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Nel duecento la Chiesa romana fissa definitivamente la sua
raccolta di leggi e le proclama dogmi, ritenendosi moralmente
così forte da poter trasformare il contingente in assoluto; ed è
questo il secolo in cui vengono definitivamente fissate le leggi
della ‘Santa Inquisizione’.
Poche e fioche furono invece le voci del pur esistente e vivace
moto eretico; l’Italia maturatasi in una lingua, in una scuola,
in una formula letteraria, parlava già quel gergo autoritaristico
che sarà inscindibile da essa e a cui si dovrà adattare anche il
mondo europeo che saprà liberarsene solo in parte tra i secoli
XV e XVIII.
L’autorità in Italia si chiama tradizione romana, romanesimo
giuridico, organismi politici bizantini conservatisi in forme
arabe e poi tramandati attraverso la prassi normanna e ghibellina.
L’individuaismo che si ritorce contro la tradizione non si oppone
alla definizione autoritaria, anzi la sorregge perché vede attraverso
di essa la sua possibilità di estrinsecarsi.
Il Duecento è già il secolo dei grandi individualismi che sboccano
a volta a volta in espressioni politiche e religiose.
Quando Innocenzo III scatena la sistematica vendetta contro la
libertà di coscienza, egli ha dietro di sé la giurisprudenza romana
che basta applicare perché il principio di autorità trionfi, ed è
sintomatico il fatto che il verbo autoritario sia imposto dall’Italia
e si estenda a tutti i paesi d’Europa.
I pontefici autoritari non conoscono limiti al loro potere: di fronte
alla Chiesa tutti i potenti della Terra si debbono inchinare, ed è
notevole, non tanto il sorgere di questa dottrina, quanto la cecità
con cui si cercò di applicarla senza rendersi conto dell’entità
di forze superiori che le si sarebbero potute opporre.
Si arrivò, in tal modo, dopo un ecolo, alla bolla -Unam Sanctam –
e alla catastrofe di Bonifacio VIII.
Che cosa era avvenuto?
L’egocentrismo dell’individuo che aveva attaccato in pieno la
società per plasmarla e foggiarla a proprio modo, tentando anzi
di distruggerla pur di imporre se stesso, era stato vinto dalla
società come forza inerte, come assommarsi di individui, ma
anche come umanità, che reagisce facendo infine valere il
proprio peso.
Fu un’esperienza terribile e inattesa per gli uomini del secolo
XIII il dover far fronte all’individuo che si era scatenato contro
la società.
Le fonti del tempo parlano di ‘tiranni’, ma tale definizione è
ancora conformista: tiranno era infatti la Chiesa che abusava del
potere per estendere i diritti ecclesiastici, anche quei diritti che
fissavano essi stessi la più esosa delle tirannie.
( …….)
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…Non recava segni di violenza, ma il modo in cui il corpo si
muoveva in catene, con le membra dislogate, quasi incapace
di muoversi, trascinato dagli arcieri come una scimmia legata
alla corda, palesava molto bene il modo in cui doveva essersi
svolto il suo atroce responsorio.
– Bernardo lo ha torturato…
sussurrai a Guglielmo.
– Per nulla,
rispose Guglielmo.
– Un inquisitore non tortura mai. La cura del corpo dell’imputato
è affidata sempre al braccio secolare.
– Ma è la stessa cosa!
dissi.
– Niente affatto. Non lo è per l’inquisitore, che ha le mani monde,
e non lo è per l’inquisito, che quando viene l’inquisitore trova
in lui un improvviso appoggio, un lenimento alle sue pene, e
gli apre il cuore.
Guardai il mio maestro:
– Voi state celiando,
dissi sgomento.
– Ti paio cose su cui celiare?
rispose Guglielmo.
Bernardo stava ora interrogando Salvatore, e la mia penna non
riesce a trascrivere le parole rotte e, se pur fosse stato possibile,
ancora più babeliche, con cui quell’uomo già dimidiato, ora
ridotto al rango di un babbuino, rispondeva, compreso a fatica
da tutti, aiutato da Bernardo che gli poneva i quesiti in modo
che lui non potesse risponder altro che sì o no, incapace di ogni
menzogna.
E ciò che disse Salvatore il mio lettore può bene immaginare.
Raccontò, o ammise di aver raccontato durante la notte, una
parte di quella storia che io avevo già ricostruito: i suoi
vagabondaggi come fraticello, pastorello e pseudo apostolo;
e come ai tempi di fra Dolcino egli avesse incontrato Remigio
tra i dolciniani, e con lui si fosse salvato dopo la battaglia di
monte Rebello, riparando dopo varie vicende nel convento
di Casale.
In più aggiunse che l’eresiarca Dolcino, vicino alla sconfitta e
alla cattura, aveva affidato a Remigio alcune lettere, da portare
egli non sapeva dove o a chi.
E Remigio aveva sempre recato quelle lettere con sé, senza
osare recapitarle, e al suo arrivo all’abbazia, timoroso di
trattenerle ancora seco, ma non volendo distruggerle, le aveva
consegnate al bibliotecario, sì proprio a Malachia, perché le
nascondesse da qualche parte nei recessi dell’Edificio.
(U. Eco, Il nome della rosa)
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La Cronaca di Salimbene inizia così:
‘Durante il mio soggiorno nel convento dei Frati Minori di Parma,
quando già ero sacerdote e predicatore, si presentò un giovane del
luogo, di famiglia di basso rango, illetterato e laico, idiota e stolto,
di nome Gherardino Segarelli’.
E’ proprio un esordio fortemente programmatico.
Contiene in sostanza l’intera linea interpretativa che Salimbene
verrà poi svolgendo nella sua Cronaca.
Un giudizio netto e negativo precede tutta l’esposizione dei fatti.
Il tono è assertorio, e non vi è ombra di un atteggiamento
minimamente dubitativo. I dispregiativi ‘illetterato e laico, idiota
e stolto’ accompagnati al ‘famiglia di basso rango’ si contrappongono
alle qualifiche dello stesso Salimbene ‘sacerdote e predicatore’.
A parte il fatto che l’aggressivo ‘laico’ non può in nessun caso
venire proposto con valenze negative, le qualifiche del Salimbene
contrapposte ai dispregiativi del Segarelli servono per collocare
se stesso su un piano incomparabilmente più elevato e perciò
incontestabile.
Si tratta di una sottintesa intimidazione verso il lettore.
Da notare che all’incirca con gli stessi epiteti fu qualificato Valdo
all’inizio della sua predicazione.
Che l’aggettivo ‘laico’ venga qui utilizzato in senso spregiativo,
dimostra come i conventuali ritenessero improponibile che un
laico potesse parlare di Dio, di quel Dio che in sostanza pretendevano
di avere come in monopolio, come sequestrato da loro, e di cui
solo i chierici potevano parlare.
(Prosegue in Pagine di Storia)
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Bernardo Gui si pose al centro del grande tavolo di noce nella
sala del capitolo.
Accanto a lui un domenicano svolgeva le funzioni di notaio e
due prelati della legazione pontificia gli stavano a lato come
giudici. Il cellario era in piedi davanti al tavolo, tra due arcieri.
(…..) Bernardo Gui diede inizio all’interrogatorio.
– Chi sei tu?
chiese.
– Remigio da Varagine. Sono nato 52 anni fa e sono entrato ancora
fanciullo nel convento dei minori di Varagine.
– E come accade che ti trovi nell’ordine di san Benedetto?
– Anni fa, quando il pontefice emanò la bolla ‘Sancta Romana’,
siccome temevo di venir contagiato dall’eresia dei fratelli…pur
non avendo aderito alle loro proposizioni…pensai fosse più utile
alla mia anima peccatrice sottrarmi a un ambiente carico di
seduzioni e ottenni di essere ammesso tra i monaci di questa
abbazia, dove da più di otto anni servo come cellario.
– Ti sei sottratto alle seduzioni dell’eresia,
motteggiò Bernardo,
– Ovvero ti sei sottratto all’inchiesta di chi era preposto a scoprir
l’eresia e sradicarne la mala pianta, e i buoni monaci cluniacensi
han creduto di compiere un atto di carità accogliendo te e quelli
come te. Ma non basta cambiar saio per cancellare dall’anima la
turpitudine della depravazione eretica, e per questo noi siamo
ora qui a investigare cosa si aggiri per i recessi della tua anima
impenitente e cosa tu abbia fatto prima di pervenire in questo
santo luogo.
– La mia anima è innocente e non so cosa voi intendiate quando
parlate di depravazione eretica,
disse cautamente il cellario.
– Lo vedete?
esclamò Bernardo rivolgendosi agli altri giudici.
– Tutti così costoro! Quando uno di loro viene arrestato, si presenta
a giudizio come se la sua coscienza fosse tranquilla e senza rimorsi.
E non sanno che questo è il segno più evidente della loro colpa,
perché il giusto, al processo, si presenta inquieto! Domandategli
se conosce la causa per cui avevo predisposto il suo arresto. La
conosci, Remigio?
– Signore,
rispose il cellario,
– Sarei lieto di apprenderla dalla vostra bocca.
Fui sorpreso perché mi parve che il cellario rispondesse alle
domande di rito con parole altrettanto rituali, come se ben
conoscesse le regole dell’istruttoria e i suoi tranelli, e da tempo
fosse stato istruito ad affrontare un simile evento.
– Ecco,
esclamava intanto Bernardo,
– La tipica risposta dell’eretico impenitente! Percorrono sentieri da
volpi ed è molto difficile coglierli in fallo perché la loro comunità
ammette il loro diritto a mentire per evitare la dovuta punizione.
Essi ricorrono a risposte tortuose tentando di trarre in inganno
l’inquisitore, che già deve sopportare il contatto con gente tanto
spregevole. Dunque fra Remigio tu non hai avuto mai nulla a
che vedere coi detti fraticelli della povera vita, o beghini?
– Io ho vissuto le vicende dei minori, quando a lungo si discuse
sulla povertà, ma non sono mai appartenuto alla setta dei
beghini.
– Vedete?
disse Bernardo.
– Nega di essere stato beghino perché i beghini, pur partecipando
della stessa eresia dei fraticelli, considerano questi ultimi un
ramo secco dell’ordine francescano e si ritengono più puri e
perfetti di loro.
Ma molti dei comportamenti degli uni sono comuni agli altri.
Puoi negare, Remigio, di essere stato visto in chiesa rattrappito
col viso verso il muro, o prosternato con la testa coperta dal
cappuccio, anziché inginocchiato a mani giunte come gli altri
uomini?
– Anche nell’ordine di san Benedetto ci si prosterna a terra, nei
momenti dovuti…
– Io non chiedo cosa hai fatto nei momenti dovuti, ma in quelli
non dovuti. Quindi non neghi di aver assunto l’una o l’altra
postura, tipiche dei beghini! Ma tu non sei beghino, hai detto…
E allora dimmi: in che cosa credi?
– Signore, credo in tutto ciò a cui crede un buon cristiano…
….Io credo a tutto ciò che voi e gli altri buoni dottori mi ordinate di
credere….
(Umberto Eco, Il nome della rosa)
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