Precedente capitolo:
C’era vicino alla porta e lungo i muri qualche persona in piedi, oltre
il prete e alle guardie, e c’erano anche tre uomini.
Il primo, il più alto, il più vecchio, era grasso e con la faccia rossa.
Portava una finanziera e un cappello sformato a tricorno.
Era lui.
Era il boia, il servo della ghigliottina.
Gli altri due erano aiutanti.
Appena seduto, quelli mi si sono avvicinati da dietro, come
due gatti; ho sentito di colpo tra i capelli il freddo dell’acciaio e
nelle orecchie delle forbici.
I capelli, tagliati a casaccio, mi cadevano a ciocche sulle spalle,
e l’uomo dal tricorno li toglieva delicatamente con la grossa mano.
Intorno parlavano sottovoce.
C’era molto rumore , fuori come un fremito che ondeggiasse nell’aria.
Sulle prime ho pensato al fiume; poi da qualche risata squillante, ho
riconosciuto in quel rumore la folla.
Vicino alla finestra, un giovane intento a scrivere con la matita su un
taccuino ha chiesto ad uno dei secondini come si chiamava quello che
stavano facendo.
– La toilette del condannato, ha risposto l’altro.
Ho capito che l’indomani la cosa sarebbe stata sul giornale.
A un tratto uno dei servi mi ha tolto la giacca, l’altro ha preso le mie
mani inerti, le ha girate dietro la schiena, e io ho sentito i nodi d’una
corda chiudersi adagio attorno ai polsi stretti l’uno all’altro.
Contemporaneamente, l’altro mi disfava la cravatta.
La mia camicia batista, unico brandello di ciò che ero stato un tempo,
l’ha fatto esitare un istante; poi s’è messo a tagliare il colletto.
A quell’orrenda precauzione, al gelo dell’acciaio che mi toccava
il collo, i gomiti hanno avuto uno scatto e m’è sfuggito una specie
di ringhio sommesso.
La mano dell’esecutore ha tremato.
– Perdono signore! ha detto.
– Forse vi ho fatto male?
Questi boia sono persone dolcissime.
Fuori la folla urla inferocita e più forte.
L’omone con a faccia rossa di foruncoli mi ha offerto da respirare
un fazzoletto imbevuto d’aceto.
– Grazie, gli ho detto con la voce più ferma che ho potuto.
– Mi sento bene.
Allora uno dei due s’è inchinato e mi ha legato i piedi con una
cordicella lenta, che mi lasciava far soltanto dei brevi passi.
La corda è stata unita a quella delle mani.
Poi l’omone mi ha buttato la giacca sulle spalle e annodato insieme
le maniche sotto il mento.
Quel che doveva fare, l’aveva fatto.
Allora il prete s’è avvicinato col crocefisso.
– Andiamo, figliolo, mi ha detto.
I due aiutanti mi hanno preso per le ascelle.
Mi sono alzato, ho camminato.
Avanzavo a passi molli e malfermi, come se in ogni gamba avessi
avuto due ginocchia.
In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti.
Un clamore furibondo, un’aria fredda, una luce bianca hanno fatto
irruzione fino a me nel buio.
Dal fondo dell’oscura guardiola, di colpo ho visto attraverso la
pioggia le mille facce urlanti della gente ammassati sulla rampa
del grande scalone del palazzo, a destra, al livello della soglia,
una fila di guardie a cavallo, a causa della porta bassa, non scorgevo
che le zampe anteriori e i pettorali dei cavalli; di fronte, un
distaccamento di soldati, in assetto di guerra; a sinistra, la parte
posteriore d’una carretta, contro la quale era appoggiata un’erta
scala.
Un quadro orrendo, ben incorniciato da una porta di prigione.
Avevo conservato il mio coraggio per quel momento tanto temuto.
Ho fatto tre passi, e sono apparso sulla soglia della guardiola.
– Eccolo! eccolo! ha gridato la folla.
– Esce! finalmente!
E i più vicini battevano le mani.
Un re per quanto amato non avrebbe avuto tanta festa.
(Hugo, L’ultimo giorno di un condannato a morte)