

va ancora, con ragione, essere contrapposto alla vita ormai

regolata dal progresso tecnologico e dalla cultura europea

della East Coast, già verso l’ultimo decennio del secolo la

realtà di quel mondo in trasformazione era ormai circo-

scritta e limitata: gli indiani non rappresentavano più un

pericolo essendo perlopiù confinati nelle riserve, l’urbaniz-

zazione si diffondeva anche nei territori del West e la mi-

tica frontiera era ormai consolidata sui confini del Nord

America.

E con l’esperienza della campagna cubana della guerra

ispano-americana del 1898, seguita da Remington come

corrispondente, che l’artista visse la disillusione di un

mondo che stava scomparendo.

Da allora viaggiò raramente e per meno tempo nel West,

distrusse diverse pitture dei primi anni e si dedicò preva-

lentemente agli studi di paesaggio, a inventare una natu-

ra assoluta e inviolata. Scrisse nel 1907: “Il mio West è

ormai passato da così tanto tempo che è diventato solo

un sogno. 

Si è messo il cappello e il cappotto ed è uscito dal palco-

scenico; il sipario è calato e si prepara un nuovo atto”.

(The American West, l’arte della frontiera americana 1830-1920)



 

remington2.jpg

 

PITTURA DI ALTRI MONDI: FREDERIC SACKRIDER REMINGTON

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget







Remington è, senza dubbio,                                  remington.jpg

il più importante e conosciuto

pittore dell’epopea del West

americano.

Come Carlin fu, per

antonomasia il pittore

degli indiani e Bierstadt

l’inventore del paesaggio

del West, il nome di

Remington fu sempre

prevalentemente legato

alla rappresentazione della

vita dei cowboy. Verso la

fine del secolo fu,

addirittura, il

ventiseiesimo presidente

degli Stati Uniti,

Theodore Roosevelt, a

riconoscere pubblicamente

l’opera svolta dall’artista.

Eppure la gran parte delle immagini prodotte da Remington –

cica 2700 solo negli ultimi vent’anni di attività – se sono state

per i contemporanei e per le generazioni successive un’indi-

spensabile e ricchissimo materiale iconografico, al quale at-

tingere ogni qual volta si fosse presentata la necessità di

raffigurare la wilderness del West americano, esse si rifa-

cevano, in realtà, a un mondo ormai scomparso che affio-

rava attraverso i ricordi minati dalla nostalgia, dello stes-

so geniale autore. 

Nato a Canton, Remington all’età di undici anni si trasferì

con la famiglia a Ogdensburg.

Iniziò gli studi alla Highland Military Academy di Worce-

ster e frequentò, in seguito, sia la School of Art dell’Univer-

sity of Yale (1878) che, per breve tempo, la Art Students

League (1886).

Il suo primo viaggio nel West – cui ne seguirono numerosi

altri – fu nel Montana, nel 1881. Tra il 1883 e il 1884, lavorò

come guardiano di pecore in un ranch del Kansas dove ebbe

modo di conoscere direttamente la vita dei cowboy e la cul-

tura delle popolazioni indiane che vivevano nella zona.

Nel 1885 tornò sull’East Coast e, dopo essersi sposato, si tra-

sferì a New York dove visse per molti anni. Da allora iniziò

a collaborare, con sempre maggiore frequenza e intensità

all’illustrazione delle più popolari riviste dell’epoca, come

‘Harper’s’ e ‘Outing’, tanto che la sua completa dedizione al

mestiere di pittore avvenne in maniera graduale proprio per

l’incessante lavoro e il relativo successo riscontrato in quell’-

attività.

Dal 1890, inoltre, la celebrità di Remington si estese ancor di

più, grazie al suo impegno nella scrittura di racconti sulla vi-

ta del West.

I frequenti viaggi nel West, dai quali ritornava carico di ap-

punti, schizzi e disegni, gli fornirono le migliori condizioni

per poter illustrare diversi libri dedicati alla vita dell’Ovest

americano come ‘Ranch Life e The Huntington Trail di The-

odore Roosevelt (1888), e The Song of Hiawatha di Henry 

Wedsworth (1890) e The Oregon Trail di Francis Parkman.

(The American West, l’arte della frontiera americana, 1830 – 1920)




ramington2.jpg

 

UN CONDANNATO A MORTE (4)

 

un condannato a morte (2)

                                 


 Precedente capitolo:

(un condannato a morte  3)

Prosegue in:

Dialoghi con Pietro Autier 2:

(il condannato a morte &

la giuria delle banche)

gli occhi di Atget:

(pausa dalla camera oscura, la nausea &

alla fine del 17 fui fatto prigioniero)

Pagine di storia:

(una pulizia etnica…

…..ragionata….&

lo sterco del diavolo

….e l’oro del poeta…)

Da:

Frammenti in rima


 

un condannato a morte (2)








Non so perché ho chiesto al prete il nome di quella…….

torretta.

– Saint-Jacques-la-Boucherie, ha risposto il boia.

Ignoro come ciò avvenisse; ma nella nebbia…….

malgrado la pioggia fine e bianca che rigava l’aria come

il reticolo d’una ragnatela, niente di quanto m’accadeva

intorno mi sfugge.

Ogni dettaglio m’inviava la sua tortura.

Mancano le parole per siffatte emozioni.

A metà circa del Pont-au-Change, così largo e ingombro

che avanzavamo a stento, mi ha invaso violentissimo l’-

orrore (forse un ultima calunnia).

Ho temuto – ultima vanità! – di venir meno.

Allora mi sono stordito da solo, per farmi cieco e sordo a

tutto, tranne al prete di cui udivo appena le parole, infra-

mezzate dal rumore.

Ho afferrato il crocefisso, l’ho baciato.

– Abbiate pietà di me, mio Dio! ho detto.

E ho cercato di annullarmi in quel pensiero.

Ma ogni sobbalzo della dura carretta mi scuoteva.

Poi d’imrovviso mi son sentito addosso un gran freddo.

La pioggia mi aveva attraversato gli abiti e mi bagnava

la pelle della testa attraverso i capelli tagliati corti.

– Tremate per il freddo, figliolo? (no! solo per la nuova

calunnia o condanna udita…mentre passo per questa…

via).

Mi ha chiesto il prete.

– Sì, ho risposto.

Ohimè, non soltanto per il freddo.

Alla svolta del ponte, delle donne si sono impietosite per

la mia giovinezza.

Abbiamo imboccato il fatale quai.

Cominciavo a non vedere più nulla, a non sentir più nulla. 

Quelle voci, quelle facce alle finestre, sulle porte, alle infe-

riate dei negozi, sui bracci dei lampioni; quegli spettatori

avidi e crudeli; quella folla ove tutti mi conoscono e in cui

io NON CONOSCO NESSUNO; questa strada lastricata,

murata di volti umani….

Ero sconvolto, inebetito, fuori i me.

E’ insopportabile il peso di tanti sguardi fissi su di voi.

Vacillavo sul sedile, senza neppur prestare attenzione al

prete e al crocefisso.

Nel tumulto che m’avvolgeva, non distinguevo più le

grida di pietà dalle grida di gioia, le risa dai lamenti, le vo-

ci dal rumore; tutto era rumore, un rumore che mi risuona-

va nella testa come un’eco di ottoni.

I miei occhi leggevano meccanicamente le insegne dei

negozi.

D’un tratto mi ha preso la strana curiosità di girare la testa

per vedere dove stavo andando.

Era un’ultima bravata dell’intelligenza.

Ma il corpo non ha voluto saperne; la mia nuca s’è paraliz-

zata, quasi morta anzitempo.

Scorsi a sinistra, oltre il fiume, una delle due torri di Notre-

Dame che, vista da quel punto nasconde l’altra. 

Era la torre con la bandiera. Zeppa di gente, che doveva

veder bene.

E la carretta andava, andava, e i negozi passavano, e le

insegne si succedevano, scritte dipinte, dorate, mentre la

gentaglia rideva e scalpitava nel fango, e io mi lasciavo

portare come un addormentato che s’affida ai sogni. 

Ma allo svoltare d’una piazza, la serie di negozi che mi

sfilava davanti s’è interrotta; il grido della folla s’è fatto

più vasto, più stridulo, e ancor più gioioso; di colpo la

carretta s’è fermata, e io per poco non sono caduto con

la faccia in giù sulle assi del piancito.

Il prete mi ha sorretto.

– Coraggio! ha mormorato.

Allora hanno portato una scala sul retro della carretta;

il prete mi ha dato il braccio,  son sceso, ho fatto un pas-

so, poi mi sono girato per farne un’altro, e non ci sono

riuscito.

Tra i due lampioni del quai ho visto una cosa sinistra.

Sì, era vera!

Mi sono fermato, come se già vacillassi sotto il colpo.

– Ho un’ultima dichiarazione da fare! ho gridato debol-

mente.

Mi hanno fatto salire qui.

Ho chiesto che mi lasciassero scrivere le ultime volon-

tà….(poi la terra ha tremato……).

(Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte) 



 

 

un condannato a morte (2)

 

UN CONDANNATO A MORTE (3)

Precedente capitolo:

(un condannato a morte 2)

Prosegue in:

(un condannato a morte  4)

Dialoghi con Pietro Autier 2: il condannato a morte &

Gli occhi di Atget: pausa dalla camera oscura, la nausea &

pagine di storia








Era una qualsiasi carretta con un cavallo macilento e un

vetturino in camiciotto blu a disegni rossi, come quelli che

portano gli ORTOLANI intorno a Bicetre.

L’omone col tricorno è salito per primo.

– Buondì Samson! gridavano i ragazzini appesi alle cancel-

late.

Un aiutante gli è andato dietro.

– Bravo Martedì! hanno gridato di nuovo i ragazzini.

Si sono seduti entrambi sul sedile davanti.

Toccava a me.

Sono salito con passo abbastanza fermo.

– E’ in gamba! ha detto una donna che stava accanto alle

guardie (per questo forse è condannato).

L’atroce elogio mi ha rincuorato.

Il prete è venuto a mettersi vicino a me.

M’avevano fatto sedere sul sedile di dietro, con la schiena

rivolta al cavallo.

Estremo riguardo che mi ha fatto rabbrividire.

Mettono dell’umanità in quel che fanno.

Ho voluto guardarmi intorno. Guardie davanti, guardie

dietro; poi la folla, ancora folla.

Un mare di teste sulla piazza.

Un picchetto di guardie a cavallo m’aspettava sulla soglia

del cancello del palazzo.

L’ufficiale ha dato l’ordine.

La carretta col suo corteo s’è messa in movimento, ed è

stato come se l’avesse spinta innanzi l’urlo della folla.

Abbiamo varcato il cancello.

Non appena la carretta ha svoltato, verso il Pont-au-

Change, dal selciato ai tetti è esploso il fragore della

piazza, e i ponti e le banchine hanno risposto come un

terremoto.

E’ stato lì che il picchetto in attesa s’è unito alla scorta.

– Giù i cappelli! giù i cappelli! gridavano mille bocche

insieme.

Come davanti al re.

Allora a mia volta ho riso orrendamente, e ho detto al

prete:

– Loro i cappelli, e io la testa.

Andavamo al passo.

Il quai aux Fleurs profumava di fiori; oggi è giornata di

mercato.

Le venditrici hanno abbandonato per me i loro mazzetti.

Di fronte, poco prima della torre quadrata che sta all’an-

golo del palazzo, ci sono osterie con le verande piene di

spettatori, felici dei loro posti.

Soprattutto le donne.

Sarà una buona giornata per gli osti.

Noleggiavano tavoli, sedie, impalcature, carrette.

Tutto rigurgitava di spettatori.

Dei venditori di sangue umano gridavano a squarcia-

gola:

– Chi vuole dei posti?

La rabbia contro la folla m’è salita dentro.

Avrei voluto gridare:

– Chi vuole il mio?

Ma la carretta avanzava.

A ogni passo, dietro di me la folla si smembrava e

con gli occhi smarriti io la vedevo riformarsi più avanti,

nei punti in cui sarei passato.

Nell’imboccare il Pont-au-Change, per caso ho guardato

indietro alla mia destra.

I miei occhi si sono fermati sull’altro quai, sopra le case,

su una torre nera, solitaria e irta di sculture, sulla cui cima

ho visto due mostri di pietra seduti di profilo.

(Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte)





un condannato a morte

UN CONDANNATO A MORTE (2)

Precedente capitolo:

(un condannato a morte 1)

Prosegue in:

(un condannato a morte  3)

Dialoghi con Pietro Autier 2: il condannato a morte  &

Gli occhi di Atget: pausa dalla camera oscura, la nausea &

pagine di storia





Letta e notificata al reo la sentenza,

e l’ultima vendetta che su di lui                                       jhuyhnb.jpg 

esercita la società intera, in una

lotta tra l’altro diseguale, il

disgraziato viene condotto nella

cappella, dove la religione si

impossessa di lui come una preda

ormai certa; la giustizia divina sta

lì ad aspettare di riceverlo dalle mani

di quella terrena.

Lì trascorrono per lui delle ore mortali; deve essere una

grande consolazione credere in Dio, quando è necessario

fare a meno degli uomini quando sono gli uomini a fare

a meno di te.

In una tale momento, nondimeno, la vanità si fa strada

nel cuore ed è difficile che il colpevole, superata la prima

impressione, quando il sangue tenta di sfuggire per rifu-

giarsi nel centro della vita, non provi a simulare una se-

renità che raramente è possibile.

Questa società tirannica esige qualcosa dall’uomo anche

quando gli si nega completamente.

Per quanto sia un’incomprensibile ingiustizia, riderà della

debolezza della vittima.

Sembra che la società, esigendo coraggio e serenità al con-

dannato a morte, con le sue persistenti preoccupazioni, vo-

glia far giustizia di se stessa, stupendosi che non si disprez-

zi quanto poco essa vale e i suoi poveri difetti.

In momenti così critici, tuttavia, è difficile che qualcuno

smentisca la sua vita intera e la propria educazione; cia-

scuno obbedisce alle proprie preoccupazioni perfino nel

momento in cui sta per spogliarsene per sempre.

L’uomo abietto, privo di educazione, senza principi, sem-

pre sottomesso ciecamente al suo istinto, alla sua necessi-

tà, che ha rubato e ucciso meccanicamente, muore mec-

canicamente.

Nei suoi primi anni aveva sentito un’eco sorda della reli-

gione, che ora, senza che lo comprenda, risuana al suo o-

recchio nella cappella, e passa automaticamente sulle sue

labbra.

Privo di quello che nel mondo si chiama onore, non fa al-

cuno sforzo per dissimulare il suo terrore, e muore morto.

L’uomo veramente religioso rivolge sinceramente il suo

cuore a Dio, e costui è il meno infelice di quanti lo sono

per l’ultima volta.

L’uomo educato a metà, resosi sordo alla voce del dovere

e della religione, ma nel quale questi germi sono presenti,

ritorna dalla continua affettazione superficiale in cui era

vissuto, e allora dubita e trema.

Quelli che il mondo chiama miscredenti e atei, quelli che

si sono formati in una religione accomodaticcia, o quelli

che vi hanno rinunciato per sempre, probabilmente non

vedono nulla quando lasciano il mondo.

L’entusiamo politico, infine, quasi sempre fa coraggio,

e le morti più serene si sono viste in quei condannati in

cui un ideale è la preoccupazione dominante.

Giunta l’ora fatale, tutti i prigionieri del carcere com-

pagni di ventura del condannato e forse suoi successori,

intonano un Salve Regina dal ritmo monotono, e che

contrasta singolarmente con le canzoni sconce e le strofe

popolari, immorali e irreligiose, che un momento prima

formavano con le preghiere, il rumore dei cortili e delle

celle dello spaventoso edificio.

Colui che oggi canta Salve Regina la sentirà cantare

domani.

Subito la confraternita comunemente detta della Pace

e Carità accoglie il condannato, il quale, vestito di una

tunica e di un berretto giallo, viene trasferito con le ma-

ni e i piedi legati su di un animale, quello che viene con-

siderato il più vile perché è il più paziente e utile, e così

comincia la marcia funebre.

Un popolo intero ostruisce ormai le strade di transito.

Le finestre e i balconi sono contornati da innumerevoli

spettatori, che si spingono, si accalcano e si raggruppano

per divorare con la vista l’ultimo dolore dell’uomo.

– Cosa aspetta quella folla? – direbbe uno straniero che

ignorasse i costumi.

– Sta per passare un re, quell’essere coronato che è un

tale spettacolo per il popolo? 

E’ un giorno solenne?

E’ una festività pubblica?

Che fanno in ozio questi artigiani?

Di cosa è curiosa questa nazione?

Niente di tutto ciò. 

Questo popolo di uomini, molti ubriachi, sta per vedere

morire un uomo.

– Dove va?

– Chi è?

– Poveretto!

– Se l’è ben meritato.

– Ah, è già quasi morto.

– E’ sereno?

– Che integrità! 

( …ma il destino e la morte spesso decidono altre sentenze,

…rispetto quelle di un popolo che aspetta…..)

(Mariano José De Larra, Un condannato a morte)

  ….sito consigliato…..

www.cervantesvirtual.com


  

                                            

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UN CONDANNATO A MORTE

Prosegue in:

(un condannato 2)

Dialoghi con Pietro Autier 2: il condannato a morte &

Gli occhi di Atget: pausa dalla camera oscura, la nausea &

pagine di storia

 






Dal municipio!….Dunque.

L’esecrabile tragitto s’è compiuto.

Laggiù c’è la piazza, e sotto la finestra l’orrenda plebaglia

abbaia, aspetta e ride.

Per quanto abbia cercato di resistere e d’irrigidirmi, m’è

mancato il cuore.

Quando ho visto tra i due lampioni del quai, al di sopra

delle teste, drizzarsi i due bracci rossi col triangolo nero

in cime, il coraggio m’è venuto meno.

Ho chiesto di fare un’ultima dichiarazione.

Mi hanno portato qui e sono andati a cercare un procura-

tore del re.

Lo sto aspettando, è pur sempre qualcosa di guadagnato.

Dunque: Suonavano le tre, sono venuti ad avvertirmi che

era ora. 

Ho tremato come se da sei ore, da sei settimane, da sei me-

si, avessi pensato sempre ad altro.

Mi ha fatto l’effetto di qualcosa d’inatteso.

Mi hanno fatto percorrere i loro corridoi, scendere le loro

scale. 

Mi hanno spinto tra due porticine, al pianterreno, in una

sala buia, stretta, a volta, appena rischiarata da un giorno

di pioggia e nebbia. 

Nel mezzo stava una sedia.

Mi hanno detto di sedermi; mi sono seduto.

(Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte)




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UNIVERSI 3

Precedente capitolo:

(universi 2)

Prosegue in:

pagine di storia &

dialoghi con Pietro Autier 2 &

gli occhi di Atget

Foto del blog:

la

persecuzione

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima





Assunto tutto questo affermo ora, che un’intuizione

assolutamente irresistibile, per quanto inesprimibile,

mi forza alla conclusione che tutta la Creazione ori-

ginaria di Dio, che quella materia prodotta dal suo

stesso Spirito, o dal Nulla, per mezzo della sua Vo-

lizione, potrebbe essere stata nient’altro che Mate-

ria nel suo stato più alto concepibile di -cosa?-,

di Semplicità.

Questo è evidente l’unico assunto del mio Discorso.

Utilizzo la parola ‘assunto’ nel suo senso comune;

eppure sostengo che anche questa mia proposizio-

ne primaria è davvero molto distante dall’essere

realmente un mero assunto.

Niente è mai stato più certo, in effetti, nessuna con-

clusione umana è mai stata più regolarmente, più

rigorosamente dedotta: ma, ahime!, i suoi sviluppi

esorbitano le possibilità dell’umana analisi, e in

ogni caso trascendono la capacità d’espressione

della lingua umana.

Se comunque, nel corso di questo saggio, io sono

riuscito a mostrare che tutte le cose potrebbero es-

sere state a partire dalla Materia nella sua estrema

Semplicità, allora approdiamo direttamente all’in-

ferenza che esse sono state così costruite per via

dell’impossibilità di attribuire una supererogazio-

ne all’Onnipotenza.

Impegniamoci ora a concepire ciò che la Materia

deve essere al suo massimo grado di Semplicità.

Qui la Ragione vola subito all’Imparticolarità, a

una particella, la particella – una particella di un

certo tipo – di un certo carattere – di una certa mi-

sura – di una certa forma – una particella, dunque,

‘senza forma e vuota’ – una vera e propria particel-

la sotto tutti i punti di vista – una particella assolu-

tamente unica, individuale, indivisa, e non indi-

visibile soltanto perché chi la creò per mezzo della

sua Volontà, con uno sforzo infinitamente meno 

dispendioso della medesima Volontà, sarebbe lo-

gicamente anche in grado di dividerla. 

L’Unicità, quindi, è l’unico predicato che io attri-

buisco alla Materia creata originariamente; pur

tuttavia, mi propongo di mostrare che questa U-

nicità ‘è un principio del tutto sufficiente a spie-

gare la costituzione, i fenomeni esistenti e l’an-

nichilimento chiaramente inevitabile per lo me-

no dell’Universo materiale’.

La volontà d’essere della particella primordiale

ha completato l’atto, o, più propriamente, il con-

cetto di Creazione. 

(Poe, Eureka)




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