Prosegue in:
Nato a Boston nel 1823, educato ad Harvard, Francis Parkman
viaggiò prima in Europa poi nelle terre selvagge dell’occidente
americano, attorno al 1846.
Gli aggettivi che gli nascono dall’incontro con gl’Indiani sono
carichi di orrore e di disprezzo, ma a poco a poco, vivendo fra
di loro, quella sua visione gotica si illimpidisce e gli riesce di
tracciarne certi profili abbastanza schietti.
Fra i ritratti di ‘The Oregon Trail’ è quello del giovane cacciatore
che ha appena ucciso un cervo, dando prova di raggiunta virili-
tà, e che tuttavia sa, nonostante l’entusiasmo, mantenere un as-
petto apatico.
Parkman s’accorge che questa bravura nasce da una forza che
ferma l’espressione ma non sciupa l’empito, diversissima dal
‘self-control’ inglese che vieta qualsiasi sentimento di spiccare.
La gran forza che conferisce a Parkman l’oggettività è la forma
della sua prosa; eccola in pieno nella scena del passaggio d’una
tribù attraverso giogaie dove divampa un incendio di foreste.
Eravamo al versante orientale del monte e tosto giungemmo
ad una gola aspra che portava ad un declivio scosceso.
Tutta la torma si precipitò compatta colmando il passaggio
roccioso come un ruscello turbolento. Le montagne davanti
a noi ardevano da settimane.
La vista era oscurata da un ampio cupo mare di fumo, mentre
dalle due parti s’alzavano alte scogliere che reggevano in cima
le loro creste di pini ed i pinnacoli aguzzi e le frante catene del-
le montagne retrostanti si ravvisarono appena come attraverso
un velo.
Il metaforeggiatore non si nota quasi: bisogna porre una certa
attenzione alla pagina di Parkman per vederne il tessuto.
Egli usa l’artificio di presentarsi come chi dia un piatto raggua-
glio, ma in filigrana si scorge l’incastellatura dei tre piani so-
vrapposti: gl’indiani, il mare di fumo, le sagome delle montagne
in una linea accidentale, come attraverso un velo.
La descrizione continua determinando il centro animato dopo
il giro dell’orizzonte, secondo le norme della più complessa pros-
pettiva:
La scena era in se stessa grandiosa e imponente ma con la molti-
tudine selvaggia, i guerrieri armati, i bambini ignudi, le fanciulle
dall’abbigliamento così gaio che impetuosamente precipitavano
dalle alture, avrebbe formato un nobile tema per il pittore.
Quando il libro uscì, nel 1847, tutto questo mondo ancora pitto-
resco era già per crollare: nel 1872 Parkman guarderà indietro,
ad un passato del tutto irredimibile.
Sapevamo che c’era più o meno dell’oro nelle costure di quelle
montagne mai calpestate; ma non prevedemmo che avrebbe e-
dificato città nella desolazione e impiantato alberghi e case da
gioco nei luoghi frequentati dall’orso bruno. Sapevamo che po-
chi reietti fanatici stavano avanzando a tentoni attraverso le
pianure per cercare un asilo dalle persecuzioni dei Gentili, ma
non immaginavamo che le orde poligame dei Mormoni allevas-
sero una Gerusalemme sciamante nel seno della solitudine.
(prosegue…)
(E. Zolla, I letterati e lo sciamano)