Richiesto di dare un giudizio sintetico su ciò che avesse
rappresentato Django Reinhardt nella storia della musica
jazz, André Hodeir, pur confermando l’ammirazione per
il suo talento, definì il famoso chitarrista zingaro un ‘in-
cidente pittoresco piuttosto che un avvenimento storico’.
E’ una definizione meditata, che si può sottoscrivere.
Django fu un musicista geniale che non si inserì minima-
mente nella viva corrente del jazz, di cui restò ai margi-
ni.
Fu invece un personaggio pittoresco quanto emblemati-
co della vicenda jazzistica europea, di cui illustrò meglio
di chiunque altro le intrinseche contraddizioni. Fu anche
il più dotato musicista che l’Europa abbia espresso nel
campo del jazz, e fu, fra tutti, il più originale, ma proprio
per questo fu fino all’ultimo un outsider.
Il jazz, espressione musicale di una diversissima cultura,
ignorò la sua lezione e non tenne conto del suo esempio.
E chi ora si domanda se Django, dopotutto abbia fatto
dell’autentico jazz, ha validi argomenti per concludere
in senso negativo.
Django si innamorò del jazz, lo vagheggiò da lontano, sen-
za conoscerlo a fondo, e, nell’ambito di certe sue regole di
linguaggio, improvvisando secondo la logica jazzistica,
fece una musica tutta sua, che suscitò l’ammirazione an-
che dei più grandi jazzisti americani, ma non fece scuola.
Trovò solo qualche imitatore in Europa e certi suoi manie-
rismi entrarono a far parte del linguaggio di qualche stru-
mentista americano di secondaria importanza (Les Paul,
per esempio), ma fu tutto.
Troppo poco per uno che sopravanzò di molto tutti i chi-
tarristi del jazz che lo avevano preceduto. Django fu dun-
que un caso, un fenomeno isolato e irripetibile, ed è possi-
bile che negli ultimi anni della sua vita se ne fosse confu-
samente reso conto.
Se avesse vissuto più a lungo, avrebbe rischiato di essere
messo in un canto dalla generazione dei musicisti che nel
secondo dopoguerra, ebbero modo di conoscere meglio la
musica inventata dagli afro-americani.
Sempre che Django che era un uomo di smisurato orgo-
glio, avesse consentito che lo si umiliasse in quel modo;
più probabilmente si sarebbe messo ancora una volta
in viaggio, su qualche strada secondaria, confuso fra
gli zingari di una carovana, come aveva fatto tanto
spesso anche negli anni della sua maggior gloria.
Gli altri, i non zingari, i ‘paesani‘, come li chiamavano
quelli della sua gente, si preoccupavano di cose che lui
non comprese mai del tutto.
La scrupolosa osservanza dei contratti, per esempio, o
l’occulta amministrazione del danaro, per lui erano co-
se prive di senso, indici semmai di una mentalità me-
schina.
Era nato zingaro, infatti, e zingaro rimase sempre.
Nel mondo dei paesani, del resto, non era entrato di sua
spontanea volontà.
Ce lo avevano tirato dentro, cercando di costringerlo a
vivere secondo le regole dei musicisti, e in mezzo a loro
un pittore, Emile Savitry, che, impressionati del suo talen-
to lo aiutarono a muovere i primi passi nell’allora minu-
scolo ambiente del jazz francese.
Questo avvenne intorno al 1928, e cioè quando Django,
era adoloscente e suonava già professionalmente da
qualche anno.
Era entrato i possesso di una chitarra – banjo chitarra – a
dodici anni, e aveva avuto tutto il tempo di imparare a
suonarla, a orecchio, perché al pari dei suoi molti ‘cugini’
si era guardato bene dal frequentare una qualsiasi scuo-
la.
C’era stato un giorno soltanto e gli era bastato: nessuno
si curò mai di insegnargli a leggere e a scrivere finché
molti anni dopo, quando era già un musicista affermato,
il violinista Stéphane Grappelli, vergognandosi un poco
della rozzezza del suo patner, non gli insegnò a compi-
tare almeno il suo nome perché potesse firmare assieme
a lui i contratti e concedere gli autografi ai molti che gli-
eli chiedevano.
Django abitò durante i primi anni della sua vita in una
roulotte, alla periferia di Parigi, ma non era nato lì.
Aveva visto la luce a Liverchies, in Belgio, il 23 gennaio
1910, durante una sosta della carovana di cui facevano
parte i suoi genitori e non si era fermato alle porte di Pa-
rigi se non dopo aver girovagato in Italia e in Algeria.
Era ormai un buon strumentista, che si guadagnava da
vivere suonando il banjo per il bal musette, quando rima-
se vittima di un incidente che per poco non gli costò la
vita: la roulotte in cui si trovava prese improvvisamente
fuoco, a causa di una sua disattenzione, e Django riportò
gravissime ustioni.
Il mignolo e l’anulare della mano sinistra restarono quasi
del tutto paralizzati: una menomazione gravissima per
un chitarrista, ma non per un giovane orgoglioso come lui,
che, superando infinite difficoltà, riuscì a mettere a punto
una nuova tecnica strumentale, che prescindeva, o quasi,
dall’uso delle dita lese.