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l’uomo bianco nella terra bianca
Da:
“Lindbergh” mi fece conoscere Aslak, un lappone di quelli che
hanno lasciato le montagne, un ragazzone che si adegua al
mondo, e per farsi fotografare dai turisti, con la tunica sgar-
giante – in divisa, se vogliamo – pretende un concreto ricono-
scimento, ma deve studiare e andare in città, se vuol far car-
riera come suo fratello Mutti, che è avvocato, o come Niila,
che lavora in una segheria, o come Journi, che è un bravo
mercante.
E poi si sa che molte cose sono cambiate, e anche i pastori a-
scoltano col transistor le previsioni del tempo, da che parte
si scatena la tempesta, al villaggio è arrivato il juke-box, per
coordinare il raduno del gregge alcuni adoperano il walkie-
talkie, e ci sono dei signori che possiedono più di 10.000 capi,
che si consentono l’elicottero per seguire dall’alto il lento mi-
grare della mandria o per sparare su un branco di lupi.
Aslak mi concesse la sua benevolenza, incoraggiata anche
da stufato di alce con salsa di mirtilli, trota affumicata e ce-
trioli, torta di lamponi; e da rispettosi silenzi riempiti da
qualche brindisi, e da infinite tazze di un lungo caffè, che è
la bevanda nazionale.
Io non gli chiesi mai, come mi avevano raccomandato, quan-
te renne possedesse, lui non volle sapere a quanto ammonta-
va il mio deposito in banca.
Tutti e due delicatissimi.
– Siamo il più antico popolo d’Europa, e il più misterioso.
Si sa poco di noi, neppure quanti sono rimasti (30, 35.000, for-
se), e non contiamo nulla. Una minoranza che non ha peso, e
non vuole neppure averlo.
Senza dramma.
La Lapponia è una realtà geografica, che non ha confini preci-
si. Finiscono addosso a noi quattro Stati: Svezia, Norvegia, Fin-
landia e Urss.
– Lappone, che cosa vuol dire? In svedese ‘correre’ e noi siamo
dei grandi camminatori; in finlandese ‘le terre remote dell’estre-
mo settentrione’ o anche ‘sconoscute’; per qualcun altro signifi-
ca ‘l’ultima frontiera’.
– Di certo, non si sa neppure da dove veniamo: qualcuno so-
stiene che avevamo i nonni mongoli, come gli indios, i cinesi,
gli eschimesi, gli ungheresi. La sola cosa che tutti sono d’accor-
do nel riconoscerci – oltre al fatto che siamo i più piccoli di sta-
tura e già i VICHINGHI per questo ci sfottevano -, è che i no-
stri antenati, 4000 anni fa, guardarono il piede piatto della ren-
na, che scivolava sulla neve, ebbero la buona idea di inventare
gli sci, e un cronista medioevale narra la meraviglia di quegli
uomini che su due pezzi di legno curvati riescono a raggiunger
le bestie selvagge.
– Siamo tipo che si sono sempre contentati di poco, pur di essere
liberi; già Tacito ci criticava, perché pretendevamo – vagabon-
dando, andando contro la natura, il rischio, la solitudine, l’igno-
to – di essere più felici di quelli che si fermavano a sudare nei
campi.
– Ma noi dobbiamo sempre inseguire qualcuno: o i salmoni che
risalgono la corrente per seminare le uova, o la renna randagia
che va a cercare il licheno o la foglia.
(Enzo Biagi, Scandinavia)