COLUI CHE SCELSE IL RITIRO

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Oltre la luce del Tempo

e più veloci della memoria

di ogni trascorsa crociata

della storia.

Più veloci della luce

che pur veloce

è immobile e prigioniera

della loro storia…



 

 

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colui che scelse il ritiro

 

IL CANE


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Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di

polizia Ocumelov in cappotto nuovo e con un fagottino in ma-

no.

Dietro a lui cammina una guardia dai capelli rossicci con un

setaccio colmo fino all’orlo di uva spina sequestrata.

All’ingiro silenzio….

Sulla piazza non un’anima….

Le porte aperte delle botteghe e delle bettole guardano triste-

mente il mondo creato, come fauci affamate; accanto ad esse non

ci sono neppur mendicanti.

– E così tu mordi, maledetto!

ode ad un tratto Ocumelov.

– Ragazzi, non lasciatelo scappare! Oggidì è proibito mordere!

– Tienilo! A…ah!

Si sente uno strillo canino.

Ocumelov guarda da un lato e vede che dal deposito del mercante

Picugin, saltando su tre zampe e voltandosi indietro, corre via un

cane. 

Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e panciotto

sbottonato.

Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a terra e

afferra il cane per le zampe posteriori.

Si sente un secondo guaito e il grido.

– Non lasciarlo andare!

Dalle botteghe si affacciano fisionomie assonnate e ben presto vici-

no al deposito di legna, come spuntata da sotterra, si raduna una

folla.

– Qualche disordine, pare, signoria!

dice la guardia.

Proprio vicino al portone del deposito vede che sta l’uomo sopra

descritto e, levando la mano destra, mostra alla folla un dito insan-

guinato.

Sulla sua faccia semiebbra par che sia scritto:

– Ora ti stronco, furfante!

e anche il dito stesso ha l’aspetto d’un segno di vittoria.

(……)

– Uhm!….Bene,

dice Ocumelov severamente, tossendo e muovendo i sopraccigli.

– Bene….

– Di chi è il cane?

(….)

– E tenere un simile cane?!

– …Ma dove ce l’avete l’intelligenza?

– Se s’incontrasse un cane simile a Pietroburgo o a Mosca, sapete

che avverrebbe?

– Là non guarderebbero nella legge, ma sul momento: muori!

– Tu, Chrjukin, hai patito un danno e non lasciar questa faccenda

così….

– E’ necessario dare una lezione!

– E ora….

– Ma fors’ anche è del generale…,

pensa ad alta voce la guardia.

– Sul muso non ce l’ha scritto…. Giorni fa nel cortile ne vidi uno

così.

– Si sa, è del generale,

dice una voce dalla folla.

– Uhm! …..Mettimi addosso, caro Eldirin, il cappotto….Tira un po’

di vento…

– Ho dei brividi….Tu lo porterai dal generale e là domanderai.

– Dirai che l’ho trovato e mandato io….E di’ che non lo lascino andar

sulla strada…

– Forse è di prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci

vorrà molto a rovinarlo?

– Il cane è una bestia delicata…

– E tu, tanghero, abbassa la mano! Non hai da mettere in mostra il

tuo stupido dito! Tu stesso ci hai colpa!….

– Viene il cuoco del generale, gli domanderemo….Ehi, Prochor!

Vieni un po’ qua’, caro! Da un’occhiata al cane…E’ vostro?

– Che idea! Di simili da noi non ce sono stati mai.

– E qui non c’è da far tante domande,

dice Ocumelov.

– E’ un cane randagio! Non c’è da far lunghi discorsi….Se ho detto

ch’è randagio vuol dire ch’è randagio.

– Sopprimerlo, ecco tutto.

– Non è nostro,

continua Prochor.

– E’ del fratello del generale, ch’è arrivato l’altro giorno. Il nostro

non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha la passione….

– Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanyc?

domanda Ocumelov, e tutta la sua faccia s’inonda d’un sorriso

d’intenerimento.

– Guarda un po’, Signore! E io che non lo sapevo!

– E’ venuto in visita per un po’ di tempo?

– In visita…

– Guarda un po’, Signore!….Sentiva la mancanza del fratello….

E io nemmeno lo sapevo! Così questo è il suo cagnolino?

Molto piacere….

– Prendilo….Il cagnuzzo non è male….

– E’ così vispo….Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-ah!

– Su via, perché tremi? Rrr…..Rrrr…Si arrabbia il briccone…è un

tal cagnetto….

Prochor chiama il cane e s’allontana con esso dal deposito di

legna…

(Anton Cechov, Il camaleonte)







 

il cane


DANTE L’ERETICO

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Le ultime ore della notte Dante le passò nella chiaroveggenza dell’-

insonnia, a meditare sulla morte e sulla resurrezione.

Dopo andò al balcone della stanza con un lume, l’astrolabio e un

trattato sul modo di usarlo.

Incominciò a misurare e a far calcoli, ma questo esercizio intellettua-

le che di solito gli procurava grande diletto, quella notte invece gli

faceva sentire quanto è lontana l’astronomia dalle altitudini celesti.

Allora spense il lume e mise da parte la scienza.

Puntò i gomiti sulla balaustra, il mento appoggiato al cavo delle

mani, abbandonandosi alla pura visione dei cieli. Nella stessa po-

sizione lo trovò la figlia quando entrò nella stanza.

Visto di profilo sembrava di pietra, l’occhio fisso alla stella del

mattino.

Antonia, che gli portava del pane e una tazza di latte, depose tutto

sulla cassapanca e poi lo chiamò:

– Padre….

Dante fu scosso come un brivido.


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Voltò lento le spalle e il viso che apparve veramente come pietri-

ficato in un’espressione di uomo lontano con la mente, da Cristo

della memoria, anche se pian piano si sciolse in un sorriso, ritro-

vandosi in sua figlia come davanti a uno specchio che ci restituisca

i ricordi e il riflesso dei nostri lineamenti giovanili.

Quindi andò a sedersi sulla cassapanca, prese la tazza di latte e vi

intinse il primo boccone di pane. Antonia intanto si guardava attor-

no.

Avvicinatasi al letto ancora intatto, fece il gesto di riassettare il len-

zuolo, che per la verità non mostrava nemmeno una piega.

– Non hai riposato nemmeno un momento?

chiese al padre.

– E sprecare nel sonno il tempo che ancora mi è dato da vivere a

questo mondo?

rispose Dante.

– Comunque non avrei dormito. Alla mia età è faticoso anche dor-

mire.

Antonia invece conosceva l’abitudine paterna di dormire un po’ il

sonno dei bambini, dove capita, magari anche di giorno, in modo

breve e intenso.

Non credeva all’opinione per cui nell’insonnia dei vecchi ci sarebbe

il presentimento del sonno eterno.

Continuò così a controllare che nulla fosse fuori posto nella stanza.

Le labbra bagnate di latte, Dante seguiva i movimenti della figlia.

Accarezzandola con lo sguardo pensava:

– Indugia solo perché vuole restare ancora un poco. Vuole chiedermi

qualcosa.


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Senza una parola, Antonia uscì dalla stanza e vi ritornò dopo un

minuto con un cardellino senza vita fra le mani, quello che aveva

ricevuto in dono da Costanza. Gli baciò il becco e si mise a canti-

lenare:

“Morte villana di pietà antica, di dolore madre antica….”

– Quand’è successo?

chiese Dante smettendo di mangiare.

– Ieri prima del vespro,

disse Antonia deponendo la creatura sullo scriptorium,

– ma la cosa incredibile è il modo in cui è successo.

– La gabbia, tu l’hai vista, è appesa alla finestra della mia stanza.

Mi è sembrato triste per tutta la giornata, ma verso sera diventa

inquieto.

Mi fa pena vederlo tentare il volo, con le ali ormai tarpate.

Esco un momento.

Quando ritorno, credo di assistere a un prodigio: la gabbietta è

avvolta da una nuvola di piume. Ci sono decine di cardellini che

a colpi di becco cercano di espugnarla.

La scena ti assicuro, è chiarissima: gli uccelli cercano il modo di

far fuggire il prigioniero. Uno spirito, un sentimento li muove al-

l’assalto, e io lo avverto senza ombra di dubbio.

D’un tratto sembrano capire che non ce la faranno mai.

Allora si posano sul davanzale, poi volano via, tutti insieme.

Prima di andarsene, però, mi sembra che confabulino qualcosa.

Dopo un po’ vedo ritornare un cardellino, uno solo…..

(Enzo Fontana, Fra la perduta gente)





 

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UN UOMO (3)

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un uomo 3

 

 





Naturalmente tutto ciò assume sfumature diverse secondo il

partito.

Ovvio un partito con una ideologia precisa, una teoria cristal-

lizzata, è il più feroce nell’esigere ubbidienza e fedeltà, nel re-

primere l’apporto creativo dell’individuo: più una chiesa è

rigorosa, più rifiuta i protestanti e condanna al rogo gli eretici.

Paradossalmente però, gli abusi e le infamie che una simile

chiesa commette sui suoi adepti hanno un senso, una giustifi-

cazione: la forza della sua fede, la nobiltà almeno apparente

dei suoi programmi o propositi. 

Io ti schiaccio perché voglio creare in terra il Regno dei Cieli,

perché lo voglio creare grazie al dogma del materialismo sto-

rico.

Invece un partito che non ha una teoria né un modello ideologico,

un partito che non sa cosa vuole né come lo vuole, non può porta-

re a sua discolpa neanche motivi ideali.

Di conseguenza, i suoi abusi e le sue infamie e le sue pretese di

ubbidienza, di fedeltà, sono imposte da arrivismi personali, am-

bizioni private.

Cricche dentro la cricca, mafie dentro la mafia, cede dentro la

chiesa, e con l’aggravvante di una malattia che nei partiti senza

dottrina è contagiosa quanto la peste: la corruttibilità e la corru-

zione degli yes-men.

In altre parole, se il partito dottrinato schiaccia coi suoi principii

chi protesta o disubbidisce, il partito che non sa cosa vuole né

come lo vuole rigetta come un corpo estraneo chi non si adegua

alla sua assenza di principii, cioè alle sue menzogne, alle sue

ipocrisie, alle sue clientele.

(Oriana Fallaci, Un Uomo)





 

un uomo 3

 

UN UOMO (contro un muro)

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un uomo

 

 







Un individualista con fantasia e dignità non può appartenere a

un partito.

Per il semplice fatto che un partito è un partito, cioè un’organiz-

zazione, una cricca, una mafia, nel migliore dei casi una setta che

non permette ai suoi adepti di esprimere la propria personalità,

la propria creatività.

Anzi gliela distrugge o almeno gliela piega.

Un partito non ha bisogno di individui con personalità, creatività:

ha bisogno di burocrati, di funzionari, di servi. 

Un partito funziona come un’azienda, un’industria dove il diretto-

re generale e il consiglio di amministrazione (il comitato centrale)

detengono un potere irraggiungibile e indivisibile. Per detenerlo

assumono soltanto manager ubbidienti, impiegati servili, yes-men,

cioè gli uomini che non sono uomini, gli automi che dicono 

sempre sì.

In un azienda, un’industria, il direttore generale e il consiglio di

amministrazione non sanno cosa farsene delle persone intelligenti

e fornite di iniziativa, degli uomini e delle donne che dicono no, 

e questo per un motivo che supera perfino la loro (infinita) arro-

ganza: pensando e agendo gli uomini e le donne che dicono no

costituiscono un elemento di disturbo e di sabotaggio, mettono

rena negli ingranaggi della macchina, diventano sassi che rom-

pono le uova nel paniere.

L’ossatura di un partito e di un’azienda, insomma, è quella di

un esercito dove il soldato ubbidisce (come un burattino) al

caporale che a sua volta ubbidisce al sergente che a sua volta

ubbidisce al tenente che a sua volta ubbidisce al capitano che

a sua volta ubbidisce al colonnello che a sua volta ubbidisce

al generale che a sua volta ubbidisce allo Stato maggiore che

a sua volta ubbidisce al ministro della Difesa: preti, monsigno-

ri, vescovi, arcivescovi, cardinali, Curia, Papa.

Guai all’illuso che crede di portare un contributo personale

con la discussione e lo scambio di vedute: finisce espulso o

degradato o lapidato, come si conviene a chi non è in grado di

capire o finge di non capire che un partito, un’azienda, si con-

sente solo di discutere su ordini già dati, scelte già fatte.

Purché, è sottinteso, la discussione non prescinda dai due sa-

cri principi: ubbidienza e fedeltà.

(O. Fallaci, Un Uomo)





 

 

un uomo

        

IL LIBRO TIBETANO DEI MORTI (3)

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Questa è la condizione più importante del riconoscimento

che ti dovrà salvare…


(prega insieme a me):


‘Ohimè,

In questo momento, quando mi appare lo stato dell’esistenza

intermedia in cui si entra dal piano esistenziale, facendo dile-

guare le immagini terribili paurose e spaventose (che mi com-

parissero innanzi), io debbo riconoscere che quelle imagini so-

no imaginazioni del mio pensiero; le debbo riconoscere come

imagini proprie dello stato dell’esistenza intermedia.

In questo momento mi trovo in una situazione che può ostaco-

lare il supremo mio bene; non mi debbo impaurire delle deità

beatifiche e terrifiche che mi appariranno e che sono imagini del

mio stesso (pensiero)’.

Ripetendo queste parole in maniera chiara e tenendo bene a men-

te il loro significato va’ pure. La cosa più importante perché av-

venga quel riconoscimento è la consapevolezza che le imagini

terrifiche paurose e spaventose che sorgeranno sono visioni del

tuo pensiero; non dimenticare dunque queste parole.

O figlio di nobile famiglia, nel momento in cui il tuo corpo e la

tua mente si separano, avrai esperienza delle imagini del piano

esistenziale, puro, sottile, scintillante, luminoso, per sua propria

natura abbagliante di una luce che sgomenta come il miraggio che

appare con scintilli sui pianori deserti; di queste visioni; non spa-

ventarti, non aver paura; questo è il balenio del piano esistenziale

che è in te.

Riconoscilo come tale. Dal mezzo di quella luce, il suono dell’esis-

tenzialità con voce violenta verrà come rombo di mille tuoni che

scoppiano nello stesso momento. Questo è il suono del piano esis-

tenziale in te stesso (racchiuso); perciò non spaventarti, non aver

paura.

Adesso tu hai un corpo mentale costituito dalle propensioni del

tuo carma, non più un corpo materiale fatto di sangue e di carne.

Da quel suono, da quella luce, da quei balenii non ti può venire

né offesa né morte. Riconosci soltanto queste cose come tue pro-

prie imaginazioni; riconosci che tutto questo è lo stato ell’esisten-

za intermedia.

O figlio di nobile famiglia, se tu così non riconosci, quali siano

state le esperienze della tua mediazione mentre eri in vita, non

ricorrendo adesso a queste istruzioni, avrai timore di quella luce,

avrai spavento di quel suono, avrai paura di quel balenio.

Se non sarai consapevole della grande importanza di queste istru-

zioni, non riconoscendo che cosa siano quel suono, quella luce e

quel balenio, vagherai nel giro delle nascite e delle morti.

(Il Libro Tibetano dei morti)






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IL LIBRO TIBETANO DEI MORTI (2)

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Ora dunque, senza distrarti,                             

devi renderti padrone delle istruzioni

che dirò;

esse serviranno a farti riconoscere

questo stato dell’esistenza intermedia.

O figlio di nobile famiglia!

E’ arrivata quella che si chiama morte;

che è la dipartita da questo mondo

e non capita soltanto a te,

ma viene a tutti;

non restare attaccato,                        

desideroso e voglioso di

questa vita.

Anche se tu lo fossi

non avresti potere

(di cambiare la tua sorte),

non te ne verrebbe altra

cosa che seguitare a vagare

nel giro delle esistenze.

Non essere desideroso o

voglioso di questa

vita.                                               

Ricordati delle tre

Gemme Preziose.

O figlio di nobile famiglia!

Quando le paurose

e spaventose visioni

dell’esistenza

intermedia del piano

esistenziale ti

appariranno, non

dimenticare queste

parole ma va avanti,

tenendone bene a mente

il senso.

(Il Libro Tibetano dei morti)






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IL LIBRO TIBETANO DEI MORTI (1)

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O figlio di nobile famiglia, ascolta                

senza distrarti e con forte attenzione.

Lo stato dell’esistenza intermedia è di sei

specie: la matrice, lo stato di sogno, il

raccoglimento della concentarzione, il

momento della morte, il piano esistenziale e

l’imminenza a trasmigrare secondo                              

un processo inverso a quello detto

nel duodecuplo nesso causale.

Figlio di nobile famiglia,

per te sono possibili tre specie di

esistenza intermedia: quella che

compare al momento della morte,

quella del piano esistenziale e quella

protesa verso lo sviluppo samsarico.

Fino a ieri tu sei stato nell’esistenza

intermedia che si manifesta al momento                        

della morte; sebbene ti apparisse la

luce essenziale tu non l’hai

riconosciuta e così è inevitabile che qui,

nell’esistenza samsarica tu vaghi.

Adesso ti restano ancora due specie

di esistenze intermedie: quella

dell’esistenzialità e quella protesa verso lo

sviluppo samsarico.

(Il Libro Tibetano dei morti)





 

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