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In quegli stessi anni…l’Italia cos’era?
Il padrone era la Spagna, destinata a rimanere tale fino al 1715, cioè
per oltre un secolo e mezzo.
Essa si era direttamente appropriata quattro dei nostri maggiori Stati:
la Sicilia, la Sardegna, Napoli e il ducato di Milano, oltre una testa
di ponte in Maremma che chiamava Stato dei Presidi.
L’Europa del 500 aveva quasi totalmente ignorato questa epopea
…della conquista. Ma già ai primi del 600 i suoi effetti cominciavano
a farsi sentire dappertutto, anche nel nostro Paese.
E per motivi evidenti.
L’Italia, pur avendovi dato avvio coi suoi navigatori, era rimasta
tagliata fuori da questa grande avventura. Ma essa faceva parte
dell’impero spagnolo che ne era invece il massimo protagonista.
Il contraccolpo era inevitabile.
I sovrani spagnoli non pensavano di costruire un impero.
Nell’affidare le tre caravelle a Colombo, re Ferdinando gli aveva
raccomandato di portare indietro quanto più oro trovava, e la
regina Isabella di convertire al cristianesimo quanti più indigeni
poteva.
I loro successori ripeterono pressapoco le medesime direttive
ai soldati, ai marinai, ai funzionari e ai missionari che s’imbarcavano.
L’organizzazione dei viaggi era monopolio di un’agenzia, la
‘Casa de contrataciòn’ di Siviglia, che provvedeva a reclutare i
volontari, a noleggiare le navi e a prelevare per conto dello Stato
un’imposta sui metalli preziosi che i reduci riportavano in patria,
pari alla metà del loro valore.
Questa era l’unica cosa che importava al governo di Madrid.
Per esso le ‘Indias’ come si seguitava a chiamare le Americhe,
erano soltanto una riserva d’oro.
Privi di carte geografiche, all’oscuro sull’estensione e ubicazione
di quelle lontane terre, i burocrati castigliani misuravano le
imprese del loro ‘conquistadores’ unicamente sui quantitativi
di metallo che fruttavano.
Non avevano del tutto torto perché infatti quegli avventurieri
erano dei predatori, non dei colonizzatori e solo all’oro badavano.
Saccheggiata una regione, ne occupavano un’altra: ma sempre e
soltanto per farvi bottino.
Questo bottino lo trovarono dapprima già confezionato, nei forzieri
Aztèchi e Inca.
E abbiamo visto come lo incamerarono.
Ma questa fonte di di rifornimento naturalmente fece presto ad
esaurirsi. E allora occorse rifarsi alle miniere.
Ma le miniere volevano braccia che le scavassero alla ricerca dei
filoni, e gli spagnoli erano pochi e allergici al piccone. Ci misero
gli ‘indios’, che del resto erano già stati abituati al lavoro forzato
dai vecchi padroni aztechi e inca. E così nacque il sistema dell’
‘encomienda’, che assegnava a ogni colono, assieme a una vasta
area di prospezione, un certo numero di indios ridotti in servitù
della gleba.
Furono le circostanze a imporre poi un’evoluzione, quando,
esauritesi, anche le miniere, i coloni adibirono i loro latifondi
all’agricoltura e all’allevamento del bestiame.
Questo non migliorò la sorte degli indios che rimasero servi
della gleba, anche se di un’altra gleba. Ma ciò riguardava la
storia americana, ai cui testi rimandiamo il lettore.
In Europa il primo contraccolpo fu di natura economica.
La Spagna non era costituzionalmente un Paese povero perché
di risorse nelle sue viscere ne aveva e tuttora ne ha.
Ma era impoverito dalla sua politica di grandezza militare che
strappava gli uomini dai campi per farne dei soldati.
Grandi, grandissimi soldati, ma improduttivi come tutti i
soldati. Il lavoro era riservato agli scarti di leva, e perciò era
diventato, come abbiamo detto, il disprezzato monopolio degli
ebrei e dei ‘moriscos’ – i residui dell’occupazione araba forzatamente
convertiti al cristianesimo -, che l’esercito rifiutava.
(Indro Montanelli, Storia d’Italia)