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Il mio ultimo libro:
Edgar Allan Poe scrisse con animo triviale ‘The Journal of
Julius Rodman, Being an Account of the First Passage Across
the Rocky Mountains of North America Ever Achieved by
Civilized’, narrando una missione esplorativa nelle regioni
incognite ‘infestate di tribù…che avevano ogni motivo di cre-
dere feroci e insidiose’.
I Sioux, secondo le aspettative, sono ‘una razza brutta, mal
fatta… d’occhio strabuzzante e smorto’: quasi ritornano in vi-
ta le dottrine di De Pauw.
Il loro corpo è cosparso di grasso e carbone, indossano tuniche
di pelli animali, sono ravvolti in mantelli tempestati di punte
di porcospino vibranti e sonore, istoriati di emblemi, con scalpi
alla costura dei gambali d’antilope.
Essi attaccano la barca della spedizione, ma così scioccamente
che gli esploratori fuggono lasciandoli buffamente trasecolati.
Le trattative che seguono all’attacco fallito li mostrano ancor più
selvaggi e grotteschi: domandano se il cannoncino di bordo non
sia una locusta gigante.
Un colpo di cannone li disperde e gli esploratori spiegano ad
un prigioniero ferito che il cannoncino era indignato a sentirsi
chiamare locusta.
Una parte della spedizione viene in seguito catturata, ma rie-
sce a fuggire grazie ad un’irruzione nel campo indiano di anti-
lopi in panico.
Altre tribù compaiono via via che il viaggio procede, gli Assi-
niboin attaccano per vedere da vicino il servo negro e ne resta-
no esterefatti, sul punto di nominarlo re.
L’indiano è utilizzato da Poe per suscitare risate della più rac-
capricciante volgarità nel suo pubblico, né nell’intera sua opera
si riesce a cogliere un indizio d’altro e diverso interesse.
Si potrebbe forse credere che lo sterminio degl’Indiani compiuto
alla ‘frontiera’ fosse opera d’un’umanità senza ideologia e nem-
meno cultura, puro fatto di natura, come amava asserire il Turner.
Torna nella ‘teoria della frontiera’ quell’errore della fantasia che
desidera figurarsi un uomo esente dalla storia, rozzo e pratico,
abile nell’afferrare, rubare…e manipolare i beni materiali, inven-
tivo spontaneo e intollerante dei pesi d’una vita civile.
Se costui sterminò l’Indiano, la cultura illuminata e progressista
ha una responsabilità diminuita, l’atto tremendo fu opera di una
forza autoctona e scatenata, della genia di cui parla il quacchero
di Nick of the Woods, il romanzo di Robert Bird: ‘che può rite-
nere legittimo, come a molti pare, sparare ad un Indiano errante
quanto ad un orso furtivo’.
Ma qual forza umana è mai priva di idee, al limite, ignara d’ogni
linguaggio e tradizione?
Basterebbero i nomi delle cittadine di pionieri, la loro architettu-
ra ancora neoclassica al tempo della guerra civile, il numero di
colleges disseminati alla frontiera.
Tra gli esploratori ottocenteschi Hanry Marie Brackenridge stam-
pò nel 1814 ‘Views of Lousiana’, estratti del diario di una spedi-
zione fatta nel 1811 nel territorio degli Arikara.
Il fetore dei villaggi è ammorbante, la religione della plebe, bar-
bare sono le torture che s’infliggono gl’indigeni. Brackenridge
ammira tuttavia l’esibizione di scudi, turcassi, stoffe scarlatte,
manti di pelli di bisonte tutti istoriati a comporre trofei, e nota
con arguzia la scaltrezza di un capo che ama un cavallo e, non
desiderando regararlo, e non potendo rifiutare di regararlo,
che sarebbe prova di scarsa magnanimità, indegna di un grande,
annuncia di averlo consacrato alla propria custodia soprannatu-
rale.
Nè il padre gesuita Pierre-Jean De Smert ravviserà altro in loro
che motivo di riso e compatimento: non è un buffo dogma l’a-
morevole protezione che accordavano ai castori, loro parenti?
Non è ripugnante la loro abitudine di sacrificare le cose più ca-
re, le loro stesse membra agli dèi?
(E. Zolla, I letterati e lo sciamano)