IO PORTO I REGGICALZE (1931)

Prosegue in:

dispersi sui monti &

dove esiste un cadavere più bello?

Da:

frammenti in rima &

i miei libri

 

 

io porto i reggicalze

 

 

 

 

 

 


Io porto i reggicalze.

Nel senso che li vendo, non li indosso.

Ridono tutti quando faccio questa battuta.

Nella vita una battuta è spesso il modo migliore per rompere il

ghiaccio….

Anni di crisi quelli…

Certo, voi direte che c’è una bella differenza tra un uomo vivo e uno

morto, ma quelle sono sottigliezze da giovanotti, che possono sfuggire

a un uomo che ha combattuto in guerra.

La distinzione tra vita e morte diviene sempre più sottile, secondo me.

Vedete un ragazzo a faccia in giù nel fango con solo mezzo braccio e,

sì, magari è vivo, ma tra un ora o due sarà morto e allora che senso ha

fare tanto i precisi?

 

io porto i reggicalze

 

Lo so, sembra un discorso cinico, ma ci si abitua a tutto.

Io lo so.

Ero un eroe di guerra, io.

Mi sono guadagnato una medaglia e una cicatrice, qui sulla testa.

Ve l’ho fatta vedere?

Ho dovuto appoggiarlo a terra e sporgermi per aprire la portiera

del passeggero che, siccome ho paura dei ladri, di solito tengo chiu-

sa.

L’ho afferrato nuovamente e gli ho adagiato il viso sul sedile, ma

aveva un’aria molto strana, con una gamba piegata sotto il corpo.

Ho tolto il campionario dal suo posto, sotto il sedile del conducente.

C’era dentro il catalogo, voi mi capite.

Non volevo che Monica facesse una brutta fine.

 

io porto i reggicalze

 

Poi ho preso la tanica di benzina dal bagagliaio e ho cominciato a

spargerla dentro la macchina, versandone la maggior parte sul tizio.

Mentre finivo mi sono chiesto che fine avesse fatto il martello, poi il

tizio ha fatto un rumore. Sembrava che sussurrasse qualcosa, ma era

una lingua che non avevo mai sentito.

Mi ha fatto venire la pelle d’oca, credetemi.

Ho chiuso tutte le portiere dell’auto dopo aver lasciato una scia di

carburante lunga qualche metro per terra, e mi è venuto in mente

di dare un’occhiata sotto il cofano per allentare il condotto del car-

burante e togliere la parte superiore del carburatore.

Conosco bene le automobili, sapete, anche questo fa parte del mio

lavoro.

Giusto un tocco di furbizia per far credere che avessimo avuto un

incidente.

Mi sono guardato intorno ma non sono riuscito a trovare il martello,

così sono tornato dove avevo lasciato la tanica, alla fine della scia di

benzina, e ho acceso un fiammifero. Le fiamme hanno percorso l’erba

come formiche in fila indiana, poi c’è stato un rumore simile a un sin-

ghiozzo, e il fuoco ha avvolto l’automobile.

La mia piccola Morris Minor.

 

io porto i reggicalze

 

Più o meno in quel momento lui si è svegliato, ha cominciato a gri-

dare e ha aperto la portiera, ma a quel punto, l’ho già detto, era

spacciato.

Sapete cos’è il peggio?

Aveva una gamba fuori dall’auto e non so dirvi quanto io sia rima-

sto lì a guardarla bruciare. Si è staccata ed è rimasta lì sull’erba,

questa gamba in fiamme.

Ammetto di non aver mai visto niente di simile.

In confidenza, la cosa che tutti hanno trovato più astuta in questa

storia non mi è venuta in mente finché il fattaccio non si è consumato.

A sentire i giornali, l’ho fatto la notte di Guy Fawkes per essere certo

che l’incendio non attirasse l’attenzione, e ammetto che è un ragiona-

mento molto furbo.

Mi è venuta in un lampo, dal nulla.

A volte va così, immagino.

Solo dopo mi sono reso conto che era il 5 novembre e ho pensato:

– Be’ tutto ciò è molto appropriato.

Dopo essermene stato lì abbastanza a lungo da avere gli occhi irrita-

ti dal fumo, mi sono reso conto che era meglio che me ne andassi.

Ho attraversato i campi fino a riguadagnare Hardingstone Lane, e

la sfortuna ha voluto che incappassi subito in quei due individui, che

mi davano l’idea di essere entrambi ubriachi dopo i festeggiamenti

in qualche taverna del posto.

 

io porto i reggicalze

 

Credo che i giornali abbiano detto che si chiamava il Salon de Danse.

Avvicinandomi ho capito che avevano visto l’automobile in fiamme,

e quando ho capito che ne stavano parlando ho deciso di bluffare e ho

detto:

– A quanto pare qualcuno ha fatto un bel falò!

O qualcosa di simile, visto che mi era venuto in mente che era la sera

di Guy Fawkes.

Questi mi hanno guardato senza dire nulla, così mi sono affrettato

lungo la strada.

Era una notte fredda e limpida.

C’era la luna che illuminava la croce della regina sulla London

Road.

Ogni cosa aveva un odore spaventoso, pieno di fumo e polvere da

sparo, come nella guerra.

La mia cicatrice prudeva, così me ne stetti un po’ a grattarla.

Scommetto che sembravo matto.

Avevo una valigia di biancheria in una mano e una scatola di fiam-

miferi England’s Glory nell’altra.

Ero qualcun altro, con una nuova vita davanti, ed ero spaventato

a morte, ma mi sentivo benissimo.

Non vedo l’ora di andarmene da qui.

Voglio festeggiare.

Voglio riempire il mondo di bambini, canzoni e bellissime giarret-

tiere. Comprerò un cappello alla mia Lily e andrò a letto con ragaz-

ze scialbe per non farle torto. Sotto sotto io non sono cattivo, e cre-

do che la giuria lo sappia.

Oh, certo, a volte sono un guascone, affilato come un coltello e sen-

za peli sulla lingua, ma sono un personaggio, un uomo con un cuo-

re romantico che a volte lo mette nei guai.

Li guardo dal banco (degli imputati) e capisco di aver già mezzo

vinto la mia scommessa, con loro, dal modo in cui mi guardano.

E’ un istinto.

Si riesce sempre a capire, davvero, quando esitano.

…Se la sono….

(A. Moore, La voce del fuoco) 

 

 

 

 

 

io porto i reggicalze

 

PARENTESI DELLA DOMENICA: gita in montagna…

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evoluzione scientifica

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parentesi della Domenica

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un demonio? no, Mattia Zurbriggen

masi o piste?

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i miei libri &

Frammenti in rima

 

parentesi della domenica

 

 

 




La giornata di oggi, è trascorsa, ma la festa del C.A.I.

rimane e rimarrà per sempre nell’animo di tutti i cit-

tadini italiani, come un ricordo vivo e inestinguibile,

fasciato di pungente nostalgia.

Diciamo subito che la festa organizzata da questa

giovane e rigogliosa sezione del C.A.I. diretta con

fervore quasi religioso dal fedelissimo camerata Vit-

torio Colitti, è riuscita felicemente, superando le più

rosee aspettative.

Alle 13 in punto, echeggia uno squillo di tromba.

La zuppa s’è cotta, la zuppa s’è cotta…

Comincia così per tutti il rito quotidiano del Santo

Stomaco.

Si mangia e si beve dappertutto.

Si canta, si suona, s’intrecciano brindisi e sonetti.

Totonno Casolino, coadiuvato all’uopo dal terribile

ricciaiolo signor Salvatore Mastroianni e dal folclo-

rista don Peppe Fiorilli, batte la solfa, ritmando con

monumentali bicchieri di vino alla musica di Riccia

che…contorna il rancio con graziose ed elettrizzanti

sonatine.

Sull’alto del declivio boscoso si è accampata una co-

mitiva pericolosissima sotto l’aspetto….masticatorio.

E’ la comitiva di ‘panza mia, fatte capanna’ prese-

diuta dallo spettacoloso don Ferdinando Barone, sot-

topresiediuta da quel grande cervello, ed anche gran-

de stomaco, che è il cavalier Nicolino Amoroso e ge-

stita da Peppino Maddalena, che s’è magnato e bevu-

to tutto!

Da fonte sicura abbiamo appreso che codesta …bene-

merita comitiva ha divorato la bellezza di 10 chilo-

grammi di filetto di vitello al forno ed accessori (e…

non solo….).

(da ‘Il Giornale d’Italia’ del 25 Maggio 1932)





 

parentesi della domenica

EVOLUZIONE SCIENTIFICA

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sulla strada di casa

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con satana sulle torri &

la freccia del tempo

Foto del blog:

parentesi della Domenica


 

evoluzione scientifica









La montagna interessa soltanto per le difficoltà che permette

di superare. E’ tanto più bella quanto più si avvicina all’estre-

mo limite delle difficoltà, stabilito con precisione scientifica

da moderni poderosi trattati.


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Esistono tabelle scalari che appagano i gusti metodici e polve-

rosi degli archivisti di ogni bellezza e d’ogni emozione.

La scienza, catalogando il catalogabile, vorrebbe fermare, entro

formule matematiche, sensazioni soggettive, quali sono le emo-

zioni del rschio e la valutazione delle difficoltà, variabili di per

sé, e per lo stesso individuo; tanto più quando entrino in gioco

variazioni e particolari condizioni fisiche e morali dell’arram-

picatore.

Vi sono scale estere e scale nazionali.

Le estere stanno ottenendo il primato spiegabile solo con la

loro severità e precisione, in evidente contrasto con la più ge-

nerosa valutazione delle difficoltà fatta da certe scale italia-

ne.

Dimodoché è facile che partigiani de l’una e de l’altra scala,

di ritorno da una arrampicata, trovino modo di bisticciare,

iniziando penosi calcoli di analisi infinitesimale, gli uni pro-

pendendo per difficoltà di grado tre e settantacinque, gli altri

di grado tre e ottantasette.


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Generalmente si mettono d’accordo sulla porta del rifugio,

con un quattro e mezzo che si avvicina al quinto, penultimo

terribilissimo termine della scala delle difficoltà.

L’emozione e la soddisfazione si esprimono con un numero,

e sono tanto maggiori quanto più si avvicinano al massimo

dei massimi, cioè al 6, che rappresenta in parole povere, e se

il paragone non è troppo indecoroso, il centro del bersaglio

nei baracconi delle fiere.


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Certi autori vanno contro i fondamentali criteri della logica,

deformando arbitrariamente le scale estere brevettate e razio-

nali, senza che nessuno intervenga a definire alla pubblica au-

torità simili inconcepibili abusi.

Bisogna pesar le montagne con la bilancetta del farmacista:

salita compresa fra il quarto grado superiore, e il quinto inferiore.

Gli alpinisti sono tormentati dagli stessi dubbi che assillano i

professori delle scuole medie; coscienza e scrupolosità: cinque

meno, e sei più.

Ma lo stato di penosa incertezza cesserà presto.

Commissioni di tecnici specializzati, percorreranno le vie di

salita, prima dell’apertura della stagione arrampicatoria, per

controllare le variazioni avvenute nell’inverno per sfaldamen-

ti o altre cause.

I verbali relativi sottoposti all’approvazione insindacabile del-

l’Istituto Centrale Ricerche e Misurazioni Rocciose, che a sua vol-

ta si incaricherà di far rapportare le modifiche nel casellario e

nei fogli mappali conservati al Catasto (sezione D. Foglio unico:

arrampicativo chiodato).

E’ inconcepibile che in un periodo destinato a passare alla sto-

ria per certe imprese poste all’estremo limite possibile della pro-

gressione asintotica dello sport d’arrampicamento come valori mas-

simi insuperabili di ‘prestazione’ atletica, si continui a confondere

una scalata straordinariamente difficile, con una scalata estrema-

mente difficile.

Non è chi non veda a colpo d’occhio la differenza fra difficilis-

simo, oltremodo difficile, estremamente, sommamente ed eccezio-

nalmente difficile: diversità di evidenza palmare.


alpinisti2.jpg


La difficoltà di un ascensione è espressa da una formula sem-

plicissima:

la famosa equazione Dulfer, variabile fra il primo e il sesto grado:

D= R/C

Essendo:

D la difficoltà di un determinato punto.

R l’espressione della configurazione rocciosa del punto stesso, cre-

scente con la ripidezza, colla scarsità e piccolezza degli appigli.

Cioè la difficoltà tecnica pura.

C la capacità tecnica dell’arrampicatore.

L’enunciazione della formula Dulfer suscitò nel 1914 una po-

lemica interessante che contribuì ad affrettare la conflagrazio-

ne europea.

 

evoluzione scientifica


Dulfer errava principalmente nel parlare di difficoltà tecnica

‘pura’.

Il suo diretto avversario, il celebre Plank, affermando l’esisten-

za di difficoltà oggettive e soggettive, cadeva in un doppio be-

stialissimo errore.

Anzitutto nella formula intervengono alcuni fattori K1 K2 K3

a render variabile il concetto di difficoltà. K1 rappresenta la

media aritmetica dei gradi d’adesione delle suole delle pedu-

le; la quale media si ottiene  dalla somma delle coordinate dei

diversi grafici d’usura, relativi alle suole di feltro, panno, tela

e miste, prese in esame prima della scalata, e successivamente

al passaggio degli appositi controlli, divisa per il numero dei

medesimi; K2 la somma dei punti ottenuti dall’esame preven-

tivo dell’impressionabilità delle condizioni fisiche, di allena-

mento, psichiche e morali dell’arrampicatore all’inizio della

scalata, e nei momenti successivi, come sopra; K3 le condizio-

ni gli appigli lo stato dei chiodi e della roccia in generale, in

realazione all’umidità, espresse in numeri, e sommate all’in-

tegrale delle altezze dei vari punti difficili sul livello del ma-

re, tenuto conto del diverso sforzo corrente per compiere

uno stesso lavoro ad altitudini diverse.

Una volta aggiunto il Resto di Lagrange, diviso per l’angolo

formato dall’ipotenusa del triangolo rettangolo di cui un ca-

teto rappresenta la verticale calata dalla vetta (linea ideale

della goccia d’acqua cadente senza vento) e sviluppato l’in-

tegrale, si estrae la radice cubica, e si ottiene finalmente la

cercata difficoltà, pura matematica.


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Per quanto non sia verosimile che un procedimento così semplice

possa indurre l’alpinista in sensibili errori, tuttavia sarà meglio

confrontare il risultato con quello ottenuto col metodo sperimen-

tale dell’apposito Difficoltometro, strumento fabbricato a Monaco di

Baviera, assieme agli analoghi Rocciometri e Capacitometri, evidente-

mente indispensabili per tradurre in cifre i simboli R e C.

Volendo trascurare i coefficienti K1 K2 K3 e ad ogni modo ammet-

tendo l’esattezza della definizione enunciata dal Rudatis, che cioè

la difficoltà non sia solo in ‘funzione’ della capacità, ma esattamen-

te ‘il rapporto tra la natura della montagna e la capacità dell’indi-

viduo’, sussiste sempre la fondamentale equazione Dulfer, di cui

essa è una espressione più generale:

D= R/C

di cui potremo ricavare strabilianti conseguenze.

Moltiplichiamole infatti, come ci consente la regola elementare,

ambo i membri per la quantità C supposta reale, positiva e diver-

sa da zero (un arrampicatore con capacità zero non sarebbe un

arrampicatore).

Il valore dell’equazione non essendo mutato abbiamo:

C D = R

La quale (concludendo) eguaglianza significa che se moltiplichiamo

una particolare capacità arrampicatoria C (stabilita dal Capacitometro)

per una certa difficoltà assoluta e sterilizzata D, otteniamo (ordunque)

una speciale conformazione rocciosa R.

Otteniamo ad esempio, la parete della Tofana o del Sass Maòr.

(Giuseppe Mazzotti, La montagna presa in giro)




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SULLA STRADA DI CASA

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due clienti

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con satana sulle torri &

la freccia del tempo

Foto del blog:

parentesi della Domenica

 

sulla strada di casa

 

 

“Caro Mazzotti,

 lassù attorno alla piccola cappelletta profanata,

si svolge la lotta fra pastori ed albergatori.

Purtroppo vinceranno questi ultimi che hanno

dalla loro i potenti ed i furbi.

Verrà l’anno in cui il poetico suono de’ campani

delle mandrie aostane sarà sostituito dagli squilli

che chiamano a raccolta altre mandrie di cittadini

meno pacifiche e più volgari.

Ma io non vi sarò più”.

                                     Guido Rey


 

 

sulla strada di casa

 


TEORIA DELLE STRADE


              I


Bisogna condurre tanta gente in montagna.

E’ giusto.

Ma se questa gente pretende nuove strade carrozzabili

e nuovi grandi alberghi, può restare a casa.

E’ inutile che si scomodi per ritrovare fra i monti le con-

suete forme superficiali del vivere.


         II


Non ci si accorge che, continuando a costruire strade

e teleferiche, si rende sempre più piccola la montagna.

Arrivare su un colle in teleferica, è una cosa assoluta-

mente diversa dall’arrivarvi a piedi.

Perché la montagna possa essere capita, è necessario

lasciare vasta ‘zona di rispetto’ fra la pianura e i mon-

ti come fra i rifugi e le cime.

Le strade e le altre opere, consentendo che il cittadino

avvicini con facilità la montagna, virtualmente la di-

minuiscono.

I grandi monti sono tolti a poco a poco dal loro iso-

lamento, e finiranno per parere soltanto mucchi di roc-

ce e di ghiaccio.

L’equivoco sta in questo: che molti si illudono di salire

andando con tali mezzi sui monti.

Si rende meschino un ideale per non faticare a raggiun-

gerlo:

è più comodo.

Basta sapersi accontentare.

(G. Mazzotti, La montagna presa in giro)



 

 

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QUANDO IL BRUTTO VUOL DIVENTAR BELLO

Eretici e non solo in:

dialoghi con Pietro Autier 2 &

pagine di storia

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima



dialoghi con pietro autier.1.jpg

 






Estetica del brutto.

Grandi conoscitori del cuore umano si sono sprofondati negli

abissi pieni d’orrore del male, hanno descritto le spaventose

figure che venivano loro incontro da quella notte.

Grandi poeti, come Dante, hanno messo ancor più in eviden-

za tali figure; pittori come Orcagna, Michelangelo, Rubens,

Cornelius ce le hanno poste sensibilmente davanti agli occhi

e musicisti, come Spohr, ci hanno fatto ascoltare i suoni atro-

ci della perdizione nei quali il malvagio grida e urla il dissidio

del suo spirito.

L’Inferno non è solo estetico.

Noi siamo immersi nel male e nel peccato, ma anche nel

brutto (che purtroppo vuol apparir bello, forse perché rac-

comandato…).

Il terrore dell’informe e della deformità, della volgarità e del-

l’atrocità ci circondano in innumerevoli figure (che non fac-

ciamo fatica a trovare, basta appena affacciarsi dalla fine-

stra…), dai pigmei fino a quelle deformità gigantesche da

cui la malvagità infernale ci guarda digrignando i denti.


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E’ in quest’Inferno del bello che qui vogliamo discendere.

E’ impossibile farlo senza contemporaneamente introdurci

nell’Inferno del male, nell’Inferno reale, perché il brutto più

brutto non è quel che in natura ci ripugna – paludi, alberi

contorti, salamandre e rospi, mostri marini che ci fissano

con occhi spalancati, e pachidermi massicci, ratti e scim-

mie:

è l’egoismo che manifesta la sua follia nei gesti perfidi e frivoli,

nelle rughe della passione, nello sguardo torvo dell’occhio e nel

crimine…

Non è difficile capire che il brutto, in quanto concetto re-

lativo è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto.

Questo altro concetto è quello del bello:

il brutto c’è solo in quanto c’è il bello, che ne sostituisce il pre-

supposto positivo.

Se non ci fosse il bello, il brutto non ci sarebbe affatto, per-

ché esiste solo come (costante ed ossessiva) negazione di

quello.

Il bello è l’idea divina originaria (che il brutto si affanna a

cancellare, estirpare, braccare…confondere) e il brutto, sua

negazione, ha, appunto in quanto tale, un’esistenza solo se-

condaria.

Non nel senso che il bello, in quanto è il bello, possa essere

contemporaneamente brutto, ma nel senso che le stesse de-

terminazioni che costituiscono la necessità del bello si con-

vertono nel suo contrario.

Questa intima connessione del bello con il brutto in quan-

to sua autodistruzione è anche la base della possibilità che

il brutto, a sua volta, si neghi: che, in quanto esiste come

negazione del bello, risolva poi di nuovo la sua contraddi-

zione al bello tornando in unità con esso.

In tale processo il bello si rivela come la forza che torna a

sottomettere al suo dominio la ribellione del brutto.

In questa conciliazione nasce un’infinita serenità, che su-

scita in noi il sorriso, il riso. Il brutto si libera in questo

movimento della sua natura ibrida, egoistica; riconosce la

sua impotenza (ma anche il ruolo) e diventa comico.

Il comico include sempre in sé un momento negativo ver-

so il puro, semplice ideale; una tale negazione viene ridot-

ta in esso ad apparenza, a nulla.


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L’ideale positivo viene riconosciuto nel comico perché e

in quanto la sua manifestazione negativa si volatilizza.

Non certo nel senso che ciò che è brutto possa essere, in

determinati casi, dubbio.

Questo è impossibile, perché la necessità del bello è de-

terminata per se stessa.  Ma il brutto è relativo, perché

non può trovare in sé, ma solo nel bello, la sua misura

(vive nel riflesso della sua esistenza…).

Nella vita comune ognuno può seguire il proprio gusto

e può sembrargli bello ciò che per un altro è brutto e vi-

ceversa. Ma se si vuole sollevare questa casualità del

giudizio estetico-empirico al di sopra della sua man-

canza di sicurezza e chiarezza, bisogna sottoporla alla

critica, e quindi all’illustrazione dei supremi principi.

L’ambito del bello convenzionale, della moda, è pieno di

fenomeni che, giudicati dall’idea del bello, non possono che

essere definiti brutti, e tuttavia valgano temporaneamente

per belli.

Non perché lo siano in sé e per sé, ma solo perché lo spi-

rito di un’epoca trova proprio in queste forme l’espres-

sione adeguata del suo carattere specifico e si abitua ad

esse.

Nella moda più che altrove accade allo spirito di essere

in corrispondenza con la sua impronta:

qui anche il brutto può servire come mezzo di espressio-

ne adeguata. Mode del passato, soprattutto del passato

recente, di regola vengono giudicate brutte o comiche:

è perché il mutamento di sensibilità può svilupparsi so-

lo per opposizioni.

I cittadini della Roma repubblicana, che sottomisero il

mondo, si rasavano. Cesare e Augusto ancora non por-

tavano barba e solo a partire dall’epoca romantica di

Adriano, quando l’impero cominciava a soccombere

sempre più sotto l’impero dei barbari, la barba folta

divenne moda, come se, sentendosi deboli, ci si voles-

se assicurare sulla propria virilità e baldanza.

(Karl Rosenkranz)





 

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L’HANNO PRESO IN CASTAGNA (3)

Precedente capitolo:

l’hanno preso in castagna 2

Prosegue in:

conversazione con il grande capo &

salustio (sugli dèi e il mondo)

dialoghi con Pietro Autier 2

Foto del blog:

l’hanno preso in castagna &

salustio

sugli dei

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima







 

 

Le castagne hanno ispirato alcuni modi di dire e proverbi, da

cui il più frequente, ‘Prendere in castagna’, significa ‘cogliere in

fallo qualcuno’.

Invece ‘Cavar le castagne dal fuoco con la zampa del gatto’ al-

lude a chi fa qualcosa a suo vantaggio esponendo altri al rischio.

Ormai desuete o rare sono le locuzioni ‘Far le castagne’, ovvero

produrre schiocchi premendo e strisciando con forza il dito pol-

lice contro il medio, e ‘Meno di una castagna’, cioè poco o nulla,

cui si riallaccia il detto ‘Gli è avanzato men d’una castagna’.

Anticamente, come testimonia l’Ariosto, la scorza di castagna

indicava quella particolare tonalità del marrone: ‘Un destrier

baio a scorza di castagna’.

A sua volta la ‘castagna’ di un pugile può sconfiggere l’avversa-

rio; a meno che chi la possiede non si faccia ‘incastagnare’, cioè

mettere in difficoltà.

Una bona ‘castagna’ è anche il tiro secco e violento di un calcia-

tore.

‘Castagnola’ è invece il termine che designa un piccolo petardo,

nell’Italia meridionale, come in Spagna, indica al plurale le

nacchere con il loro suono secco che ricorderebbe quello di due

castagne vivacemente percosse l’una contro l’altra.

‘Marrone’ è detto il frutto di una varietà di castagno; esso è ova-

le, non schiacciato da un lato come la castagna comune perché se

ne forma uno solo per riccio.

Oltre ad avere dato il nome a un celebre dolce, il ‘marron glacé’,

si è trasformato nell’aggettivo che indica quel particolare colore.

Ha ispirato infine alcune locuzioni che hanno assunto significato

negativo: si pensi, per esempio, a ‘marrone’ o ‘smarronare’, nel

senso di dire spropositi, o a ‘marronata’ come clamoroso spropo-

sito.

Fare o commettere un marrone, oppure un ‘marrone madornale’,

significa commettere un grosso errore dovuto a IGNORANZA O,

meno frequentemente, a disattenzione. 

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)




 

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L’HANNO PRESO IN CASTAGNA (2)

Precedente capitolo:

l’hanno preso in castagna 

Prosegue in:

l’hanno preso in castagna 3 &

conversazione con il grande capo &

salustio (sugli dèi e il mondo)

dialoghi con Pietro Autier 2

Foto del blog:

l’hanno preso in castagna

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima

 

frutti di stagione: il castagno generoso (2)

                                                     

 






Le castagne, infatti hanno un alto valore nutritivo, conosciuto

fin dall’antichità.

Ma Plinio non mostrava di apprezzarle molto, tant’è vero che

scriveva:

‘Esse sono protette da una cupola irta di spine, ed è veramente

strano che siano di così scarso valore dei frutti che la natura ha

con tanto zelo occultato.

Sono più buone da mangiare se tostate, vengono anche macinate

e costituiscono una sorta di surrugato del pane durante il digiu-

no delle donne’.

Nonostante le sue riserve, erano consumate abbondantemente

dai Romani, come testimoniano Columella e Apicio. Quest’ulti-

mo offriva anche la ricetta di un piatto di castagne che poteva

sostituire le lenticchie.

A sua volta Marziale, nell’elenco delle vivande servite all’amico

Toronio, ricorda del pranzo ‘castagne a lento fuoco abbrustolite’,

provenienti dalla ‘dotta Napoli’.

Nell’alto Medioevo le castagne entrarono nel patrimonio alimen-

tare del popolo come alimento integrativo o sostitutivo del grano

grazie alla farina che se ne ricavava, o come frutti da minestra al

pari dei legumi o abbinati ai legumi, specialmente alla fava.

‘Appaiono poi le castagne’ scrive Bonvesin de la Riva ‘quelle co-

muni e quelle nobili, vendute per l’intero corso dell’anno, in

quantità immensamente abbondante, tanto ai cittadini quanto ai

forestieri.

Cucinate in diverse maniere, esse rificillano abbondantemente le

nostre famiglie.

Si fanno cuocere verdi sul fuoco e si mangiano dopo gli altri cibi

al posto dei datteri, e a mio giudizio hanno un sapore migliore di

quello dei datteri. Spesso si lessano senza guscio e, cotte,  molti le

mangiano con i cucchiai; oppure, buttata via l’acqua della cottura,

spessissimo le masticano senza pane, o anzi al posto del pane.

Si danno ai malati dopo averle dissecate al sole e poi cotte a fuoco

lento’. 

I naturalisti del Rinascimento, dal Mattioli al Durante, non manca-

vano di sottolinearne i limiti accanto ai pregi, fra cui quello sorpren-

dente di essere afrodisiache.

Scriveva il Durante: ‘Le castagne arrostite sotto la cenere, e mangia-

te con pepe, con sale, o con zuccaro, son meno dure a digerire, me-

no stiticano il corpo, generano ventosità e fanno minor dolore di

testa.

Se si digeriscono danno notabile nutrimento, ma non però buono:

e per essere molto ventose provocano al coito’.

Fin dal Medioevo questi frutti sono stati considerati anche cibo

per i morti, e come tali simbolicamente omologhi alla fave e ai ceci.

A Marsiglia si consigliava di metterne sotto il cuscino per far sì che

gli spiriti non venissero a tirare per i piedi di notte.

Nella Vienne, in Francia, durante la notte che precedeva la Com-

memorazione dei Defunti ci si riuniva nei castagneti per cuocervi

le castagne.

In Piemonte, come a Venezia, venivano consumate, secondo il ri-

to, nel giorno dei Morti, ma anche a San Martino, tant’e vero che

un proverbio rammenta: ‘Oca, castagne e vino, tieni tutto per San

Martino’.

In Val d’Aosta, nel pomeriggio di Ognisanti, nei caffè e nelle

osterie venivano offerte caldarroste agli avventori, mentre nel- 

le famiglie si era soliti cospargerle di grappa e di zucchero e

servirle in tavola alla fiamma.

In Liguria, ricorda il Mantovano, nel giorno dei Defunti si

mangiavano i ‘bacilli’ (fave secche) quanto i ballotti (castagne

fresche bollite con la scorza).

In Brianza si consumavano lesse sia a Ognisanti sia nella festa d

ella Giubianna, che si svolgeva il giovedì grasso ed era dedicata

alle donne.

Infine divennero cibo voluttario venduto dagli ambulanti nelle

vie cittadine, come accade ancora oggi, sebbene in misura mino-

re rispetto al passato. Lo testimonia un’incisione, pubblicata alla

fine del XVI secolo nel repertorio degli ambulanti: ‘Nuovo et ul-

timo ritratto di tutte le arti che vanno vendendo per la città di

Roma’, con le seguenti didascalie in funzione d’imbonimento:

 

‘Maron francesi, delicati e buoni,

mangiarli dopo il pranzo sono buoni.

O là chi è di voi che sia affamato,

eccovi i castagnacci a buon mercato.

Io vo vendendo talora i marroni

un giulio il scorzo, ma son tutti buoni.

Ecco castagne arrosto cotte adesso,

chi le vuol calde mandi presto il messo.

Gridando vo’ per Roma calde alesse

le mani spesso mi scaldo con esse.

E di giorno, e di notte vado a torno

vendendo le castagne cotte al forno.

Chi vuol mangiare dopo pasto marroni

mangi de’ miei, che son tutti buoni.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)



 

 

castanea5.jpg

    

 

L’HANNO PRESO IN CASTAGNA (sapori di stagione)

 l'hanno presso in castagna

Prosegue in:

l’hanno preso in castagna 2 &

conversazione con il grande capo &

salustio (sugli dèi e il mondo)

dialoghi con Pietro Autier 2

Foto del blog:

l’hanno preso in castagna

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima



 

 

                                



Giungono a maturazione in Ottobre le castagne, soprannominate

dai latini ‘ghiande di Zeus’ perché anche quest’albero evocava il 

dio supremo, reggitore dell’ Universo, grazie al suo tronco corto 

possente e ai rami che si allargano in tutti i sensi rendendone la

chioma possente.

Un albero cosmico, forse?

Il suo nome è la traduzione del latino ‘Castanea’, identico al gre-

co che a sua volta deriva da ‘Castanis’, una città del Ponto, in

Asia Minore, dalla quale la pianta passò in Grecia e poi in Italia. 

Il Castagno (Castanea sativa), originario dell’Iran, è una specie

che può facilmente acclimatarsi in ogni regione del nostro conti-

nente, tranne nei terreni calcarei.

Può raggiungere i 30 metri di altezza e i 15 di circonferenza e 

vivere 1000 anni. Celebre per le sue dimensioni fu in Sicilia il

‘castagno dei cento cavalli’ situato sulle pendici dell’Etna, nel

territorio di Sant’Alfio, così detto perché nel XVI secolo Gio-

vanna d’Aragona, sorpresa da un temporale mentre si stava

recando a Napoli dalla Spagna, trovò riparo con tutto il segui-

to, composto di cento cavalieri, sotto le sue fronde.

Sebbene il tronco principale sia bruciato nel 1923, quel casta-

gno appare ancora gigantesco:

suoi attuali quattro polloni hanno una circonferenza comples-

siva di 50 metri. A quest’albero Giovanni Pascoli dedicò in My-

ricae una poesia, in lode del legno e dei frutti che hanno scalda-

to e sfamato generazioni di contadini e montanari:

‘Per te i tuguri sentono il tumulto or del paiolo che inquieto

oscilla;

per te la fiamma sotto quel singulto

                                  crepita e brilla;

tu, pio castagno, solo ti, l’assai

doni al villano che non ha che il sole;

tu solo il chicco, il buon di più, tu dai

                                      alla sua prole;

ha da te la sua bruna vaccherella

tiepido il letto e non desia la stoppia,

ha da te l’avo tremulo la bella

                         fiamma che scoppia.

Scoppia con gioia, stridula la scorza

de’ rami tuoi, co’ frutti tuoi la grata

pentola brontola.

Il vento fa forza

nell’impannata’.

(Florario, Miti, leggende e simboli di fiori e piante)



 

 
 
 
castagne.jpg

CON AFFETTO AL CACCIATORE (un po’ cialtrone, un po’ guardone, …e un po’ idiota….colla sua doppietta)

Prosegue in:

pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2

Foto del blog:

con affetto al cacciatore

Da:

i miei libri &

Frammenti in rima


con affetto al cacciatore

 

 

 





In condizioni ambientali normali, non influenzate dall’-

uomo, gli uccelli migratori non sono più minacciati degli

stanziali, almeno non più degli uccelli annuali che vivono

alle latitudini geografiche più elevate; al contrario. 

Molti dei nostri uccelli stanziali, per mantenere stabili le

loro popolazioni, devono portare a termine più cove all’-

anno, mentre molti migratori di lungo percorso riescono

ad assicurare la propria continuità con una sola cova all’-

anno e con una prole relativamente ridotta; o almeno ci

riuscivano.

I migratori di lungo percorso, grazie ai loro spostamenti

periodici, trascorrono spesso l’intero anno in condizioni

ambientali favorevoli, mentre gli stanziali superiori sono

esposti ai pericoli delle due condizioni invernali, che a

volte causano grandi perdite.

 

con affetto al cacciatore


L’espansione dell’uomo in quasi tutte le regioni della terra,

il forte aumento della popolazione umana e la sua sempre 

maggiore manipolazione della natura hanno prodotto la

generale riduzione delle altre specie animali e vegetali, un

processo che continua con accelerazione crescente.

Dal 1600 a oggi, oltre 140 delle circa 10.000 specie di uccel-

li che vivevano sulla terra sono state sterminate, e un buon

12% sono oggi minacciate nella loro sopravvivenza.

 

con affetto al cacciatore


L’ultima ‘lista rossa’ delle specie avicole nella Repubblica

Federale Tedesca definisce ‘minacciato’ il 55% delle specie;

fra gli stanziali puri è minacciato il 68%, fra i migratori del-

le specie.

Ne deriva che i nostri migratori sono attualmente sottoposti

a minacce ben più gravi del passato.

La causa di ciò risiede nel fatto che essi si trovano esposti in

misura crescente a fattori di pericolo nelle tre diverse aree

che formano il loro spazio vitale, ossia nei quartieri riprodut-

tivi, nelle aree di attraversamento e nelle regioni di sverna-

mento: da qui la particolare gravità delle minacce.

Per proteggere adeguatamente i migratori, si dovrebbero in 

molti casi garantire condizioni di vita soddisfacenti in tutte

e tre le aree, mentre per la protezione delle specie stanziali

si può limitare l’intervento alle regioni riproduttive.

 

con affetto al cacciatore


La caccia e la cattura dei migratori, in parte legale e in

parte illegale, continuano a svolgere un ruolo rilevante,

e in certi casi crescente, nelle regioni di transito come in

quelle di svernamento, e anche in alcuni quartieri ripro-

duttivi delle regioni artiche.

Ancora nel 1998, per esempio, il parlamento francese ha

deciso di prolungare la stagione venatoria per gli uccelli

acquatici e limicoli, a onta delle molte critiche che su que-

sto punto si erano già levate in passato.

Secondo le rassegne di Woldhek e McCulloch, soltanto nel-

l’area mediterranea, parecchie centinaia di milioni di mi-

gratori ogni anno vengono abbattute, o gli animali vengo-

no catturati per essere uccisi o rivenduti.

In Italia, secondo stime attendibili, sono circa 190 milioni. 

L’Italia ha in Europa la massima densità di cacciatori, e

insieme con la Francia la più alta percentuale di cacciatori

in rapporto alla popolazione.

(P. Berthold) 



 

 

con affetto al cacciatore

    

IL PRIMO DIO (La genesi 15)

Precedente capitolo:

la genesi (14)

Prosegue in:

la genesi (16)


 

la genesi 15







Come l’artista scavo la pietra,

animo la scultura della mia illusione

scolpita nel principio di una diversa

passione.

La pietra è più dura di ogni cuore

che incontra la mia penna,

la dura pena per ogni tortura

ombra del loro Dio.

Perché raccontano

che è la più bella visione,

Madonna che aspetta la sua offerta,

con il bambino gravido e senza rancore.   (12, 1)


Era la nostra Dèa nel principio,

prima del libro del profeta,

le hanno rubato il sorriso,

acqua di torrente che sgorga

nella mente.

Mentre Cibele semina il campo

del mio paradiso,

dove coltivo con solo il sorriso,

il frutto proibito tributo

per un nero aguzzino.

Cui debbo anche il dolce vino,

dona l’ebrezza e la comprensione,

una penna che incide la dura pietra

divenuta passione.

Rito nuovo come sangue che sgorga

da una ferita della nuda terra.  (12, 2)


Scavo nella memoria,

scavo nella zolla,

scrivo con l’aratro il sogno nascosto

confuso con il peccato.

La pietra assume visione

di un altro Dio,

per tanti è solo un caprone

mal scolpito.

La pietra mi racconta

un’altra visione,

coniata nel profilo di una moneta,

nella giara antica dove la tomba

l’ha restituita.

Racconta un diverso amore

e la terra di un altro colore.

Racconta la gloria di un altro peccato,

racconta la storia di un altro Dio,

forma la statua di un altro oracolo.

Racchiuso nella pergamena di un filosofo,

raccolto dalla parola di un’astronomo,

raccontato per bocca di uno storico,

intuito nella mente di un matematico.  (12, 3)






 

la genesi 15