L’INVASIONE

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Il 7 ottobre 1950 i cinesi varcarono il confine tibetano.

Ciò avveniva centinaia di chilometri a est di Lhasa, per cui nella

capitale non scoppiò il panico.

…..A Shigatse non si aveva molta paura dei cinesi.

Accanto alla fortezza del governatore c’era il monastero di Trans-

hilhunpo, uno dei più grandi, con migliaia di monaci, nonché se-

de del Panchen Lama, la seconda autorità religiosa del Tibet, che

da generazioni veniva sostenuta dai cinesi in contrapposizione al

Dalai Lama.

 

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L’attuale Panchen Lama si trovava ora in un monastero sotto sorve-

glianza cinese. Gli stupa dai tetti dorati di Trashilhunpo, monumento

funebre ai Panchen Lama defunti, assomigliavano ai mausolei del

Potala per i Dalai Lama del passato.

Rimasi particolarmente impressionato dalla costruzione più alta

di tutte, il rosso Jampa Lhaklang. La statua del Maitreya, alta 26

metri, superava i nove piani. La testa era così grande che per foto-

grafarla dovetti arrampicarmi su una serie di scale. 

 

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Tornato a Gyantse, fui accolto da un agitatissimo Surkhang Wang-

chuk con la notizia che il Dalai Lama aveva lasciato Lhasa il 19

dicembre.

Era arrivato l’ordine di preparare tutti i posti tappa delle carovane

e di sistemare le strade per il suo arrivo. La madre e i fratelli erano

già a Gyantse. Ebbi un incontro particolarmente affettuoso con

Norbu, che non vedevo da tre anni. Il mio amico era in viaggio da

mesi; era sfuggito ai cinesi con l’astuzia, facendo credere di voler

convincere suo fratello a restare in Tibet.

 

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Adesso era felice di essere libero e sarebbe andato a sud con la

sua famiglia.

Cavalcai incontro al Dalai Lama assieme a Surkhang Wangchuk.

Dopo tre giorni di viaggio, ci imbattemmo nell’avanguardia della

carovana sul passo di Karo. Si era levato un vento fortissimo, e lo

sventolio delle tante bandiere di preghiera variopinte soverchiò

il richiamo dei primi cavalieri…..

La scorta del giovane dio-re era composta da una quarantina di

nobili e da duecento soldati scelti, armati di mitragliatrici; segui-

vano uno stuolo di servitori e cuochi e un corteo pressoché infini-

to di 1500 bestie da soma che salivano in fila indiana verso il colle.

Al centro della colonna garrivano la bandiera nazionale del Tibet

e quella personale del XIV Dalai Lama, a segnalare la presenza

del sovrano.

 

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Mentre osservavo la lenta cavalcata del Buddha vivente verso il

passo, mi venne involontariamente in mente una profezia che si

sussurrava a Lhasa: il tredicesimo Dalai Lama, così avrebbe an-

nunciato un oracolo, sarebbe stato l’ultimo.

Qualche settimana prima, con due anni di anticipo rispetto al

compimento del diciottesimo anno d’età, il mio giovane amico

era diventato ufficialmente il sovrano del suo paese.

Ma ora il vaticinio pareva avverarsi.

Tenzing Gyatso era stato incoronato, ma i cinesi avevano invaso

il Tibet, e lui era stato costretto alla fuga. Quando mi passò da-

vanti in groppa al suo cavallo bianco, mi sembrò una felice coin-

cidenza che spesse nuvole di fumo d’incenso nascondessero i

nostri visi e dunque i nostri sentimenti.

(H. Harrer, La mia sfida al destino)

 

 

 

 

 

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