LA STUDIA

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la studia

 

 

Già, quel che si chiama sapere. Ma chi

si rischia a dire pane al pane?

I pochi che hanno saputo qualcosa,

che hanno dato corso, pazzi, alla piena dell’anima

e fatte palesi alle plebi le proprie passioni e i pensieri,

li hanno da sempre messi in croce o sul rogo.

Prego, amico: è notte alta.

Per questa ….epoca talvolta… dobbiamo interrompere. 

la studia

FAUST

(…entrando insieme al can barbone…)

Prati e campi li ho lasciati,

li copre una notte profonda

che con l’ansia d’un sacro spavento

ridesta l’anima nostra migliore.

Dormono gli impeti veementi

ora e le azioni scatenate.

L’amore per gli uomini ora si leva,

si leva l’amore di Dio.

 

Cane, a cuccia! Non correre su e giù!

Che c’è da annusare alla soglia?

Mettiti giù dietro la stufa.

Ti darò il mio cuscino migliore.

Là sulla strada del monte tu ci hai divertiti,

con le tue corse, coi tuoi salti

e ora lascia che mi occupi di te

come di un ospite gradito e riservato.

 

Ah, quando nella stretta cella

riarde la lampada amica

si fa luce allora in noi,

nel cuore che conosce se stesso.

La ragione riprende il discorso,

la speranza riprende a fiorire.

Si ha sete d’acqua della vita,

sete delle sue sorgenti.

 

Non guaire, barbone! Alle sante armonie

che ora mi prendono l’anima

non s’accorda il tuo ringhio di bestia.

Siamo avvezzi a sentire che gli uomini deridono

quello che non intendono

e di fronte a bellezza e bontà,

infastiditi, spesso brontolano.

Ringhiare a quelle vuole, come loro, il cane?

(Prosegue in Pagine di Storia)

 

 

la studia

 

IL MURO

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il muro

 

 

– Ma di che diavolo ti lamenti?

domandò Leamas bruscamente.

– Il tuo partito è sempre in guerra, no? Sacrifica l’individuo per

la massa.

– Dicono così, no?

– Realtà socialista: combattere giorno e notte….una battaglia

spietata, dicono così, no?

– Se non altro sei sopravvissuta.

– Non ho mai sentito dire che i comunisti considerano sacra

la vita umana, oppure ho capito male?

aggiuse in tono sarcastico.

– Certo, sono d’accordo, potevi essere eliminata. Era nelle carte. 

il muro

Mundt è un porco malvagio, non vedeva una ragione per

lasciarti sopravvivere. La sua promessa, immagino che 

abbia promesso di far quel che poteva per te, ma non vale

molto. E così avresti potuto morire oggi, l’anno prossimo o

tra vent’anni, in una prigione del paradiso dei lavoratori.

E anch’io. 

il muro

Ma mi sembra di ricordare che il partito mira alla distruzione

di un’intera classe.

Oppure ho capito male?

– In questo gioco esiste soltanto una legge,

continuò Leamas.

– Mundt è il loro uomo, dà loro quel che occorre.

– Questo è facile capirlo, no?

– Leninismo, l’espediente delle alleanze temporanee.

– Che cosa credi che siano le spie?

– Santi, martiri, preti…eretici?

– Sono la più squallida processione di idioti piccoli e grandi,

vanesi e di traditori, di omosessuali repressi, sadici, ubriaconi,

di gente che gioca agli indiani e ai cowboys per rallegrare una

vita squallida. 

il muro

– Credi che se se stiano a Londra, occcupati a soppesare bene

e male?

– Avrei ucciso Mundt, se avessi potuto. Lo odio a morte, ma

adesso no. Il caso vuole che abbiamo bisogno di lui. Hanno

bisogno di lui perché la gran massa ebete che tu ammiri

possa dormire tranquilla ogni notte. Hanno bisogno di lui

per la sicurezza della miserabile gente qualsiasi, come te

e me.

– E’ una guerra, è spiacevole perché la si combatte su scala

minuscola, a distanza ravvicinata; la si combatte con uno

spreco di vite innocenti, lo ammetto. Ma è niente, veramente

niente, al confronto delle altre guerre, tutte, l’ultima o la

prossima. 

– Oh Dio,

sussurrò Liz, 

il muro

– Non capisci. Non vuoi capire. Stai cercando di convincerti.

Quel che fanno è molto più terribile, trovare l’umanità nella

gente, in me e in quelli che adoperano, per farsene un’arma 

e usarla per ferire e uccidere….

– Cristo onnipotente!

esclamò Leamas.

– Che cosa hanno fatto gli uomini da quando è incominciato

il mondo?

– Io non credo, capisci, non credo in niente, neanche nella

distruzione e nell’anarchia. Sono nauseato, nauseato, nauseato

di uccidere, ma non vedo che cosa possono fare di diverso.

– Non fanno proseliti, non salgono sui pulpiti o sui palchi

di partito, a dirci di combattere per la pace o per Dio o

per non so che altro. 

– Sono i poveri fessi che cercano di impedire ai predicatori

di farsi saltare in aria a vicenda. 

– Hai torto,

dichiarò Liz disperata,

– Sono più malvagi di tutti noi…. 

(John Le Carré, La spia che venne dal freddo)

 

 

il muro

      

IL COLLOQUIO DELLA PREGHIERA

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Il colloquio delle preghiere sul punto d’essere pronunciate

Dal fanciullo che va a letto e dall’uomo per le scale

Mentre sale verso il suo amore morente nella sua alta camera,

L’uno incurante verso chi muoverà nel sonno

E l’altro pieno di lacrime all’idea di trovarla morta.

Si aggira nel buio sul suono che essi sanno si leverà

Dalla terra verde ai cieli echeggianti,

Dall’uomo per le scale e dal bambino presso il letto.

Il suono che si alzerà nelle due preghiere

Per il sonno in un paese sicuro e per l’amore che muore

Sarà il volo di un unico dolore. Chi calmeranno?

Il fanciullo dormirà incolume, l’uomo singhiozzerà?

Il colloquio delle preghiere sul punto d’essere pronunciate

Si aggira sui vivi e sui morti, e l’uomo per le scale

Stanotte non troverà morente ma vivo e caldo

Nel fuoco della sua inquietudine il suo amore nell’alta camera.

E il fanciullo incurante verso chi innalza la preghiera

Annegherà in un dolore profondo come la sua vera tomba,

E fisserà, attraverso gli occhi del sonno, il negro occhiuto flutto

Che lo trascina su per le scale verso una che giace morta.

(Dylan Thomas)

 

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IN NOME DEI PERDUTI

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In      nome     dei     perduti     che     si     gloriano

       Nelle   immonde  pianure  di  carogne

            Sotto  il     funebre    canto

                Degli uccelli da soma

                  Carichi di annegati

                   E di polvere verde

                         E   recanti

                         Lo spirito

                             Dalla

                           T e r r a

                      Come polline

                Sopra  le  nere  penne

             E   sul    becco   di     fango

     Io   prego    benché    non   appartenga

   Interamente    a   quei     dolenti       fratelli

  Poiché      la     gioia      si       è           insediata

Nel  più  interno  midollo  dell’osso  del mio cuore

(Dylan Thomas)

 

 

in nome dei perduti

 

 

UN DIALOGO: ANDREJ EFIMYIC (1)

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Con il piacevole pensiero di non avere da tempo, grazie a Dio, visite

private e dunque di non avere altre seccature, Andrej Efimyic torna

a casa, si siede subito nel suo studio e comincia a leggere.

Legge moltissimo e sempre con grande piacere.

Metà del suo stipendio se ne va in acquisto di libri, tre delle sei camere

del suo appartamento sono stracolme di libri, di vecchi giornali. Ama

soprattutto opere di storia e di filosofia; di medicina legge solo la

rivista ‘Medici’, cominciando immancabilmente dall’ultimo articolo.

Legge ininterrottamente per molte ore, senza fatica.

Legge non con la velocità e l’avidità con cui un tempo leggeva Ivan

Dmitric: legge lentamente, con concentrazione, fermandosi spesso sui

passi che più gli piacciono o che non capisce.

Verso sera di solito arriva il direttore della posta.

– Lei sa bene, dice il dottore con tono pacato, scandendo le parole,

– che non c’è nulla al mondo di più interessante e importante delle

supreme manifestazioni dell’intelligenza umana.

– L’intelligenza è ciò che distingue l’uomo dagli animali, che rimanda

alla sua origine divina e un certo senso sostituisce l’immortalità, che

non esiste. Fatte queste premesse, ne deriva che l’intelligenza è l’unica

possibile fonte di godimento. Se dunque intorno a noi non vediamo

né sentiamo alcuna sua manifestazione, vuol dire che veniamo privati

di ogni godimento.

– E’ vero che esistono i libri, ma non possono sostituire la conversazione,

il rapporto vivo, diretto. Se posso fare un paragone non del tutto calzante,

i libri sono le note, la conversazione è il canto.

– Perfettamente d’accordo.

– Spesso sogno di conversare con persone intelligenti, dice improvvisamente,

interrompendo Michail Aver’janyc.

– Mio padre mi ha dato un’ottima istruzione, ma influenzato dalle idee

materialiste degli anni Sessanta, mi ha costretto a fare il medico. Ho l’

impressione che se non l’avessi ascoltato, oggi sarei al centro del movimento

intellettuale del mio paese. Probabilmente sarei docente di qualche facoltà

universitaria. Certo, anche l’intelligenza ha i suoi limiti, non è eterna ma

voi sapete perché ne sono tanto attratto.

La vita è una trappola.

Quando un uomo intelligente raggiunge maturità e consapevolezza di sé,

si sente involontariamente in trappola, senza via d’uscita: capisce di essere

stato chiamato, contro la sua volontà, per circostanze fortuite, dal non essere

all’essere….

Perché?

Vuol sapere il senso e il fine della propria esistenza, nessuno gli dà una

risposta o gli dicono stupidaggini; bussa e nessuno gli apre; poi arriva

la morte, anch’essa contro la sua volontà.

Come i carcerati, uniti da una comune sventura, si sentono sollevati quando

si trovano insieme, così nella vita diminuisce la sensazione di essere in trappola

quando le persone portate all’indagine e alla riflessione si riuniscono e si scambiano

liberamente idee e opinioni.

In questo senso dicevo che l’intelligenza è un piacere insostituibile.

– Perfettamente d’accordo.

Accompagnato l’amico Andrej Efimyic torna alla scrivania e si rimette a leggere.

Il silenzio della sera e poi della notte non è turbato da nessun suono, il tempo

pare si fermi, rimanga immobile come il dottore con il suo libro, sembra che

nulla esiste all’infuori di quel libro e della lampada con il paralume verde.

Il volto rozzo, contadinesco del dottore a poco a poco si illumina di un sorriso

intenerito, estatico di fronte ai nuovi traguardi della mente umana.

– Oh, perché l’uomo non è immortale? pensa.

– A che servono i centri e le circonvoluzioni cerebrali, a che servono la vista,

la parola, le sensazioni, il genio se tutto ciò è destinato a finire in polvere,

raffreddarsi lentamente insieme alla crosta terrestre e continuare a ruotare

senza senso e senza scopo per milioni di anni intorno al sole?

Che bisogno c’era di trarre l’uomo dal nulla con la sua elevata, quasi divina

intelligenza per poi trasformarlo di nuovo, come per scherno, in polvere?

(Anton Cechov, Il reparto n. 6)

 

 

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IL MONACO NERO (3)

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Alle quattro e mezzo tornò ad accendere la candela e in quel momento

scorse il monaco nero che stava seduto nella poltrona accanto al letto.

– Buon giorno, disse il monaco e, dopo un po’ di silenzio, domandò:

– a che cosa stai pensando?

– Alla gloria, rispose Kovrin.

– Nel romanzo francese che leggevo dianzi è raffigurato un giovane

scienziato che fa sciocchezze e deperisce per bramosia di gloria.

– Per me questa bramosia è incomprensibile.

– Perché sei intelligente.

– Tu consideri la gloria con indifferenza, come un balocco che non ti

diverte.

– Sì, è vero…..

Tanja frattanto si era svegliata e con stupore e sgomento guardava il marito.

Egli parlava rivolgendosi alla poltrona, gestiva e rideva, i suoi occhi brillavano

e nel suo riso c’era un che di strano.

– Andrjusa, con chi parli?

domandò, afferandogli la mano, che egli aveva teso verso il monaco.

– Andrjusa! Con chi?

– Eh? Con chi? si turbò Kovrin.

– Con lui, ecco….

– Eccolo lì seduto, disse indicando il monaco nero.

– Qui non c’è nessuno….nessuno!

– Andrjusa, tu sei matto!

Tanja abbracciò il marito e si strinse a lui, come per difenderlo dalle visioni,

e gli coprì gli occhi con la mano.

– Sei malato! si mise a singhiozzare, tremando in tutto il corpo.

– Perdonami, caro, diletto, ma già da lungo tempo ho osservato che l’anima

tua è sconvolta da non so che cosa…..

– Sei malato nella psiche, Andrjusa…

Il tremito di lei si cominicò anche a lui. Egli gettò ancora uno sguardo alla

poltrona, che ormai era vuota, sentì a un tratto una debolezza nelle mani

e nelle gambe, si spaventò e prese a vestirsi.

– Non è nulla, Tanja, non è nulla…., mormorava, tremando.

– Infatti sono un pochino indisposto…è tempo ormai di riconoscerlo.

– Io me n’ero accorta già da un pezzo…anche il babbo se n’è accorto, diceva,

sforzandosi di trattenere i singhiozzi.

– Parli con te stesso, sorridi in un certo modo strano….non dormi.

– Oh, Dio mio, Dio mio, salvaci! proferì sgomenta.

– Ma tu non temere, Andrjusa, non temere, per l’amor di Dio non temere….

Anch’ella cominciò a vestirsi. Solo adesso guardandola, Kovrin comprese tutto

il pericolo del proprio stato, capì che cosa significasse il monaco nero e i

colloqui con lui.

Adesso gli riusciva chiaro ch’egli era pazzo.

(Anton Cechov, Il monaco nero)


 

 

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IL MONACO NERO

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In campagna continuò a condurre la stessa vita nervosa e irrequieta

come in città.

Leggeva e scriveva molto, studiava la lingua italiana e, passeggiando,

pensava con piacere che ben presto si sarebbe rimesso al lavoro.

Dormiva così poco che tutti se ne meravigliavano; se per caso si assopiva

di giorno per una mezz’ora, poi non dormiva più la notte e dopo la notte

insonne, come se nulla fosse, si sentiva vispo e allegro.

Parlava molto, beveva vino e fumava sigari cari.

Dai Pesockij venivano spesso, quasi ogni giorno, signorine del vicinato che

insieme con Tanja suonavano il pianoforte e cantavano; a volte ci veniva

un giovanotto, un vicino che suonava bene il violino. Kovrin ascoltava la

musica e il canto con avidità e ciò lo estenuava, cosa che si esprimeva

fisicamente col fatto che gli si chiudevano gli occhi e il capo gli si piegava

da un lato.

Una volta dopo il tè della sera era seduto sul balcone e leggeva.

Nel salotto intanto Tanja, che era soprano, una delle signorine, che era

contralto, e il giovanotto stavano studiando sul violino la nota serenata di

Braga. Kovrin tendeva l’orecchio alle parole – che erano russe – e in nessun

modo ne poteva capire il senso.

Infine, lasciato il libro e prestato ascolto con attenzione, capì: una fanciulla

dall’immaginazione malata udiva di notte nel giardino certi suoni misteriosi,

belli e strani a tal punto da dover riconoscere in essi una sacra armonia che per

noi mortali, è incomprensibile e perciò se ne vola indetro nei cieli.

A Kovrin cominciarono a chiudersi gli occhi.

Egli si alzò e, colto da spossatezza, fece un giro per il salotto, poi per la sala.

Quando il canto si interrompe, prese Tanja a braccetto e uscì con lei sul balcone.

(Anton Cechov, Il monaco nero)

 

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