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Tengo ora le gambe divaricate, appoggiate sui lati opposti delle
secche, e un grasso pesce-luccico sguscia tra i miei piedi a piluccare
le alghe grigiastre.
Le mie dita stringono l’impugnatura della lancia, poi si rilassano
quando cambiano idea sul loro pasto. Quasi volesse darmi uno
schiaffo, il pesce batte la coda e scompare.
A volte mi fermo a pensare a come i pesci e le anatre vedano questa
scena.
Io sono qui, furtivo, invisibile, e mi considerano uno di loro.
Sono troppo ottusi per capire che io sono d’un genere più elevato,
che voglio solo il loro male, e così scompaiono, senza capire, uno
alla volta.
Guardano il grande uccello verde che a grandi passi cammina in
mezzo a loro, eppure non lo legano ai loro compagni scomparsi.
Ciò che si aspettano di vedere, li rende ciechi.
Ma forse è vero che esistono anche animali più ingegnosi di noi,
che camminano tra la gente e con ogni comodo scelgono la loro
preda; catturano ora una donna, ora un uomo, senza che nessuno
venga mai a sapere che fine abbiano fatto costoro, tanto sono rari i
loro delitti, se non quando queste scaltre mostruosità non cercano
pasti più abbondanti e non si ingozzano.
Un altro pesce, questa volta un barbo, si muove sfregando il muso
tra i puntoni che tengono piantati a terra.
Questa volta non aspetto e spingo la lancia su di lui.
Quasi mi sfuge e trafiggo il suo fianco.
Poi lo alzo alla luce del sole mentre ancora si dibatte sulla punta
della mia asta.
Gocce d’acqua cadono intorno a lui, una fatale rugiada.
Cacciai per tutto il giorno e poi per un altro, rannicchiandomi nella
mia tana solo quando faceva buio e, nel momento in cui il sole si
immerse nell’acqua, avevo nella bisaccia molti uccelli e molte pertiche
di pesci e infine, quando venne ancora un altro mattino, mi misi in
marcia per tornare a casa.
Quel giorno l’aria era buona e limpida come quella che viene dopo una
tempesta, eppure nessuna tempesta era mai passata di là.
Il cielo azzurro dava il suo colore agli stagni e alle pozzanghere della
palude e sopra di me sfilavano immense nuvole bianche ammassate
in forme di fantasia a cui non sapevo dare un nome.
La mia bisaccia era piena.
Il sole era caldo sulle mie spalle.
Cantavo le uniche parole che ricordassi della vecchia Canzone della
via, quella che racconta la storia del ragazzo sul cammino e di come
trova la sua sposa, e gli aironi dello stagno vicino volarono via
spaventati, per quanto cantavo male.
E’ l’ultima volta che sono stato felice.
Ora siedo sulla riva e mangio il pesce, lasciando che la corrente trascini
con sé le mie gambe di legno.
All’inizio quando venni a vivere nelle Terre degli Annegati, cuocevo il
cibo prima di mangiarlo, ma ora mi sembra una seccatura.
Qui non lo cuoce nessuno.
Taglio con l’unghia il ventre dell’animale e provo una strana
soddisfazione nello scoprire quanta pelle riesco a staccare in un
solo tentativo.
Sto quasi per scostare il becco e mangiare, quando un movimento
all’orizzonte di mezzogiorno cattura i miei occhi.
Stendardi rossi.
Minuscoli stendardi rossi che prima si allontanano tra loro e poi si
riavvicinano, dietro i campi lontani, diretti verso di me.
Stringo forte gli occhi per vedere più lontano, poi tiro le gambe
fuori dall’acqua e cerco di mettermi in piedi meglio che posso.
Lascio il becco al suo posto.
Non sono stendardi.
No, stendardi no, ma mantelli, mantelli rossi sulle spalle di uomini
a cavallo.
Li riconosco.
Sono uomini di Roma.
(Alan Moore, La voce del fuoco)
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