VIAGGI ONIRICI: Dagon (6)

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Precedenti capitoli:

Viaggi onirici (4/5)

Prosegue in:

Il doppio mostruoso &

Sogni paradossali: vermi elettrici & pecore nere (7/8)

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Viaggi onirici (1)  &  (2)

Da:

i miei libri

 

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DAGON

 

Scrivo in uno stato di tensione insostenibile.

Fra poco sarà l’alba e, allora, io non esisterò più.

Privo d’ogni mezzo, privo della droga che – sola – mi ha

consentito fino ad oggi di sopravvivere ai miei incubi, non

mi rimane altro modo per sottrarmi al tormento: mi getterò

dall’alta finestra di questa soffitta, nella squallida strada sot-

tostante.

Tuttavia io non sono un debole.

E’ vero sono schiavo della morfina, ma non sono un degenerato.

Quando avrete finito di leggere quello che, tra i brividi della feb-

bre, sto scrivendo, forse riuscirete a comprendere le mie ragioni.

 

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La mia vicenda ebbe inizio in una delle zone più aperte e meno

frequentate dell’immenso Oceano Pacifico, quando la nave mer-

cantile inglese sulla quale ero imbarcato venne catturata da un

vascello corsaro tedesco.

La Guerra Mondiale era allora ai suoi inizi, e il comportamento

sul mare dei tedeschi non era ancora arrivato al livello di atroci-

tà che raggiunse più tardi.

Noi prigionieri fummo perciò trattati con ogni riguardo, e la sor-

veglianza cui eravamo sottoposti era così allentata che, dopo soli

cinque giorni dalla cattura, riuscii a fuggire.

Mi trovai solo, su una piccola imbarcazione, in mezzo all’oceano

sconfinato. Avevo però con me cibo ed acqua sufficienti per un

lungo periodo.

 

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Per molti giorni andai alla deriva, senza avere la minima idea del-

la mia posizione. Possedevo soltanto poche rudimentali nozioni

di navigazione: bastanti, tuttavia, per presumere, mediante l’osser-

vazione del sole e delle stelle, che mi trovassi di poco a sud dell’-

equatore.

Della longitudine non avevo la minima idea, né riuscivo a scorge-

re alcuna isola o litorale. Non c’era una sola nuvola in cielo e conti-

nuavo a farmi trascinare dalle correnti sotto il sole incandescente

sperando nel passaggio di una nave, o che il mare mi gettasse sul-

la spiaggia di qualche terra abitabile.

Ma i giorni si susseguivano senza che riuscissi a vedere né navi né

terre, e cominciavo a disperare solo com’ero in quell’immensa, az-

zurra, ondulante uniformità.

 

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Quando si verificò il mutamento stavo dormendo profondamente.

Ciò che successe in realtà, non lo saprò mai: da giorni ero preda di

un sopore continuo, popolato di sogni spaventosi. In quel momen-

to di veglia, mi scoprii quasi sommerso dalla distesa minacciosa di

una palude grigiastra, che si allargava tutt’intorno, a perdita d’oc-

chio, in monotone ondulazioni.

A breve distanza da me, era incagliata la mia barca. 

Sarebbe naturale attendersi che, di fronte ad un cambiamento di sce-

na così straordinario ed inaspettato, la mia prima reazione fosse di

stupore.  Invece, più che meravigliato, mi sentii preda di un orrore

indescrivibile.

Nell’aria velenosa e nel suolo putrescente, avvertivo infatti qualcosa

di sinistro che mi ghiacciava il sangue. L’ambiente era reso fedito dal-

le carcasse di pesci in decomposizione, e da altre cose meno ricono-

scibili che affioravano dalla melma immonda di quella palude senza

fine.

 

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Nessun suono giungeva alle mie orecchie, e null’altro si vedeva se

non la sconfinata distesa di fango nerastro. Ma erano proprio quel

silenzio totale e l’assoluta uniformità di quel paesaggio ad oppri-

mermi con un senso di orrore e di disgusto.

Il sole sfolgorava in un cielo simile ad una lastra di piombo nella

sua crudezza senza nubi. Sembrava quasi che riflettesse la palude

d’inchiostro nella quale mi trovavo prigioniero.

Strisciando faticosamente, raggiunsi la mia barca incagliata e, men-

tre avanzavo, mi convinsi che c’era una sola spiegazione per lo sta-

to in cui mi trovavo: a causa di qualche misterioso movimento vul-

canico, una parte del fondo marino era risalita in superficie, ripor-

tando alla luce regioni che per innumerevoli milioni di anni erano

rimaste celate nella tenebra insondabile degli abissi oceanici.

Tanto vasta era l’esistenza della nuova terra sollevatasi sotto di me,

che non mi era possibile, per quanto affinassi l’udito, cogliere nep-

pure il più tenue e lontano rumore del mare.

Melma e cose morte si estendevano a perdita d’occhio, e non c’era-

no uccelli marini in cerca di preda fra le carcasse. Cupo e pensoso,

rimasi per ore rannicchiato nella mia barca.

 

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Il suo scafo, coricato su un fianco, mi offriva riparo dai raggi cocen-

ti del sole che si spostavano nel cielo. A mano a mano che il giorno

si dipanava, il terreno intorno a me perdeva un poco della sua vi-

scosità, promettendo di indurirsi abbastanza perché, di lì a poco,

potessi camminarvi senza fatica.

Quella notte dormii solo a tratti, e il giorno successivo preparai un

fagotto da portare sulle spalle, carico di provviste e d’acqua, deciso

a mettermi in cammino in cerca del mare scomparso e di un impro-

babile soccorso.

Il terzo giorno, il terreno era abbastanza solido da potervi cammi-

nare sopra agevolmente. Il fetore del pesce decomposto mi nause-

ava, ma non era certo quella la maggiore delle mie preoccupazio-

ni.

Mi incamminai dunque verso una destinazione ignota e, per tutto

il giorno, continuai ad avanzare faticosamente verso ovest, diretto

ad una lontana altura che, come avevo scoperto era l’unico rilievo

che dominasse quel deserto ondulato.

Scesa la notte, sostai e ripresi il cammino il giorno seguente, sem-

pre nella medesima direzione. L’altura tuttavia, non sembrava più

vicina di quando l’avevo scorta per la prima volta.

 

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Era ormai quasi notte quando riuscii a raggiungerne la base; e al-

lora mi si rivelò molto più alta di quanto non mi fosse apparsa

quando la osservavo da lontano, nella piattezza uniforme del

terreno.

Troppo esausto per tentarne la scalata, mi sistemai per passare

la notte, e mi addormentai. Non so perché i miei incubi fossero

così orrendi.

So soltanto che la falce della luna calante non era ancora alta nel

cielo, verso est, quando mi svegliai madido di sudore gelato, de-

ciso a non riprendere sonno.

Le visioni che avevo avuto erano troppo spaventose perché po-

tessi sopportarle di nuovo, solo in quella desolazione tenebro-

sa.

Il chiarore della luna, tuttavia, mi fece riprendere animo, e allora

compresi che ero stato sciocco a voler viaggiare di giorno. Senza

il fulgore ardente del sole, il cammino sarebbe stato più facile.

In quel momento, infatti, mi sentivo più riposato e disposto a

tentare la scalata che mi aveva scoraggiato al tramonto.

Ripresi quindi il viaggio, diretto verso la cima dell’altura.

L’uniformità monotona di quella distesa ondulata era per me, co-

me ho detto, fonte di un orrore sottile ed indefinibile. Ma ben più

grande fu il mio orrore, giunto sulla vetta e gettato uno sguardo

in basso dall’altro versante, mi trovai sospeso su un baratro im-

menso, i cui recessi profondi e macchiati di tenebra la luna non

era arrivata a illuminare.

 

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Mentre cercavo di affondare lo sguardo in quel caos oscuro, mi

sentii orrendamente solo sull’orlo estremo del mondo. Nel mio

terrore, lampeggiarono improvvisi ricordi del ‘Paradiso perdu-

to’, il poema di Milton letto in gioventù, e della scalata di Satana

attraverso i regni delle tenebre, immensi e senza forma.

Quando la luna fu alta nel cielo, mi accorsi però che il terreno ai

miei piedi non era scosceso come avevo immaginato. Nella par-

te iniziale, molte sporgenze rocciose fornivano punti di appog-

gio per un’eventuale discesa: poi, ad un certo punto, il pendio

diminuiva.

Spinto da un impulso che si sottrae ad ogni analisi, cominciai

la discesa del primo tratto, il più difficile, per fermarmi sulla

china ripida che seguiva.

Lì, la mia attenzione fu catturata da una paurosa massa che,

dalla parte opposta dell’abisso, si alzava diritta per una tren-

tina di metri.

 

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Si trattava di un monolite biancastro che risplendeva nel chia-

rore della luna nuova in ascesa nel cielo. Era soltanto un gi-

gantesco blocco di pietra: mi rassicurai in fretta. Ma non pote-

vo riconoscere che la sua sagoma e la sua collocazione non e-

rano in alcun modo ascrivibili all’opera della sola natura.

Un’osservazione più attenta suscitò in me sentimenti diversi

e inesprimibili: dovetti arrendermi all’idea che, malgrado le

sue dimensioni ciclopiche e la sua posizione in un abisso che

si era spalancato sul fondo del mare agli albori Terra, quel

monolite titanico aveva senza dubbio conosciuto l’opera del-

l’uomo, e l’adorazione religiosa di popoli ignoti.

Sbigottito, e tuttavia pervaso da quel brivido di piacere che

ben conoscono gli scienziati e gli archeologi di fronte all’im-

ponderabile, scrutai con maggiore attenzione ciò che mi sta-

va attorno.

 

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La luna che ormai era quasi giunta allo zenith, faceva piove-

re una luce vivida e irreale sopra i picchi torreggianti che so-

vrastavano la voragine, permettendomi di scorgere, sul fon-

do, un’ampia distesa d’acqua che si allargava in un senso e

nell’altro, quasi lambendomi i piedi sul pendio in cui mi tro-

vavo, e bagnando con piccole onde la base del titanico mo-

nolite al di là della voragine.

Sulla superficie dell’immensa pietra potevo ora distinguere

alcune iscrizioni e delle rozze figure scolpite. Le scritte erano

in geroglifici che mi risultavano ignoti, ma che in un certo sen-

so erano riconoscibili, perché si rifacevano a simbolismi figu-

rativi dal valore universale.

Tra forme confuse, scorgevo le immagini di pesci, anguille,

polipi, crostacei, molluschi, balene ed esseri simili. Altre in-

cisioni, delineavano creature marine ignote al nostro mondo.

Creature le cui forme in decomposizione – mi resi conto – io

avevo osservato nella palude di melma nera sorta dal fondo

dell’oceano.

Furono i bassorilievi, tuttavia, ad esercitare su di me il fasci-

no maggiore. Perfettamente visibili grazie alla loro smisurata

grandezza, una serie di sculture sull’altra riva esibivano for-

me che avrebbero suscitato l’invidia di Gustave Doré.

 

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Forse (ma non ne sono sicuro), volevano raffigurare degli u-

omini; più probabilmente, una specie particolare di uomini.

Erano creature ritratte mentre nuotavano come pesci nelle pro-

fondità di qualche grotta sottomarina, o mentre rendevano de-

voto omaggio ad altari monolitici sommersi anch’essi dalle a-

cque.

Il loro aspetto non oso descriverlo.

Edgar Allan Poe o Bulwer Lytton non avrebbero saputo im-

maginare nulla di più grottesco: figure nel loro insieme an-

cora diabolicamente umane, malgrado le mani ed i piedi pal-

mati, le labbra orribilmente rigonfie e flaccide, gli occhi vi-

trei e sporgenti, ed altre caratteristiche ancora più orribili da

ricordare.

 

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Inoltre – fatto curioso – le loro raffigurazioni erano del tutto

sproporzionate rispetto all’ambiente: una di esse per esem-

pio, era rappresentata nell’atto di uccidere una balena che

appariva poco più grande di lei.

Il loro aspetto grottesco e le loro dimensioni bizzarre non mi

sfuggirono; conclusi, che si trattava senza dubbio delle divi-

nità immaginarie di qualche comunità primordiale, ignorata

da tutti, i cui ultimi discendenti erano scomparsi dal nostro

pianeta migliaia di anni prima che nascesse il progenitore

dell’uomo di Piltdown o dell’uomo di Neanderthal.

Ero perso in fantasticherie su quel passato così remoto da

superare tutte le più ardite teorie antropologiche, immerso

nella luce lunare che creava riflessi sull’acqua silente, quan-

do, d’improvviso, la vidi.

Con un solo lieve risucchio a testimonianza della sua emer-

sione, la cosa incredibile scivolò fuori dall’acqua tenebrosa

davanti ai miei occhi. Titanica e repellente, la mostruosa

creatura si lanciò verso il monolite, poi lo cinse con le sue

gigantesche braccia coperte di squame, curvando la testa

orribile e emettendo urla ritmate.

Fu in quel momento, credo, che caddi in preda alla follia.  

 

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Della mia frenetica risalita su per il pendio roccioso, e del

mio viaggio verso la barca incagliata, rammento ben poco.

Credo di ricordarmi che cantai a lungo, e risi convulsamen-

te quando non mi riuscì più di cantare.

Ho la vaga reminiscenza di una grande tempesta scoppiata

poco dopo che ebbi raggiunto la barca. So di certo che udii

grandi fragori di tuono, e gli altri ululati che la natura leva

al cielo nei suoi momenti più selvaggi.

Quando emersi dalla tenebra, mi ritrovai in una stanza d’o-

spedale a San Francisco, dove ero stato portato da una nave

americana che aveva avvistato la mia barca in mezzo all’o-

ceano.

A quanto pare, nel delirio avevo parlato molto, ma nessuno,

ovviamente aveva prestato soverchia attenzione a ciò che di-

cevo. Di maremoti o altri sconvolgimenti tellurici nella zona

del Pacifico in cui ero stato raccolto, i miei salvatori non sa-

pevano nulla.

 

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Né io ritenni opportuno ripetere anche da sveglio ciò che sen-

za dubbio avevo già raccontato durante il delirio: nessuno,

peraltro, mi avrebbe creduto.

Un giorno, venni in contatto on un etnologo famoso, e gli fe-

ci alcune domande sull’antica leggenda filistea di Dagon, il

Dio-Pesce. Ma mi resi conto subito che lo studioso non era

in grado di uscire dal ristretto campo delle curiosità libre-

sche, e non spinsi oltre la mia indagine.

 

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E’ di notte che vedo quella creatura orrenda, specie quando

la luna è falcata. Ho cercato soccorso nella morfina, ma la

droga mi ha donato un sollievo temporaneo.

Alla fine, non ho ottenuto altro risultato che aggiungere la

sua schiavitù a quella del mostruoso ricordo. Ormai, non

mi resta che porre la parola fine a tutto ciò, dopo aver avu-

to il coraggio di scrivere quanto ho visto per l’informazio-

ne – o il divertito disprezzo – dei miei simili.

Mi domando spesso se non può essere stata tutta un’allu-

cinazione, la conseguenza di una febbre provocata dal so-

le ardente mentre deliravo nella barca, preda delle corren-

ti.

Me lo chiedo: ma, sempre, l’incubo mi risponde di no, rin-

novandosi ogni volta più orrendamente vivido. Non pos-

so pensare all’oceano senza rabbrividire all’idea delle cre-

ature senza nome, simili a noi, che in questo medesimo

istante strisciano e si dibattono nel fango dei suoi abissi;

che adorano con riti blasfemi i loro remoti idoli di pietra,

o sono intente a scolpire i propri ripugnanti ritratti su

sommersi obelischi di granito verdastro.

 

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Penso al giorno, forse vicino, in cui le loro gigantesche

braccia squamose si leveranno dai flutti per trascinare

sul fondo, nei loro artigli immondi, quanto resta dell’-

insignificante genere umano sfibrato dalla guerra.

Quel giorno, forse, i continenti stessi si inabisseranno e

il fondo oscuro dell’oceano salirà alla luce in un catacli-

sma cosmico.

La mia fine è giunta.

Sento un rumore sordo alla porta, come se un’enorme ma-

no viscida stesse raspando contro di essa….

Ma quella mano, mio Dio, non mi troverà….

(Lovecraft, Dagon)

 

 

 

 

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VIAGGI ONIRICI: Dagon (6)ultima modifica: 2014-05-15T00:00:00+02:00da giuliano106
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