CRONACA NERA: IL PROCESSO DELLA DOMENICA (2)

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Rimpiattino, rimpiattarello, nascondino, nasconderello.

Piatta-cu-cu o ripostiglio, lo chiamavano i bambini all’Incisa.

Basta essere in due a giocarci, ma è meglio essere in tanti.

Quella domenica pomeriggio dovevano esserci Narciso Biagi, Alpinolo, Cecchino…,

la Beppa di Baracchino e altri dell’età di Amerigo o poco più.

Uno conta e non guarda, finché gli altri sono nascosti e lui poi va a cercarli.

A chi toccasse, Amerigo non sapeva bene. Aveva capito però che c’erano le

sue sorelle maggiori – lui aveva 9 anni -, la Beppa e la Lina già nascoste da

qualche parte nello stanzino della bottega. Doveva entrare anche lui, presto,

se voleva giocare.

Voleva o non voleva?

L’importante è un buon nascondiglio. A volte, però, uno ci sta rimpiattato

così bene che non guarda, non può neppure capire cosa succede fuori, intorno.

Se chi lo deve scoprire stia avvicinandosi senza far rumore e lo stia per pigliare.

O se invece sia proprio il momento giusto per schizzar via. Il difficile è far

capolino. Bisogna vedere, senza essere visti. Qualcuno, talvolta non s’azzarda mai

ad uscirne; sta rintanato come se fose al sicuro.

E invece lo sa, si sa che non è vero.

Più a lungo rimane fermo, al coperto, col cuore che batte forte, più aumentano le

probabilità di essere acchiappato. Ma a comportarsi così, di solito, sono quelli che

non sanno correre svelti, i più paurosi; oppure i più piccini. A volte ci sono i grandi

che li aiutano.

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Se c’è chi conosce meglio degli altri il posto dove si gioca, allora lui è avvantaggiato,

perché può trovare dei ripostigli che nessuno si immaginerebbe neppure.

Carlino, detto il Pelato, conosceva bene la bottega. Per forza; era lì che lavorava,

al n. 43 della strada maestra. Al 45 abitava Amerigo, che quel pomeriggio entrò nel

fondo, come tante altre volte, per giocare.

…E io andai in bottega con Carlino, Carlino chiuse l’uscio di fuori con il catenaccio

di dentro, e chiuse anche la finestrina con le imposte di dentro che guarda il

vicolo stradale. Quando fui in bottega così al bujo come di sera, Carlino mi

condusse nello sferrato accanto al muro dalla parte della finestra, ci aveva fatto

una buca, ma non so quando, mi disse – va qui dentro – ed io ci andai, e lui mi

accomodò disteso voltato in giù con la bocca e con la pancia e mi disse – ora ti

copro col grembiule -, ma invece non mi coprì col grembiule, ma mi vuotò

addosso un corbello di rena, ma io alzai la testa e andai per scappare, e gridai,

ma lui mi prese con una mano il viso coprendomi la bocca, perché non gridassi

e con l’altra mano mi prese il collo per strozzarmi, e mi voleva strozzare, ma

io continuai a gridare, e Carlino allora mi trascinò nello stanzino, che è un

sotto scala e mi teneva con tutte e due le mani per il collo e da ultimo non potevo

più respirare, né vociare, ed ero in terra perché mi ci aveva buttato Carlino e

mi ammazzava. Io lo mordevo nelle dita delle mani, ma non mi potevo più

difendere, perché ormai ero in terra, ma vennero a liberarmi di fuori la Gente,

e sentivo rompere la porta del corridojo, e l’aprirono, e vennero dentro diversi

e c’era anche mio padre, ma allora Carlino mi lasciò andare, e aperta la porta

fuggì in casa, e me mi portarono via, ed ero tutto sangue nella faccia, perché

Carlino mi aveva sgraffiato nel viso.

(P. Guarnieri)

 

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CRONACA NERA: IL PROCESSO DELLA DOMENICA

Un altro concittadino inquisito in:

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All’ex monastero delle Murate, a Firenze, la mattina di giovedì 10 ottobre 1895,

dopo le undici, due guardie si fecero aprire il pesante portone ed entrarono nel

carcere. Quando ne riuscirono, poco dopo, in mezzo a loro cammiava ‘un ometto

di bassa statura’, vestito di scuro, che si asciugava continuamente con un fazzoletto

la testa calva.

Aveva appena finito di pagare, come si dice, il suo debito alla giustizia.

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Vent’anni e più di casa di forza: meno di due scontati nell’ergastolo fiorentino,

quasi dodici nella fortezza di Volterra e gli ultimi sette galeotto all’isola di Capraia,

da cui era ritornato allora.

Ormai, dunque, Callisto Grandi era libero.

Aeva 44 anni, la madre ancora viva al paese, fratelli, sorelle e molti nipotini, alcuni

dei quali non l’avevano mai conosciuto. In tasca possedeva 700 lire che s’era guadagnato

in galera facendo il fabbro; ma per sé ne avrebbe tenute solo 38. Il resto del gruzzolo

voleva donarlo – scrisse il cronista de ‘La Nazione’ per i suoi lettori – a sette piccole

orfane di un fratello; che in realtà morto non era, né aveva tante figlie. Oppure li

aveva già spediti a delle zie; come appreso quanti seguivano le notizie sul ‘Fieramosca’

– Giornale del popolo -.

In ogni caso, l’ex detenuto sperava di poter trovare presto un impiego, perché di

lavorare non aveva paura ed un mestiere lo sapeva. S’era rivolto già, per questo,

alla società di patronato per i liberati del carcere.

Dove e quando si sarebbe sistemato, però, a quel punto era difficile dirlo.

La questura si stava interessando affinché venisse ammesso, almeno per un po’,

alla Pia Casa di Lavoro. Ma il direttore Carlo Peri quella mattina non lo ricevette

neppure, e perciò gli agenti Rosso e Ridolfi, che l’avevano accompagnato all’ospizio

di Montedomini, dovettero riportarlo via.

Strada facendo, da via Ghibelina a via Malcontenti, nel quartiere di Santa Croce,

avevano incontrato un tale detto Gobbino dell’Incisa, facchino di professione.

Si guardarono.

Si riconobbero.

Il grandi fece cenno al suo compaesano di stare zitto, ma costui prese subito a

indicarlo ai passanti. In breve tempo si sparse la voce. E il non più prigioniero,

sempre accompagnato dalle due guardie e dal brigadiere Miniati, fu seguito

per tutte le strade da moltissima gente, la maggior parte ragazzi che, – aggiungeva

il cronista de ‘La Nazione’, – lo guardavano terrorizzati.

Fu questa la sua prima passeggiata.

Presto conclusa, verso mezzogiorno, in via dei Ginori. Alla questura centrale, lo

presero e lo rinchiusero in una camera di sicurezza.

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– Dove mai dovrà andare questo disgraziato?

Si domandava l’anonimo reporter del quotidiano fiorentino.

Chi aveva scontato la pena sentenziata dal tribunale, aveva poi il diritto di usufruire

della propria libertà; ed il Grandi lo rivendicava.

Ma il fatto era che al suo borgo d’origine – Incisa nella Val d’Arno – proprio non

si voleva ch’egli tornasse, e c’era dunque una grande agitazione.

Lo stesso consiglio municipale riteneva opportuno che costui venisse per sempre

allontanato da quei luoghi in cui era ancora tristissimo il ricordo del truce misfatto

e delle sue povere vittime.

A portavoce della generale inquietudine s’era fatto sentire, già da una settimana

innanzi, il quotidiano dei moderati toscani. Con toni veementi, ‘La Nazione’ aveva

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sollecitato le autorità cittadine affinché provvedessero, in qualche modo. Il ritorno

di questa belva umana all’Incisa non è opportuno per qualsiasi rispetto; per

tutti esso costituiva una causa di spavento, e, specialmente, nei padri e nelle madri.

Che sarebbe accaduto se costui fosse stato preso di nuovo dalla mania di uccidere

i bambini?

Ed era una vera e propria mania, – diagnosticò il giornalista, – perché Carlino Grandi…

li attirava in agguato con molta industria, li uccideva e li seppelliva sotto lo sterrato

della sua bottega.

Cinque ne aveva strangolati, mal ricordò l’articolo del 4 ottobre 1894, e fu scoperto

mentre aveva già quasi finito di uccidere il sesto.

– E’ vero che ho ammazzato quattro ragazzi, – dichiarò l’omicida intervistato da

‘La Nazione’, – schiacciando loro la testa con una ruota….quindi gettando loro

addosso un palmo di terra. E al cronista cui sembrava pentito, il grandi aggiunse:

Ero anche minchione…se li sotterravo a tre metri di profondità non li trovavano

davvero!

L’ultimo ragazzo che credo ora faccia il prete o il frate non lo presi bene con la

ruota; questa mi sgusciò di mano e lo ferii alla guancia. Mentre stavo per finirlo,

una donna, anzi un donnone, vide tutto da un buco della porta della mia bottega

e così…

L’assassino fu scoperto, il bambino salvato.

(P. Guarnieri)

 

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PARENTESI ALLE NUVOLE (5)

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Eretici, gnostici, inquisitori, e anche un apostata in:

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Il buco del’ozono, fu scoperto nel 1985 e stupì la comunità scientifica.

Stupì il fatto che si sviluppasse a quote basse, comprese tra 12 e 22

chilometri, ben al di sotto dei 25 chilometri prevedibili in base agli

studi di Molina e Rowland del 1974. E la ragione fu chiara dopo

alcuni anni: i processi di distruzione dell’ozono stratosferico erano

più complessi di quanto si potesse aspettare.

Il buco dell’ozono si è formato sopra il Polo Sud e non ha interessato

tutto il pianeta perché le reazioni che attivano il cloro, e lo rendono

un distruttore dell’ozono, avvengono soltanto in presenza di luce,

sulla superficie dei microcristalli di ghiaccio e dell’acido nitrico congelato

che costituiscono le nuvole stratosferiche.

Queste ultime si formano soltanto a temperature, inferiori agli 80 gradi

sotto lo zero, nelle zone più fredde della stratosfera: sopra l’Antartide e,

in misura minore, sopra il Polo Nord.

Senza questi nubi, l’ozono si salverebbe.

Preso da solo, l’ossido di cloro prodotto dai Cfc ne catalizza la distruzione,

ma se si combina con il biossido di azoto, un’altro catalizzatore nella

stratosfera, la molecola che ne risulta non reagisce con l’ozono.

Come clan mafiosi contrapposti, quello degli ossidi d’azoto sono entrambi

pericolosi per l’ozono, ma quando si incontrano si annullano a vicenda e

l’ozono riesce a scamparla.

Sui microcristalli delle nubi polari, però, i clan si separano.

Alla distruzione dell’ozono, tuttavia, sono necessari anche i raggi ultravioletti

del Sole, e infatti il buco si espande tra la fine dell’inverno e l’inizio della

primavera polare, quando la temperatura è abbastanza bassa perché si

formino le particelle di ghiaccio e, al contempo, c’è abbastanza Sole da

attivare le reazioni fotochimiche di distruzione.

Forse stupisce che modeste emissioni di Cfc bastino a produrre un fenomeno

di portata talmente ampia. Bisogna però ricordare che il cloro agisce

semplicemente da catalizzatore e rimane inalterato: una singola molecola

di cloro può portare alla distruzione di migliaia di molecole di ozono e

rimanere comunque nella stratosfera.

Quando il cloro raddoppia, inoltre la quantità di ozono distrutto quadruplica:

negli anni Ottanta, l’ossido di cloro in stratosfera aumentava del 5% all’anno,

l’ozono distrutto del 10%.

Quando Molina e Rowland sostennero che il cloro dei Cfc catalizzava la

distruzione dell’ozono, i produttori dichiararono che era un’ipotesi fra tante,

da non prendere sul serio. Con il tempo fu sempre più evidente che la

comunità scientifica aveva ragione: le concentrazioni di Cfc misurate nella

stratosfera concordavano con i modelli teorici.

Bisognerà aspettare almeno cinquant’anni prima che l’ozonosfera si ricostituisca

interamente. Gli atomi di cloro che sono stati prodotti finora, infatti, rimarranno

ancora in circolazione sino a quando saranno modificati dalla luce solare

per formare un gas, l’acido cloridrico, che è solubile nella pioggia e viene lavato

via …dalle nuvole….

(P.J. Crutzen)

 

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NUVOLE (4)

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Eretici e non solo in:

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Per quello che ci riguarda limiteremo il nostro interesse, come il celebre

Luke Howard, ad un solo aspetto dell’evoluzione ….della metereologia

quale specchio del sapere gnostico e non solo: la nefologia, ovvero lo

studio delle nuvole. 

La pima fase importante della nefologia occidentale ebbe inizio con 

Talete di Mileto, filosofo presocratico e uno dei ‘sette sapienti’, e si

concluse a metà del XVII secolo nel momento in cui il francese Descartes

liberò la fisica dai lacci di un aristotelismo ormai sterile. Da quel

momento essa si sviluppò in modo discontinuo, sulla scia della 

scoperta delle leggi fondamentali della fisica.

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Lo stesso Howard prese interesse agli aspetti poco noti della storia 

della nefologia, e quanto mi accingo a esporre doveva essergli in gran

parte familiare, anche se solo in una fase relativamente tardiva della 

sua carriera scientifica – una fase in cui la lettura e i contatti epistolari

sostituirono in larga misura la ricerca meteorologica originale.

L’evoluzione della nefologia lo appassionò tanto da dedicarle gran 

parte del tempo trascorso nel suo studio, le cui pareti erano tappezzate

di vecchi volumi di argomento meteorologico. 

Lì lesse di Talete (625-545 a.C.), del quale si suole dire che sia stato il 

primo ‘scienziato’ dell’Occidente. Talete si interessò soprattutto di 

matematica e astronomia e acquisì grande fama dalla riuscita dell’eclissi

solare del 585 a.C., ma fu anche notevole meteorologo ante litteram. 

Al pari dei cinesi egli nutriva un rispetto quasi mistico per l’acqua in

quanto fonte e sostegno della vita sulla terra. Quel rispetto, insieme alla

tradizione omerica che il mondo galleggiasse su un oceano cosmico, lo

indussero a immaginare un universo basato sull’acqua, nutrito e 

plasmato dalle sue proprietà vivificanti. 

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Le sue idee circa la mobilità di quel ‘principio materiale’ che si alzava e

ricadeva ciclicamente tra cielo e terra, comprendevano quella che 

possiamo considerare una delle più antiche e soddisfacenti descrizioni 

del ciclo dell’acqua, anche se sembra improbabile che Talete abbia

intuito i principi dell’evaporazione, della condensazione e della 

formazione delle nubi. Tuttavia, sostenendo che nella natura tutto

derivi dalla modificazione dell’acqua il pensatore milesio espresse una

verità fondamentale sull’esistenza umana: cioè che gli uomini vivono

non tanto sulla terraferma quanto sul fondo di quella sorta di oceano

che è l’atmosfera. E anche se sostenne che l’aria fosse una delle 

metamorfosi del principio cosmico umido, l’importanza che attribuì 

allo studio dello strato che ci sovrasta fu il primo vero passo verso

la nascita di un’immaginazione meteorologica. 

La meteorologia come branca del sapere autonoma e definita,

avente per oggetto l’atmosfera e tutto quello che contiene, era  

stata ufficialmente presentata al pensiero occidentale. La fama di 

sapiente procurò presto a Talete degli allievi, il più celebre dei

quali fu Anassimandro, anch’egli milesio. Questi compose uno

dei più antichi trattati scientifici, nel quale fu il primo a suggerire

che i tuoni fossero causati dallo sfregamento delle nubi le une 

contro le altre, e a parlare del vento come di un ‘movimento dell’aria’.

Sebbene le sue ipotesi meteorologiche fossero subordinate alla

sua dottrina sull’origine infinita e indefinita della materia, si tratta

pur sempre di acute intuizioni circa specifici fenomeni naturali, con

un intrinsico valore intellettuale. L’idea che le masse d’aria potessero

essere spostate, avvicinate e allontanate reciprocamente da forze

sconosciute è una ricostruzione abbastanza felice, anche se parziale

e sommaria, dell’origine del vento, dei moti convettivi verso l’alto

o il basso indotti dall’aumento e dalla diminuzione della temperatura

del suolo fino alle grandi correnti atmosferiche, dalle zone ad alta

pressione a quelle a bassa pressione.

(R. Hamblyn)

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L’AVVENTURA DELLA BICICLETTA (17)

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Eretici, inquisitori, Imperatori e altro in:

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Mi sveglio presto, anche perché il reggimento può arrivare da un momento

all’altro.

Mi dispiace lasciare questo letto e questa stanza con mille gingilli che rivelano

la mano della bella signorina.

Non è un sogno, è proprio vero, ho dormito in un letto!

Il rancio…e ancora partenza: non ci fermiamo più qui. I soldati sono stanchissimi

sotto il peso dei pesanti zaini.

Camminiamo barcollando come ubriachi! E’ una cosa inumana, nonostante le

fermate frequenti è difficile continuare. Gli ufficiali strillano come aquile per

mantenere un po’ di ordine nelle file.

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A notte fonda arriviamo, Dio sa come, a Pescul, villaggio con poche case sparse.

Il comando di battaglione di cui faccio pare si installa nella sagrestia della chiesetta;

noi ciclisti ci corichiamo per terra senza paglia e con una sola coperta.

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Sono straordinari questi paesaggi.

Siamo nel cuore delle Dolomiti.

Ieri sera, prima di coricarmi, stanco morto, mi sono gustato il tramonto. Il sole

morente sfiorava le cime del Civetta e del Pelmo incendiando le rocce di rosa.

La valle appariva di un grigio piombo magnificamente intonato. Non sono un

artista, ma questi spettacoli della natura così belli mi sconvolgono e mi fanno

provare uno straordinario godimento. Fra qualche giorno invece saremo buttati

brutalmente in una fornace di morte! Come figlio di questo popolo non debbo

tirarmi indietro. La patria fa appello ai suoi figli!

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E’ bene? E’ male?

Non si discute, si ubbidisce.

Sono pronto! L’Italia avanti tutta. Qui sono nato.

Parlo la sua lingua. Qui sono i miei morti. Qui vivono i miei cari.

Sono stato educato a questo dovere.

Non sarò mai un traditore!

Ci spostiamo fino a Selva di Cadore. Siamo a pochi passi dal confine con l’Austria.

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Nella notte un sinistro chiarore che brucia! Faccio servizio di collegamento tra Selva

e monte Fernazza.

Abbiamo già passato il confine occupiamo il primo paesino. Subito di là è Santa Lucia.

Non abbiamo trovato nessuna resistenza. E’ notte e piove. In fondo alla piazzetta irregolare

sorge la chiesetta. E’ là che andiamo a picchiare. Si ha un bel tempestare di colpi.

La porta della Canonica non si apre. Il Maggiore, dall’alto del suo cavallo, dice:

Bene, se tra tre minuti non aprite sfondo la porta.

Parole magiche! Immediatamente si ode il cigolio di una finestra e una vocina timida

chiedere:

Chi è?

Buona sera. Con chi ho l’onore di parlare?

Con il parroco di Santa Lucia.

Bene reverendo. Abbia la bontà di aprirci. Siamo tutti bagnati fradici.

Poco dopo si presenta alla porta un vecchio prete, basso e grasso, con una lanterna

accesa in mano e tremante di paura.

Ho 500 soldati, dice il Maggiore.

Faccia aprire dai proprietari tutti i fienili perché dobbiamo passare la notte qui.

Io non ho questa autorità, azzarda il prete.

Ebbene avete dieci minuti di tempo, dopo entreremo senza permesso. E riguardo

all’autorità dovete ubbedire alle Forze armate Italiane. Qui l’Austria non comanda

più.

La lanterna del parroco trema ancora più forte. Lo vediamo correre da una casa all’

altra e parlottare con i paesani; qualche finestra si chiude e qualche lume si vede

brillare. Dopo poco tempo, i soldati sono tutti nei fienili che sono stati aperti di

fretta. Noi ci ripariamo nella cucina dell’albergo fatto aprire dal parroco.

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Siamo bagnati come pulcini.

La vecchia padrona dell’albergo trova mille difficoltà per accenderci un po’ di fuoco.

Questi sarebbero i fratelli che veniamo a liberare dal giogo austriaco!

Il nostro aiutante maggiore rassicura la vecchia:

Fate pure del fuoco a questi soldati, vi sarà pagato.

Una bella fiammata e poco dopo i nostri abiti cominciano a fumare come camini…

Brava vecchietta! Ci saluti Cecco Peppe!

Sopra un tavolo scorgo una grande tazza colma di latte appena munto e domando:

E’ da vendere?

No, perché non se ne trova!

Va bene.

Ma quando la vecchietta volta l’occhio mi attacco alla tazza e la vuoto d’un fiato.

Mia cara italiana-austriaca, piglia su! Siamo in guerra e in guerra c’è tutto un

altro concetto di proprietà!

Il tempo è proprio nemico in questi primi giorni di guerra. Piove sempre e ne viene

tanta che sembra un diluvio. Anche il cielo ci è nemico. Con questo tempo ci mettiamo

in marcia verso la montagna che ci sovrasta, senza vedere neanche una ragazza di S.

Lucia, e su per un piccolo sentiero, in fila indiana, attacchiamo il passo di Giau.

Ho lasciato la bicicletta e divento alpino sotto il peso dello zaino e delle coperte,

pesi che non ho portato mai. La fatica è tremenda, non solo per me ma per tutti,

anche per gli ufficiali che sono senza peso sulle spalle.

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Nessuno di noi conosceva una montagna così impervia.

Arriviamo nelle gole del Nuvolao dove è anche accampata la compagnia degli

Alpini.

Qui tutto è sparito.

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Non ci sono più né case, né campi, né strade, né alberi. Ovunque roccia e picchi

a precipizio che, al solo affacciarsi, fa rabbrividire.

Lontano si sente rombare il cannone. Questo è il preludio.

La sinfonia a piena orchestra non tarderà.

(Enrico Constantini, Dalle Dolomiti a Bligny)

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L’AVVENTURA DELLA BICICLETTA (16)

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Pacifisti, eretici e altro in:

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Il 17 settembre 1917 Costantini da ciclista porta-ordini diventò portalettere definito

‘un posto da imboscati’ con sede a Digonera. Qui incontrò un mito per tanti giovani,

il ten col. Peppino Garibaldi.

Con l’arrivo della neve la bicicletta fu appesa al chiodo.

Ritornò la tristezza e il timore di perdere il nuovo servizio.

Per fortuna i compagni lo stimavano e assieme percorrevano otto volte al giorno

la strada tra Digonera e Caprile per prendere la posta militare. Lungo la strada  si

fermava da Maria, ‘una bella e simpatica ragazza’. ‘Con lei mio Dio, come sono

felice. Ho il morale alle stelle’.

L’inverno 1916-17 è ricordato per nevicate e valanghe.

Le feste di Natale portarono una seconda licenza.

Enrico arrivò a Osimo Stazione alle 2,00 di notte. Non trovò corriera, ma la strada

bianca di neve. Dopo sette faticosi chilometri, finalmente a casa alle 4,00.

Festa per tutti.

Nei giorni seguenti qualche sbronza con gli amici.

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Il 21 gennaio 1917, dopo 19 mesi di guerra, si festeggiò la conquista del monte Sief.

Continuavano le nevicate.

Le valanghe trascinarono a valle baracche, alberi, rifugi, siepi di reticolati, cannoni

e soldati. Tra loro, sempre più stanchi, si diffuse la sfiducia, dubbi e sospetti.

All’inizio tutti erano convinti di una guerra breve, avventurosa e facile.

Ma Enrico non temeva la propaganda disfattista. Rimase persuaso della necessità

di questa quarta guerra d’indipendenza per fare più grande l’Italia.

Il 28 giugno la brigata Torino fu trasferita sul fronte dell’Isonzo.

Costantini rimase a Digonera passando alla brigata Alpi per continuare il servizio

di portalettere.

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Il 30 ottobre arrivò la notizia della batosta di Caporetto. Il morale dei soldati a brandelli.

Il  2 novembre la brigata Alpi abbandonò le posizioni dolomitiche per raggiungere il

nuovo fronte del Piave-Monte Grappa.

Enrico salutò Maria.

Fu uno strazio per entrambi.

Prima di partire con tre compagni si rifornì nel magazzino. Sulla riva destra del Piave

si scavarono trincee giorno e notte. S’avvertiva uno spirito nuovo. Ora si combatteva

per difendersi, non per conquistare.

(E. Costantini, Dalle Dolomiti a Bligny)

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VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): IL JAZZ (Django Reinhardt) (14)

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Streghe, eretici, roghi e funerali in:

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…Quando finalmente, nel novembre 1946, partì alla volta degli Stati Uniti, chiamatovi per

esibirsi anzitutto assieme a Duke Ellington, si mise in viaggio, com’era suo costume, all’

improvviso, senza neppure una piccola valigia, e persino senza chitarra.

I fabbricanti di strumenti americani, così pensava, si sarebbero contesi l’onore di

regalargliene una.

Si illudeva.

Quando esordì in un teatro di Cleveland, ebbe persino l’amara sorprese di scoprire che

in cartellone non c’era neppure il suo nome, solo quello di Ellington: qualcuno poi

spiegherà che l’impresario, informato di certe sue abitudini, non aveva voluto rischiare

annunciando una vedette che avrebbe anche potuto non presentarsi. Tuttavia Django

comparve puntualmente e seguì l’orchestra ellingtoniana a Chicago e in altre città, per

giungere infine alla Carnegie Hall di New York, dove si esibì il 19 e 20 novembre.

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Il secondo giorno, ad ogni modo, non arrivò in teatro prima delle undici di sera,

quando già Ellington aveva annunziato con rammarico che il chitarrista non si era

ancora visto e che si sarebbe quindi dovuto far senza di lui.

Fu applaudito con calore, ma non persuase affatto i critici, che non nascosero la

delusione.

Qualcuno di loro avanzò l’ipotesi che Django non si fosse ancora abituato alla

chitarra elettrica da lui adottata di recente.

Le cose non migliorarono di molto quando poté prodursi per un paio di settimane al

Café Society Uptown: quando quella scrittura fu terminata, nessuno si fece avanti

per proporne un’altra, come si sperava, così che il chitarrista, deluso, dovette risolversi

a tornare in Francia. Quando reincontrò gli amici, dichiarò che la cosa migliore che

avesse ascoltato in America era la voce di Frank Sinatra.

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Non la raccontava giusta.

Aveva sentito anche il nuovo bop e ne era rimasto affascinato e sconcertato a un tempo.

Anche se non lo ammise mai, dovette avvertire che il nuovo jazz lo aveva messo in

crisi. Certo è che dopo di allora la sua attività divenne più intermittente e che solo

raramente si poté ritrovare nella sua musica l’entusiasmo, il fuoco di un tempo.

Ci furono varie riunioni con Grappelli, con cui fu ricostituito per diverse occasioni

il quintetto a corde, e ci furono altre scritture importanti in locali parigini e poi

altrove, e anche in Germania e in Italia, i paesi ex nemici, e quindi ancora in Inghilterra.

(A.Polillo, Jazz)

 

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IL RACCONTO DELLE CUCINE: IL GIORNO DOPO LA SACRA RICORRENZA (una balena racconta) (21)

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Precedente capitolo (..per le balene…):

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Pagine di storia in:

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(Colgo l’occasione, per porre l’attenzione al modesto contributo fornito per

una battaglia, non dico vinta, ma sicuramente in avanzato stato di allerta,

che abbiamo contribuito a sensibilizzare grazie e soprattutto ai ‘valorosi

collaboratori’ …di Terra (in):

giappone-indietro-tutta-le-baleniere-fanno-rientro ;

… quindi ripropongo i 20 capitoli dedicati all’argomento scritti

nel Dicembre scorso. Vi sono importanti e valide argomentazioni a sostegno

di una giusta causa che ho evidenziato in aspetti bibliografici di sicuro

interesse. Buona lettura. )


Quanto alla Germania essa ha la scusa di essere entrata da poco nell’agone

baleniero; però si uniforma alle regole e promette di aderire alla convenzione.

La funzione del controllore non è di facile esercizio.

Egli deve verificare che il primo colpo di cannone venga sparato non prima

delle zero dell’otto dicembre e l’ultimo non dopo le ventiquattro del 15 marzo;

che non vengano uccise balene al di sotto di una certa misura per ogni famiglia,

oppure in stato di maternità, che nulla di ciò che può essere convertito in olio

venga gettato in mare, e così via. C’è tutta una casistica che egli ha in capo, e

quando gli viene un dubbio va a consultare i testi societari nella sua cabina.

Quelli sono i momenti in cui si froda la dogana.

A bordo di una nave-fattoria tutti sono cointestatari, perciò la notizia che il

controllore è andato giù, o sta facendo la partita, o schiaccia un pisolino,

arriva per canali misteriosi in coperta e allora si vede una carcassa di parecchie

tonnellate scavalcare il parapetto e piombare con fragoroso scroscio in mare.

Questa infrazione si perpreta quando c’è troppa carne al fuoco. Il capitano

può sempre dimostrare che la balena era magra, che dalla carcassa si sarebbe

ricavato sì e no il 5% di olio, che occupare i bollitori per un prodotto così

esiguo è un affare che nessun industriale ammetterebbe nella sua gestione.

I rapporti diplomatici si tendono un po’, come a Ginevra, ma non corrono

parole grosse. Un’ora dopo il capitano si vede recapitare una lettera del

seguente tenore: Con mio grande rincrescimento ho dovuto constatare che oggi

ecc. ecc.. Mentre invito la S.V. ad applicare nei confronti dei responsabili le penalità

prescritte (confisca della percentuale da corrispondersi sui barili d’olio pertinenti

alla balena incriminata) prego di dare adeguate disposizioni perché il lamento

inconveniente non abbia a ripetersi più.

Alla sera il controllore gioca a carte col capitano e col manager.

Il mondo è fatto per viverci dentro.

Oggi voglio esaurire la balena industriale, voglio dar fondo a questo negozio

di strutto e di olio per passare alla caccia. Vado sotto coperta. Mi arrischio

nel labirinto dei corridoi, mi spingo nelle sale dove uomini grondanti di

sudore (fuori ci sono 5° sotto zero) sorvegliano una sostanza giallastra che

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passa davanti a una spia di vetro e seguono le oscillazioni di una lancetta

di manometro. Il grasso, la carne e le ossa che ho visto sparire dalla coperta

finiscono attraverso le botole in queste gigantesche autoclavi nel cui interno

un cilindro a coltelli gira trasformando ogni cosa in olio con l’aiuto del vapore

acqueo.

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Nove ore dura la bollitura sia per il grasso, che viene trattato a pressione moderata,

sia per la carne e le ossa che esigono una pressione più forte. Poi c’è tutto un

processo di depurazione, seguendo il quale si finisce a ritrovarsi in una stanzetta

dove un uomo con un camice bianco vive separato dal resto del mondo fra fiale,

bilance, strumenti microscopici e bottigliette suggellate con la ceralacca.

E’ un chimico che preleva i campioni, li classifica secondo il titolo, e ne stabilisce

il grado di purezza. Egli è un personaggio che non si vede mai sul ponte,

cui il cetaceo non interessa come fenomeno di natura ma riguarda soltanto

come sostanza da riempire quelle care boccette sulle quali egli scrive

amorosamente dei nomi e dei numeri. Gli strani rumori che rintronano nel suo

piccolo laboratorio non lo disturbano minimimante; egli lavora davanti ad un

oblò che, all’improvviso, mentre sta spiegandomi la differenza di tinta e di

titolo fra olio di grasso e olio di ossa, si appanna, filtrando nella cabina una

luce da gabinetto fotografico.

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Chi è stato?

Oh, niente.

C’è un velo di liquido rosso che scorre davanti al cristallo, una cosa di tutti i

giorni e di tutte le ore.

La nave è complicata, misteriosa, con recessi dove si fanno gli incontri più impensati.

Ad una svolta mi sono imbattuto in un porcile, cioè uno steccato dentro il quale

grugnivano due porcellini vivi. Spingendo una porta mi sono incontrato con un

falegname che mi ha guardato al di sopra degli occhiali; egli indossava una casacca

blu e stava fabbricando un lettino da bambola per la figlia del capitano.

Sono sceso al ponte dei serbatoi, tranquillo, silenzioso, immerso nel buio, dove

ho visto dei cassoni di ferro quadrangolari, robustamente bullonati; la cantina di

questa orrenda vendemmia, l’urna dove Leviatan dorme finalmente in pace,

l’Escorial della balena.

Quando risalii sul ponte mi attendeva una sorpresa.

Proprio per me il primo ufficiale aveva fatto deporre su un tavolo del ‘salone’

una cassetta di legno dentro cui erano degli strani ciottoli neri, simili a pani di

torba, che mandavano un odore curioso, quasi medicinale.

E’ ambragrigia, dissero intorno.

Diedi un balzo, come se mi avessero mostrato il diamante Kohinohor. Ero fresco

di libri balenieri in cui avevo letto che spedizioni di caccia sul punto di fallire

per scarsezza di raccolto erano state salvate per aver messo le mani su qualche

chilogrammo di quella sostanza.

(…dall’inviato del Corriere della Sera, Cesco Tomaselli, La corrida delle balene)

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ESPLORA (anche te stesso)

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Eretici e non solo in:

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sam_shepard.jpg

Tutta la terra è stata scoperta.

Alcuni punti del lontano Sud America probabilmente ancora nascosti, ma

questa terra qui è stata tutta scoperta.

Ogni pollice.

Adesso il movimento va verso l’interno.

Nuove religioni.

Guru.

Meditazioni.

Lo spazio esterno è troppo costoso e se lo può permettere solo il governo,

oppure le corporazioni industriali.

E il Rolling Thunder che c’entra in tutto questo?

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Troppo semplice liquidarlo come un altro bel tour (o una bella radio…) incentrato

sulla misteriosa presenza di Dylan. Ci sono troppi elementi coinvolti che non fanno

altro che spingerlo lungo direzioni impreviste. Anche se i suoi primi scopi non

erano quelli di cominciare una spedizione, tale è diventato a causa di quel che

viene da tutta questa gente.

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Per arrivare a questo traguardo tutti hanno attraversato qualcosa.

Dopo aver percorso l’America (e non solo…) in lungo e in largo per circa quarant’anni,

Ginsberg (e non solo lui…) non è qui tanto per farsi un viaggetto.

Non dopo aver visto morire i suo amici.

Non dopo essere stato tra i cadaveri in fiamme lungo il Gange.

Baez ha passato diverse notti in un rifugio antiaereo ad Hanoi durante il raid

aereo più duro della guerra, ha marciato sul pentagono, crede ancora nel pacifismo,

osserva la sua ‘immagine pubblica’ come se appartenesse a un’altra persona.

E Dylan in tutti questi anni non si può dire che sia stato in coma.

E allora?

Oltre all’impatto del carisma e della personalità dei singoli, c’è qualcosa in agguato.

E’ come se tutti sentissimo ….l’odore della libertà ma nessuno riesce a toccarla.

In un certo senso può essere solo così, in modo che la ricerca possa continuare.

Una volta Gregory Corso mi ha dato questa definizione di poesia: una sonda

incantata.

Diceva che un poeta si prende tutto sulle spalle.

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Se la poesia ha la capacità di trasformare le emozioni così come la musica, allora

anche questa deve potersi rivelare nell’oscurità.

La poesia si rivela da sé.

Si fa conoscere tramite le rivelazioni del poeta…..

(…con affetto….)

(Sam Shepard, Diario del Rolling Thunder)

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SLOW TRAIN

Eretici e non lungo i binari:

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Altre ballate e canzoni…:

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una-lista-per-woody-3.html

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Qualche volta mi sento così depresso e disgustato

che non posso fare a meno di domandarmi cosa

sta accadendo ai miei fratelli.

Sono perduti o sono salvi?

Hanno considerato quanto gli costerà portare

a fondo

tutti i loro principi terreni che dovranno

abbandonare?

C’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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Avevo una ragazza in Alabama.

Lei era semplice, senza gran cultura,

ma senso pratico, sì, ne aveva tanto.

Lei mi disse, ‘Amico, è ora che la smetti coi

tuoi pasticci,

e cominci a filar dritto.

Potresti anche morire qua ed essere soltanto un

altro incidente per le statistiche’.

C’è un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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Tutto questo petrolio straniero che controlla il

suolo americano.

Guardati intorno, non potrai che sentirti

imbarazzato.

Sceicchi che vanno in giro come dei re,

con addosso gioielli stravaganti ed anelli al naso,

decidendo il futuro da Amsterdam a Parigi.

C’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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L’ego dell’uomo è inflazionato, le sue leggi

sorpassate.

Non funzionano più.

Non puoi contare di startene ad aspettare

nella casa del coraggioso, Jefferson si gira nella

tomba.

Uomini sciocchi che si autoesaltano, cercando di

manovrare Satana.

C’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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Grandi temporeggiatori, falsi curatori e misogini,

maestri del bluff e maestri della mediazione.

Ma il nemico che io vedo indossa un manto di

decenza.

Tutti i non credenti ed i falsi predicatori

che parlano in nome della religione.

E c’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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Gente che muore di fame e sete, e trebbiatrici

che stanno scoppiando.

Oh, tu sai che costa più immagazzinare il cibo

che ditribuirlo.

Loro dicono, liberati dalle tue inibizioni, segui le

tue ambizioni.

Loro parlano di un’esistenza fatta di amore

fraterno.

Mostrami qualcuno che sappia vivere così.

C’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

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Beh, la mia piccola è andata con un poco di

buono in Illinois,

uno che lei potrebbe distruggere – un vero caso

di suicidio,

ma non c’era niente che potevo fare per

fermarla.

Non m’importa dell’economia, non m’importa

dell’astronomia.

Ma certamente mi disturba vedere i miei cari

trasformarsi in burattini.

C’è un treno, un treno lento che cammina, lì

dietro la curva.

(Bob Dylan, Slow Train)

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