L’UOMO E LA NATURA (il muschio arde) (16)

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…E da lì riparte il ragazzo, divenuto poeta.

E vola sopra la sua terra sulle ali appena spuntate, tanto ampie da

farlo planare in ampi cerchi tra le vette insieme alle aquile, solo, nell’

immobilità trasparente.

Vorticando attorno ai coni delle montagne, aguzzando la vista sui

picchi e i promontori, arricchendosi dei segni d’esortazione levigati

dal vento della roccia eterna.

Per poi innalzarsi, visionario, sopra valli dove i fiumi visti dall’alto

scivolano lentamente sul paesaggio; e le fattorie appaiono allo

sguardo dell’aquila.

Zolle, dossi coperti d’erba su cui il vento passa accarezzando i

fili in cerca di qualcosa che possa recepire un messaggio. E in

quei covi sotto l’erba vive la tua gente. Come nelle tane o nei

nidi delle pulcinelle di mare.

E fatica notte e giorno a falciare i fili d’erba sulle zolle, per nutrire

quelle pecore testarde che saltellano sui monti e nelle distese

immemori fino al momento di riporre la falce e inseguirle per

radunalrle finché non scorrono come latte montano per i pendii,

in autunno, in una sinfonia di belati, latrati, mormorii di ruscelli

e grida acute, e tonfi di zoccoli sul muschio e scalpiccio di cavalli

sulla pietra, e rombo di galoppo nei campi; sbuffi e nitriti; forse il

gemito del vento; finché le canzoni conviviali si fondono con le voci

dei bambini e delle donne nel recinto ai piedi della montagna, e le

pecore cambiano voce quando la loro libertà svanisce nel mondo

degli uomini.

E l’uomo torna alla sua capanna.

La tua nazione, la tua gente.

Secoli dopo secoli.

La tua stirpe seppellita nella terra, che si stringe sotto le tempeste

di neve invernali, in cerca di un riparo dagli elementi nei suoi rifugi

sotterranei….

(Thor Vilhjalmsson, Il muschio grigio arde)

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L’UOMO E LA NATURA (inferno spento) (15)

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Da tempo cavalchiamo tra folate di vento artico, in un deserto di lava

frantumata e di rupi basaltiche.

La lava – talvolta disseminata in punte e spezzata in lastroni, talvolta

disposta in gironi quasi danteschi – assume un colore rugginoso,

affumicato: e fa pensare al gigantesco residuo di un enorme incendio

avvenuto e consumatosi nei millenni delle prime convulsioni geologiche.

Di tanto in tanto, come un crepaccio, un rivo si apre mostrando acque

gelide, saltellanti di scalino in scalino e scintillanti di pallide iridazioni.

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Spesso il rivo dilaga anche in magre lagune, che bisogna guadare

mentre gli stivaloni tuffati nell’acqua, assumono funzione di altimetri.

Siamo al 65° parallelo, cioè in una zona cinque gradi più in là del

Labrador e press’a poco all’altezza della Terra di Baffin.

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Là è l’Inferno spento, spiega il mio compagno islandese addidantomi

verso Nord un tormentato e pauroso orizzonte di nere montagne.

Il gioco della prospettiva in questo eccezionale spettacolo appare

variato e moltiplicato all’infinito.

Punte frastagli creste valli crateri strapiombi moltiplicano i piani dell’

atmosfera e quindi le sue colorazioni, dando al paesaggio una variegatura

e una screziatura cromatica forse uniche al mondo.

Si scorgono in questo panorama selenitico tutti i disegni e i volumi

geometrici. Sembra di avere l’occhio all’equatoriale di un osservatorio

astronomico e di contemplare le distese sforacchiate della luna.

Basalti e lave eruttati da millenni e millenni si sono congelati condensati

cristalizzati in pinnacoli in duomi in piramidi in coni in balconate e in

chiostri.

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Si vedono vette cornute; sembrano immagini di diavoli.

Altre sono turrite come tetri paesaggi di un Medioevo favoloso.

Altre si toccano in istrani barocchi o si lanciano verso il cielo con mezzi

archi di gotici irreali.

Tutte le architetture sembrano essersi date convegno qui, per esservi poi

rimescolate da una mano convulsa ma onnipotente. Talvolta queste forme,

come per lo scherzo di un gigantesco coagulo si sono frammiste fuse e

combinate insieme, dando luogo a forme nuove e audacissime, spesso

assurde, dalle quali gli architetti del futuro potranno trarre ispirazione.

Questo Inferno spento – domando al compagno che cavalca quasi al mio

fianco – sarà naturalmente disabitato.

– E’ disabitato quello che vedete all’orizzonte ma qui in questa regione,

che corre lungo il 65° parallelo, l’uomo atticchisce ancora. E ve ne dà la

prova il baer verso il quale siamo incamminati. Ma si tratta ancora di una

zona diciamo così costiea dove esistono frequenti acque calde. Un po’ eremita

e un po’ pioniere, l’uomo di questa zona vive lavora edifica ed offre il modello

di una vita familiare ormai sconosciuta nei paesi così detti civili, una vita

di cui la solitudine artica rende anche più stretti i legami.

– Esistono villaggi?

– La parola villaggio è sconosciuta in queste terre. Qui non vi sono che embrioni

di villaggi: cioè i baers. Si tratta di piccole fattorie in cui vivono una, e di

rado due famiglie. Il padrone del baer è una specie di piccolo capo.

L’uomo, qui, vive e si foggia nella solitudine, tra l’imperversare dei piovaschi

glaciali, il fioccar delle nevi e l’ululo delle raffiche…..

(C. Mortari, Islanda inferno spento)

 

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