VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): Django Reinhardt (5)

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(Django 4)

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Dialoghi con Pietro Autier 2 &

pagine di storia &

gli occhi di Atget

Da:

i miei libri




viaggi in altri mondi (e tempi): il jazz (django reinhardt) (12)









I primi anni della sua carriera, dopo la costituzione del

quintetto a corde, furono particolarmente eccitanti:

Django veniva scoperto da un pubblico sempre più va-

sto ed entusiasta, e lui a sua volta poteva entrare in con-

tatto con alcuni grandi del jazz d’oltre oceano, di cui fi-

no allora aveva sentito parlare come di personaggi miti-

ci e che aveva conosciuto attraverso i dischi.

Conobbe Louis Armstrong, i cui primi dischi lo avevano

commosso fino alle lacrime, e una notte, all’alba, suonò

con lui nel club, a Parigi; poi incontrò Eddie South, il vio-

linista negro, e Coleman Hawkins e Benny Carter, esuli in

Europa, coi quali suonò tante volte in jam-session e inci-

se dei dischi importanti, nel 1937, per l’etichetta Swing.

Infine, nel 1939, per un breve ma emozionante momen-

to, si trovò a fianco di Duke Ellington, che si sarebbe ri-

cordato di lui anni dopo.

Intanto dal 1936, erano cominciate le tournées all’estero

del quintetto dell’Hot de France. La prima lo aveva porta-

to a Barcellona, poi vennero delle scritture in Olanda, in

Belgio, in Scandinavia e soprattutto in Inghilterra, dove il

complesso arrivò per la prima volta nel gennaio 1938 e ri-

tornò in seguito per dei lunghi soggiorni.

Nel frattempo i dischi del quintetto si erano moltiplicati.

Ai primi, incisi a Parigi per la Ultraphone, nel dicembre

1934, ne erano seguiti decine di altri per la Decca, in par-

te registrati a Londra, e quasi tutti si erano venduti benis-

simo, e non solo in Europa.


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Lo scoppio della guerra sorprese il quintetto a Londra e lo

fece andare a pezzi. Django, appena ebbe appreso la noti-

zia dell’inizio delle ostilità, tornò difilato a Parigi, senza

neppure curarsi di far le valigie e di prendere con sé la

chitarra; Grappelli invece se la prese comoda e finì per re-

stare in Inghilterra fino al 1947.

Per tutta la durata della guerra Django visse col cuore in

gola, fra mille paure. Scegliendo le sue nuove abitazioni a-

veva cura di domiciliarsi nei pressi dei più sicuri rifugi an-

tiaerei della città.

Tuttavia aveva più ragioni per essere soddisfatto che per

essere preoccupato: i primi anni di guerra furono infatti

i migliori della sua carriera.

Ora aveva dei complessi suoi, e aveva avuto la fortuna di

trovare, in sostituzione di Grappelli, un ottimo clarinetti-

sta in Hubert Rostaig; con quei gruppi diede numerosi con-

certi, nel 1940 e nel 1941 a Parigi e in provincia e sempre

con esito trionfale.

(A. Polillo, Jazz)





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VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): Django Reinhardt (4)

viaggi in altri mondi (e tempi): il jazz (django reinhardt) (11)

 
 
 
 
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I musicisti ambulanti di quel periodo avevano un grande

successo, perché il pubblico era più avido di imparare le

canzoni alla moda piuttosto che concentrasi sulle opere

dei maestri del passato.

Un documentario datato 1929 – Nogent, eldorado della do-

menica – ci mostra oltre l’atmosfera delle balere sulla riva

della Marna, dove il giovanissimo Tony Murena aveva

appena debuttato al Casinò du Viaduc, la popolarità dei

cantanti di strada, muniti di megafono e accompagnati

dalla fisarmonica, dal banjo e dalla batteria.

L’autore di questo cortometraggio, Marcel Carné, chie-

derà nel 1947 a Django di comporre la musica del film

La Fleur de l’age che però rimase incompiuto.

Strano fenomeno il destino di questi artisti, dalle espres-

sioni e dagli ambienti così estranei, che proseguono al-

la cieca, in balia di vocazioni e tribolazioni esistenziali,

finché un giorno convergono verso uno stesso punto e

danno vita a un’opera, uno stile, una scuola.

Come fu possibile l’abbinamento fecondo di Django,

musicista di origini e caratteri così diversi?


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Secondo Grappelli, i fratelli Reinhardt avevano una certa

notorietà nel suo quartiere di Rochechouart come musici-

sti ambulanti; anche lui nei giorni magri chiedeva l’elemo-

sina, e così si erano incontrati alla svolta di un cortile.

Più tardi, nel 1931, aveva ascoltato di nuovo i due manou-

che nella terrazza del caffè Le Cancan a Pigalle, punto d’in-

contro dei musicisti dei balli parigini. Django, con la mano

sinistra fasciata, suonava ancora il banjo e Joseph la chitar-

ra.

In realtà, sempre apprezzato per la sua potenza sonora, il

famoso banjo persisterà tra i musicisti di strada fino alla

fine degli anni Trenta; ci dimentichiamo troppo spesso che

la Parigi di quei tempi non era silenziosa e vi erano degli

ingorghi mostruosi di cui oggi non abbiamo idea.

Le strade pavimentate risuonavano dello scoppiettìo delle

macchine, del clicchettìo delle carrozze, dello sferragliamen-

to dei tram, tutto ciò ravvivato dalle grida dei piccoli artigi-

ani e dal baccano dei clacson delle automobili.


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La chitarra e il violino non avevano molte possibilità di essere

ascoltati.  Per questa ragione, gli strumentisti a corda preferi-

vano suonare nei cortili dei palazzi dove l’acustica era miglio-

re.

Pensando alla silhouette elegante di Stéphane Grappelli non

riusciamo a immaginarcelo come violinista errante; eppure lui

ricorda di aver mendicato, se non altro per comprare una sca-

tola di fiammiferi.

‘Per andare a fare la spesa andavo a dare lezioni’, ironizza oggi.

Vita più tormentata di quel che sembra, tutto sommato, rispet-

to al suo eterno sorriso e alla serenità apparente della sua mu-

sica: dopo un’infanzia ‘alla Dickens’, come nota con una certa

amarezza, Stéphane si ritrovò in balìa di se stesso.

Nato a Parigi nel 1908 a Lariboisière, ‘l’ospedale dei poveri’

dove Django fu ammesso d’urgenza vent’anni dopo, comin-

ciò a dieci anni a suonare il violino che un vicino calzolaio,

mandolinista a tempo perso, aveva regalato al padre.

Dopo una settimana, il piccolo Stéphane eseguiva già la Se-

renata di Toselli con una certa destrezza.

Debutto così promettente che al giovane prodigio fu propo-

sta una sostituzione in un ballo di capodanno a Etampes.


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Fece diversi mestieri, prima di ritrovarsi nel 1924, all’età di

quindici anni, in un gruppo ambulante napoletano, chitar-

re e banjo-mandolini, degno del futuro Quintette a corda.

Ma il musicista in carica, un chitarrista di nome Lopez,

stravedeva solo per le barcarole e le tarantelle.

E di nuovo la vita alla giornata di un ragazzino di Parigi, il

cui padre, latinista distratto, si immergeva in Virgilio, men-

tre lui si tuffava nella vita per guadagnarsela.

Suonò così nei cortili, nei ristoranti e durante i banchetti pol-

che piccate e serenate, finché un giorno riuscì a farsi assume-

re nelle orchestre di fossa dei cinema muti, grazie alle sue

conoscenze di solfeggio, che aveva imparato dietro consiglio

del padre.

Con il posto di ‘concertino’ (secondo violino), al Teatro Gau-

mont, sui boulevard, Grappelli poté perfezionare la sua tec-

nica presso un certo Meunier, primo violino, e iniziarsi al

pianoforte suonando dei ragtime e improvvisando durante

gli intervalli.

Mestiere difficile quello della fossa; perché se a volte la mu-

sica lasciava il tempo al musicista di seguire il film, con cer-

te partiture più complesse, quale La Congiura dei potenti di

Henri Rabaud, che Grappelli ricorda ancora con terrore, non

era proprio il caso di ammirare il talento di Charles Dullin.

E poi c’erano tre proiezioni al giorno.

Ma quello stesso anno 1925, Stéphane Grappelli fece una sco-

perta decisiva frequentando, lì vicino, un negozio di apparec-

chi a dischi, che funzionavano con le monetine e diffondeva-

no il jazz: Bix Beiderbecke, Eddie Lang e Frankie Trumbauer.

Si entusiasmò per questa nuova musica e comprò un piccolo

fonografo per suonarci senza sosta le cere di Louis Armstrong

e, più tardi quelle di Art Tatum, il suo pianista prediletto.

(Billard/Antonietto, Django Reinhardt il gigante del jazz tzigano)





 

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VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): Django Reinhardt) (3)

viaggi in altri mondi (e tempi): il jazz (django reinhardt) (10)



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Oltre che sotto la protezione di Savitry, che può veramente

essere considerato il suo scopritore, Django mosse i primi

passi, come musicista jazz, col pianista Stéphen Mougin, uno

dei pionieri della nuova musica americana, in Francia, e poi

col contrabbasista Louis Vola, che fu il caporchestra a Tolone

e a Cannes e infine a Parigi, dove la sua formazione esordì

nel dicembre del 1932.

Django era già l’oggetto della più viva ammirazione da par-

te di alcuni notevoli personaggi della scena musicale parigi-

na quando Savitry suggerì a Pierre Nourry, segretario del

neonato Hot Club de France, di presentare il suo pupillo in

uno dei concerti che l’associazione si proponeva di organiz-

 

viaggi in altri mondi (e tempi): il jazz (django reinhardt) (10)


zare periodicamente.  Nourry si diede subito da fare:

rintracciò il chitarrista nella sua roulotte alla periferia della

città e gli fece incidere qualche faccia di disco che sottopose

quindi al giudizio di alcuni esperti.

Poi organizzò un primo concerto.

‘Si può dire che fu lui la rivelazione del concerto’.

Scrisse allora Jacques Bureau, nel dar conto della manife-

stazione e in particolare della prestazione del chitarrista:

‘E’ un musicista molto curioso il cui stile non assomiglia a

nessun altro conosciuto noi abbiamo ora a Parigi un gran-

de improvvisatore, inoltre, Django è un ragazzo affasci-

nante che sembra mettere nella sua vita la stessa lieve

fantasia che illumina i suoi assoli….’.

L’idea di formare attorno al chitarrista zingaro un quin-

tetto a corde nacque poco dopo, quando Django e Grap-

pelli si ritrovarono, insieme ad altri fra cui il chitarrista

Roger Chaput, in un’orchestra che Louis Vola aveva costi-

tuito per suonare all’ora del tè all’Hotel Claridge

Era un’orchestra qualsiasi dove Django suonava soltanto

quando ne aveva voglia; era però un punto di riferimento

per lui, che spesso, negli intervalli, si misurava in jam ses-

sion col violinista, il chitarrista e il contrabbasista, diver-

tendosi un mondo.

Con l’aggiunta di un terzo chitarrista, nella persona del

fratello di Django, Joseph, e sotto l’insegna dell‘Hot Club

de France, che ne assunse il patrocinio, quello che sareb-

be divenuto il più famoso complessino di jazz europeo

attivo fra le due guerre iniziò la sua vita, nel dicembre

1934, con un concerto all’Ecole Normale de Musique di

Parigi.

Fu una vita intermittente, e non certo pacifica, sia per

l’estrosità del carattere di Django, che spesso scompari-

va improvvisamente mettendo in difficoltà i colleghi,

sia per la cordiale discordia che regnava fra lui


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e l’altra vedette della formazione, Stephane Grappelli, tanto

congeniale a lui sul piano musicale quanto scarsamente

compatibile con lui su quello umano.

Il violinista aveva solo due anni più del chitarrista ma era

lontano le mille miglia per mentalità, educazione e abitudi-

ni.

Era un uomo raffinato, preciso, parsimonioso, quanto l’altro

era selvaggio, imprevedibile, dissipatore.

D’altro canto non era facile neppure per gli altri andare d’-

accordo con un uomo che, non conoscendo il valore del da-

naro e dei contratti e sopravvalutando il proprio, poteva

riservare a chiunque, e in particolare ai colleghi e a chi lo

scritturava, le più spiacevoli sorprese.

(A. Polillo, Jazz)





 

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VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): Django Reinhardt (2)

intervallo....o cambiamento di scenario (il jazz,django reinhardt) (9)


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(Django 1)

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(Django 3)

Dialoghi con Pietro Autier 2

Pagine di storia







Django restò in ospedale fino all’aprile del 1939 e quando

uscì molte cose erano…..


intervallo....o cambiamento di scenario (il jazz,django reinhardt) (9)


cambiate nel mondo della musica. Curiosamente, il suo

periodo d’inattività era coinciso con una fase di transi-

zione nell’evoluzione della musica sincopata in Francia.

Nello stesso modo in cui il giovane banjoista, ricoverato

in ospedale nel 1928, ne era uscito diciotto mesi più tardi

più maturo e chitarrista, anche il jazz nel frattempo era

diventato più adulto. 

Basta con le buffonate ereditate dai minstrels, il fracasso

approssimativo. Nelle orchestre, l’opacità di pelle dell’-

arcaico banjo faceva spazio a poco a poco al timbro lu-

cido delle prime chitarre di jazz, mentre il contrabbasso

a corda, più maneggevole, soppiantava progressivamen-

te la pesante tuba.

Anche i ritmi si ammorbidivano, si facevano meno saltel-

lanti e gli ottoni stessi, temperando il loro scoppio, permet-

tevano al jazz di essere ammesso nell’atmosfera ovattata

dei locali notturni della capitale, avvicendandosi al folclo-

re tzigano e alla canzone russa.

Certo il musette rimarrà a lungo vivace e ancorato ai costu-

mi popolari dei parigini, ma nel mondo versatile dei ricchi

nottambuli era certamente passato di moda e d’ora in poi

l’élite non si avventurava più nelle sale da ballo  di rue de

Lappe, preferendo i cabaret selezionati dove si esibivano i

jazzisti neri e i musicisti tzigani.

Del resto, alcuni fisarmonicisti come Marceau, Médard Fer-

rero o Adholphe Deprince rifiutavano ora ogni assimilazio-

ne al genere musette.

Questi virtuosi suonavano spesso seguendo lo spartito,

cosa rara a quell’epoca, e senza l’accordatura a forti vi-

brazioni delle lame, responsabile di quella sonorità cana-

glia cara a Emile Vacher e rimasta così a lungo insepera-

bile dalla fisarmonica francese. 

Cominciarono a utilizzare degli strumenti cromatici a

tre file di bottoni che gli italiani avevano introdotto nei

balli dell’Alvergna. Fra questi precursori, c’era un certo

Paraboschi, padre del batterista Roger Paraboschi, membro


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nel 1950 del Quintette du Hot Club de France, nonché un

certo Persiany, il cui figlio Andrédiverrà l’arrangiatore e

il pianista in una delle ultime sedute di Django,con l’or-

chestra di Tony Proteau.

Com’è piccolo il mondo dei musicisti!Però fu Guerino che

per primo ricorse a un suono ‘diretto’ moderandole vibra-

zioni della sua fisarmonica; fu così che conservò a lungo il

suo prestigio musicale presso i chitarristi tzigani.

Notiamo il sentore gitano dei valzer più famosi di Guerino,

come Brise napolitaine, dovuto senz’altro alle sue origini,

poiché era uno zingaro italiano, secondo le affermazioni

del fisarmonicista Jo Privat.

Quel principio di sonorità senza vibrato sarebbe divenuto

popolare verso il 1935, presso i pionieri della fisarmonica

jazz, Charles Bazin e Louis Richardet.

Il primo, ottimo chitarrista quando voleva, frequenterà

assiduamente gli ambienti gitani, suonando occasional-

mente con Django da Marius, una sala da ballo situata

presso la fermata Temple del metrò; mentre il secondo

(pianista) parteciperà alla prima registrazione hot del

giovane Matelo Ferret, in compagnia di un violinista

straordinario: Michel Warlop. Alla fine degli anni 30, a-

lcuni fisarmonicisti innovatori come Gus ViseurTony

Murena adotteranno un’accordatura quasi


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unanime l’accordo swing. Primo fra tutti, Charles Bazin,

fu lo swingmen in bretelle che improvvisava già del jazz

da Marteau, sostenuto dal banjo-chitarra di Vincent Ghelfi.

(Billard/Antonietto, Django Reinhardt il gigante del jazz tzigano)






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VIAGGI IN ALTRI MONDI (e tempi): Django Reinhardt

 

viaggi in atri mondi (e tempi): il jazz (django reinhardt)



Prosegue in:











 

Richiesto di dare un giudizio sintetico su ciò che avesse

rappresentato Django Reinhardt nella storia della musica

jazz, André Hodeir, pur confermando l’ammirazione per

il suo talento, definì il famoso chitarrista zingaro un ‘in-

cidente pittoresco piuttosto che un avvenimento storico’.

E’ una definizione meditata, che si può sottoscrivere.

Django fu un musicista geniale che non si inserì minima-

mente nella viva corrente del jazz, di cui restò ai margi-

ni.

Fu invece un personaggio pittoresco quanto emblemati-

co della vicenda jazzistica europea, di cui illustrò meglio

di chiunque altro le intrinseche contraddizioni. Fu anche

il più dotato musicista che l’Europa abbia espresso nel

campo del jazz, e fu, fra tutti, il più originale, ma proprio

per questo fu fino all’ultimo un outsider.

Il jazz, espressione musicale di una diversissima cultura,

ignorò la sua lezione e non tenne conto del suo esempio.

E chi ora si domanda se Django, dopotutto abbia fatto

dell’autentico jazz, ha validi argomenti per concludere

in senso negativo.


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Django si innamorò del jazz, lo vagheggiò da lontano, sen-

za conoscerlo a fondo, e, nell’ambito di certe sue regole di 

linguaggio, improvvisando secondo la logica jazzistica,

fece una musica tutta sua, che suscitò l’ammirazione an-

che dei più grandi jazzisti americani, ma non fece scuola.

Trovò solo qualche imitatore in Europa e certi suoi manie-

rismi entrarono a far parte del linguaggio di qualche stru-

mentista americano di secondaria importanza (Les Paul,

per esempio), ma fu tutto.

Troppo poco per uno che sopravanzò di molto tutti i chi-

tarristi del jazz che lo avevano preceduto. Django fu dun-

que un caso, un fenomeno isolato e irripetibile, ed è possi-

bile che negli ultimi anni della sua vita se ne fosse confu-

samente reso conto.

Se avesse vissuto più a lungo, avrebbe rischiato di essere

messo in un canto dalla generazione dei musicisti che nel

secondo dopoguerra, ebbero modo di conoscere meglio la

musica inventata dagli afro-americani.

Sempre che Django che era un uomo di smisurato orgo-

glio, avesse consentito che lo si umiliasse in quel modo;


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più probabilmente si sarebbe messo ancora una volta

in viaggio, su qualche strada secondaria, confuso fra

gli zingari di una carovana, come aveva fatto tanto

spesso anche negli anni della sua maggior gloria.


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Gli altri, i non zingari, i ‘paesani‘, come li chiamavano

quelli della sua gente, si preoccupavano di cose che lui

non comprese mai del tutto.

La scrupolosa osservanza dei contratti, per esempio, o

l’occulta amministrazione del danaro, per lui erano co-

se prive di senso, indici semmai di una mentalità me-

schina.  

Era nato zingaro, infatti, e zingaro rimase sempre.

Nel mondo dei paesani, del resto, non era entrato di sua

spontanea volontà.

Ce lo avevano tirato dentro, cercando di costringerlo a

vivere secondo le regole dei musicisti, e in mezzo a loro

un pittore, Emile Savitry, che, impressionati del suo talen-

to lo aiutarono a muovere i primi passi nell’allora minu-

scolo ambiente del jazz francese.

Questo avvenne intorno al 1928, e cioè quando Django,

era adoloscente e suonava già professionalmente da

qualche anno.

Era entrato i possesso di una chitarra – banjo chitarra – a

dodici anni, e aveva avuto tutto il tempo di imparare a

suonarla, a orecchio, perché al pari dei suoi molti ‘cugini’

si era guardato bene dal frequentare una qualsiasi scuo-

la.

C’era stato un giorno soltanto e gli era bastato: nessuno

si curò mai di insegnargli a leggere e a scrivere finché

molti anni dopo, quando era già un musicista affermato,

il violinista Stéphane Grappelli, vergognandosi un poco

della rozzezza del suo patner, non gli insegnò a compi-

tare almeno il suo nome perché potesse firmare assieme

a lui i contratti e concedere gli autografi ai molti che gli-

eli chiedevano.


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Django abitò durante i primi anni della sua vita in una

roulotte, alla periferia di Parigi, ma non era nato lì.

Aveva visto la luce a Liverchies, in Belgio, il 23 gennaio

1910, durante una sosta della carovana di cui facevano

parte i suoi genitori e non si era fermato alle porte di Pa-

rigi se non dopo aver girovagato in Italia e in Algeria.

Era ormai un buon strumentista, che si guadagnava da

vivere suonando il banjo per il bal musette, quando rima-

se vittima di un incidente che per poco non gli costò la

vita: la roulotte in cui si trovava prese improvvisamente 

fuoco, a causa di una sua disattenzione, e Django riportò

gravissime ustioni.

Il mignolo e l’anulare della mano sinistra restarono quasi

del tutto paralizzati: una menomazione gravissima per

un chitarrista, ma non per un giovane orgoglioso come lui,

che, superando infinite difficoltà, riuscì a mettere a punto

una nuova tecnica strumentale, che prescindeva, o quasi,

dall’uso delle dita lese.

(A. Polillo, Jazz)






 
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DE L’INFINITO UNIVERSO E MONDI (4)

Precedente capitolo:

de l’infinito universo e mondi 3

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i nuovi maghi &

Dialoghi con Pietro Autier 2

Bruno…lungo il mio ‘Viaggio’:

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

un nuovo giorno


 

 

 

 

 


La particolare natura dell’atomismo bruniano è dovuta al

suo essere strettamente e rigorosamente pensato in relazio-

ne al concetto cosmologico dell’infinità dell’universo.

La nuova teoria della materia elaborata da Bruno diviene,

così, la base su cui si fonda la sua concezione dell’infinito,

e non può essere correttamente compresa se non in relazio-

ne a questo altro aspetto fondamentale del pensiero brunia-

no.

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

I termini in cui Bruno introdurrà l’atomismo nella sua conce-

zione di un universo infinito vengono delineati chiaramente

 dal suo portavoce Teofilo nel quinto dialogo del ‘De la cau-

sa, principio e uno’, l’opera immediatamente successiva alla

‘Cena de le ceneri’.

Ancora una volta, Bruno ritrova le sue fonti filosofiche in Pi-

tagora, il quale ‘non teme la morte, ma aspetta la mutazione’.

Tale mutazione è, però, come si rende conto ogni vero filoso-

fo, solo il cambiamento di stato, non la generazione o dege-

nerazione di una qualche sostanza di base.

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

La vera saggezza è appannaggio di coloro che comprendono

che la verità, l’uno e l’essere sono la stessa cosa. Ciò esclude

Aristotele, al quale non si era rivelato il principio dell’unità

dell’essere.

Più in là Teofilo, echeggiando Cusano, illustra tale unità in

termini geometrici, in riferimento all’identità tra la linea e la

circonferenza infinite.

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

Nella misura in cui tutte le possibili linee infinite partono da 

un punto e si estendono all’infinito, tali linee possono essere

identificate con le circonferenze infinite.

Il massimo e il minimo vengono così a convergere nell’unità

dell’essere, mentre allo stesso tempo, nella dialettica tra il 

massimo e il minimo, tutti gli altri contrari vengono risolti

nell’assenza di ogni differenza. 

Nel dialogo finale dell’opera ‘De l’infinito, universo e mondi’

Bruno tenta di definire la natura del vuoto che separa gli ato-

mi del suo spazio infinito. 

Questo viene visto come un ‘etere che contiene e penetra ogni

cosa’, ‘una eterea ragione….nella quale si muove, vive e vege-

ta il tutto’ (!!!).

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

Nel ‘De triplici minimo’ Bruno a volte sostituirà il termine ete-

re con ‘aer’, utilizzando anche, sporadicamente, il termine …..

‘vacum’ (vuoto=nulla), pur sottileneando che, come Aristotele,

egli non accetta l’idea del vuoto inteso rigidamente come spa-

zio privo di ogni contenuto o materia, distaccandosi, in ciò,

tanto da Democrito quanto da Epicuro, entrambi i quali conce-

pivano l’universo infinito come un insieme di atomi separati

da spazi totalmente vuoti.

L’etere bruniano non si presenta, del resto, come composto es-

so stesso da atomi, essendo forse più propriamente definito  

come un sostrato della sostanza infinita, la quale è formata da

un numero infinito di atomi.

Secondo la concezione bruniana gli atomi sono tutti di forma

circolare, il che costituisce un altro punto di distacco tanto da

Epicuro, quanto da Democrito.

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

Pur rifacendosi qui a un tema neoplatonico, Bruno vede nella

forma della circonferenza perfetta, concepibile solo per mezzo

della ragione, soprattutto un modo per affermare l’identità tra

le sfere massime e le sfere minime dell’essere, un’identità in

base alla quale l’atomismo di Bruno viene a essere logicamente

connesso alla sua visione cosmologica (e non solo cosmologica,

per chi ha orecchie e vista nel vasto mondo della conoscenza,

intesa come gnosi….può comprendere quanto qui non è espres-

so. Può cercare, se vuole, può stupirsi se vuole, e dopo, può

ridere o pregare, ….e per sempre trovare…..).

(H. Gatti, Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento)

 

 

 

 

 

 

 

de l'infinito universo e mondi 4

 

DE L’INFINITO UNIVERSO E MONDI (2)

Precedente capitolo:

de l’infinito universo e mondi 1

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de l’infinito universo e mondi 3 &

Dialoghi con Pietro Autier 2

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de l'infinito universo e mondi 2

 

 

 

 

 



….Non che Bruno getti la geometria, ma sa che si tratta di una

semplice ‘analogia’, non molto utile a captare il ‘suo’ cosmo in-

finito.

Sa benissimo che ‘circolo’ e ‘circonferenza’ non sono che analo-

gie, quando tentano di circoscrivere l’Uno-Tutto.

Davanti all’Uno anche il ‘Tempo’ salta:

‘Ne l’infinita durazione non differisce la ora del giorno, il gior-

no da l’anno, l’anno dal secolo, il secolo dal momento, perché

non son più gli momenti e le ore che gli secoli, e non han più

proporzione quelli che questi a la eternità’.

Spazio, Tempo, Numero…, si bruciano nell’incircoscrivibile

Perenne!

 

de l'infinito universo e mondi 2

 

Il cosmo di Bruno non solo è senza Tempo, ma, in quanto infi-

nito, è incircoscrivibile da qualsiasi geometria e da qualsiasi

numero (indi anche da qualsiasi strumento atto a quantificarlo),

il quale, per lui, tra l’altro, è pitagorico-qualitativo:

‘Se ad un primo cerchio si aggiunge un cerchio e in un qualsia-

si margine si dà un punto in luogo del centro, ne emerge, con

opposto volto, figlio e padre, femmina e maschio, semplice e

composto(….). Parte-Tutto, semplice-doppio, sopra-sotto, da-

vanti-dietro, interno-esterno, destro-sinistro. Su questa duali-

tà è fondata ogni sorta di cose’.

Non è da speculazioni ‘scientifiche’ che Bruno ricava la sua

intuizione dei mondi infiniti, incircoscrivibili, ma dalla sin-

cretistica sovrapposizione di speculazioni cusaniane e pre-

socratiche, ermetiche e magiche, che fanno del suo pensiero

sull’infinito un approccio ‘filosofico’, assolutamente non pre-

scientifico. Debellando la fisica celeste e terrestre di Aristote-

le, egli insieme debella ogni e qualsiasi visione ‘scientifica’

dell’universo. 

Se Aristotele confinava Dio, come motore immobile del mon-

do, fuori del mondo, nel cosmo infinito bruniano, divino per-

ché infinito, Dio non può essere che ‘dappertutto’: riprenden-

do un’immagine geometrica, prima che del Cusano, di un

testo ermetico, il suo universo divino è una circonferenza

che non ha limiti, il cui centro è dappertutto. Perciò Dio è

anche …..’in noi’…..

(L. Parinetto, Processo e morte di Giordano Bruno)

 

 

 

 

de l'infinito universo e mondi 2

 

CENNI STORICI (nell’illusione del tempo)

Precedente capitolo:

cenni storici

Prosegue in:

de l’infinito universo e mondi 1

 

 

 

cenni storici 4

 

 

 

 

 

 

 

Iniziano così i suoi pellegrinaggi.

E’ solo, è giovane, ha indosso solo il saio che dovrà necessa-

riamente abbandonare. Quindi è per di più uno ‘spretato’,

condizione difficilissima perché chiunque …..può denunciare

‘il rinnegato’ e vedersi anche premiare con bei soldoni e trovar-

si nella cerchia dei peggiori cenacoli fra ballerini, dame di corte

lustrini, banchetti mondani, …sudati atleti del fisico, certamente

giammai della mente…

La prima tappa è Roma, dove una diceria lo fa partecipe dell’

assassinio di un prete (con cui aveva degnato parola…). E’ un

bell’esempio di falso consolidato nei secoli (senza offesa arre-

care al prete, più falso dell’intera storia….). 

Nessuno sa chi sia questo prete di cui non è stato tramandato

il nome in atti o documenti vari. Non è conosciuta neppure la

data dell’omicidio, né il luogo (la leggenda narra che quel gior-

no la capitale fu colpita da un terremoto).

Non si conoscono nomi dei testimoni, né di accusatori o giudi-

ci, sembra che taluni amici del prete lo denunciano senza moti-

vo alcuno. Ciònonostante, su molti libri si legge che su Bruno

cadde l’accusa di aver causato il decesso violento di un prelato,

colpendolo per giunta alle spalle…

Una vera diceria dell’untore perpretrata nei secoli.

In questi giorni, oltre a quella del prete, se ne è aggiunta un’

altra a causa di uno storico (???) di nome Bossi che avrebbe tro-

vato le prove a carico di Bruno per un presunto lavoro di spio-

naggio da lui effettuato contro Maria Stuarda a favore di Elisa-

betta I. 

Sono tutti aspetti che si possono approfondire meglio, assieme

ad altre accuse, come quella di aver aiutato dei poveri disgrazia-

ti a sopravvivere al difficile Regno Pontificio. 

Ma il prete è un ennesimo falso storico.

Si sa che i minuscoli per farsi alti accusano i grandi di questa o 

quella crudeltà, inquisendoli con le peggiori calunnie….

Beninteso, le invettive sono lanciate quando si ha la certezza

che le vittime non possono difendersi.

Quando nel 1576 inizia la fuga è un perfetto sconosciuto.

In questa girandola della storia ci sono proprio tutti.

Protestanti, ugonotti, riformati di ogni tipo, zoppi, storpi, no-

bili di ogni casato, da quelli terrieri ai nuovi padroni legati al

commercio provenienti da piccoli castelli di provincia e guer-

rieri avvezzi ai tornei. Turchi, saraceni, crociati, terroristi, traf-

ficanti d’armi e d’oppio, cartelli della droga, ed i loro prestigia-

tori. Studiosi e ciarlatani, vecchi e giovani, vedove e papponi,

zingare e prostitute di alto e basso….bordo. Calciatori di pallo-

ne e di polo, scommesse e appalti, appalti e cemento…

Inoltre letterati delle università di Parigi e Ginevra, quelli di

Bologna sono fermi al nuovo Scudo di frontiera…

Messi del duca di Borgogna e perfino del re di Spagna.

Un pienone di cui non si ha memoria nella capitale di Francia. 

E questi sono solo gli invitati, dei pirati parleremo dopo.

Intorno a Palazzo Valois si sono adunate oltre 100.000 persone.

Per il gusto di veder passare le carrozze, guardare gli abiti e

sentire i profumi che olezzano dalle trine e da sotto le gonne

delle dame. 

Il tema dell’incontro è la poesia.

Ma vi è un altro dèmone padrone dell’intera storia fin qui nar-

rata, un dèmone sempre presente quando l’interesse è ben altro

rispetto al piacere della nota musicale, della regalità della rima.

 Un dèmone che ama la guerra, giammai la rima o la cetra….

(G. La Porta, Grandi castelli grandi maghi grandi roghi)

 

 

 

 

 

cenni storici 4

            

I ‘CAPI’ D’ACCUSA (2)

Precedente capitolo:

i capi d’accusa 1

Prosegue in:

cenni storici &

Dialoghi con Pietro Autier 2

Foto del blog:

i capi d’accusa

Eresie, e dialoghi innominabili…

i miei libri

 

 

 

i capi d'accusa 2

 

 

 

 

 

 



….Le accuse sono gravissime e ci permettono un ulteriore

esemplificazione (per chi poi avesse letto…’Storia di un

Eretico’, quelle sue mancanze appaiono gravissime in

seno ad una società così ligia ad i propri doveri morali

e …fiscali, nella quale la politica della casta appare solo

giudice …ingiudicabile di questi immondi errori nell’am-

bito di un ruolo ad essa concesso dall’alba dei tempi,

da quando cioè Imperatori Papi e Faraoni godevano di

ugual diritti e privilegi….) di uno dei meccanismi fonda-

mentali dell’Inquisizione (mai morta dal dì di questa pa-

rola…): la delazione.

Il tribunale del Sant’Uffizio, perennemente carente di fun-

zionari e di fondi, non avrebbe mai potuto controllare da

solo il territorio che gli era affidato senza l’essenziale sup-

porto delle denunce (per nulla disinteressate, per questo

ho citato il caso del mio amico…Pietro Autier…) spontanee,

delle delazioni, delle autodenunce (capaci di rovinare

alcuni ed arricchire con lecito profitto..altri…).

Nella seconda denuncia il Mocenigo nel riferire i discorsi

intervenuti fra lui e Bruno (provvede ad informarci, per

gli storici più attenti al caso, dell’utilizzo premeditato del-

le sue continue delazioni…le quali gli consentono raggiri

qui non enunciabili…) mentre questi è già prigioniero in

casa sua, tradisce, senza avvedersene, la malafede che lo

anima, affermando di aver cercato di farlo desistere dalla

sua intenzione di partire per Francoforte, minacciando di 

denunciarlo all’Inquisizione.

Ma il tribunale non coglie, e non coglierà, le contraddizio-

ni presenti nelle denunce del Mocenigo, limitandosi a rile-

vare compattezza, senza sottilizzare sulle ambiguità del

tono e delle dubbie motivazioni.

Il 26 maggio, dopo che sono intervenute le deposizioni di

due librai, il Ciotti e il Brictano, Bruno viene ascoltato dal

tribunale per la prima volta; è impossibile, leggendo i ver-

bali, non cogliere la drammaticità di questo colloquio: un

uomo che era stato intimo del re e regine, di nobili e studio-

si in tutta Europa, un poeta dall’eloquio ricco e fecondo, il

filosofo della ricerca che per primo ha intuito fino in fondo

le potenzialità della nuova scienza copernicana, e la necessi-

di essere coerenti anche in campo metafisico con la nuova

visione del mondo (e della…materia), ridotto nella sua patria

alla berlina peggio del peggior criminale.

Questa l’Italia di allora, e di oggi….

Il metodo è il cavillo di prelati sospettosi e diffidenti che lo

interrogano e perseguitano su frasi dette privatamente, o

scritte in separate loco; magari per celia o ironicamente, a 

un giovane bolso, vanesio ed ambizioso.

Il suo intelletto, abituato al rigore del solo ragionamento, del-

la dimostrazione, o all’entusiasmo di una bruciante intuizione

(confusa dai suoi delatori e perenni aguzzini per altro…) del

vero, si dovrà piegare alla fredda puntigliosità delle doman-

de dei giudici sconosciuti a cui non ha arrecato torto alcuno,

né a loro né a ciò che vorrebbero rappresentare (nell’allora e

odierna cultura). 

Gli Scribi e i Farisei del Tempio, oggi come ieri…., il tutto

poi interpretato dal limite ….di Roma.

Eppure Bruno fa una scelta, e questa scelta è irrevocabile:

difendersi, quando dovrebbe accusare!

Vivere! Tornare libero!

Mentre è difficile immaginare il fondo di dolore e di amarez-

za da cui questa scelta proviene, l’abisso di solitudine che i

suoi aguzzini con il tempo hanno scavato. 

Ma si badi questa non è storia remota….ma attuale….!

(Benazzi/D’Amico, Il libro nero dell’Inquisizione)

 

 

 

 

 

i capi d'accusa 2

    

DIALOGHI CON PIETRO AUTIER

Prosegue in:

Pagine di storia &

Dialoghi con Pietro Autier 2

Da:

i miei libri






 

ORA TE QUI, DOMANDI.

E perseguiti.

Cosa vuol dire un frammento disgiunto dal tutto.

Potrei spiegare il – Tutto -, per poi approdare ad un

singolo frammento.

Ma te coglierai sempre e solo quello, perché non hai

occhi per vedere.

Orecchie per udire.

Lingua per parlare in nome del vero.

Io posso raccontarti – Eraclio- delle tante o troppe u-

miliazioni che in nome del vostro Dio, i tanti umili,

hanno patito e sofferto.

Allora in quei patimenti cosa diveniva la luce della

vostra creazione?

Quali colori e quali Dèi pensi pregavamo.

No – Eraclio -, serriamo la lingua, cantando e pre-

gando ad alta voce il tuo Dio.

Ma nella realtà dei fatti il mondo che illumina que-

ste esistenze, sotto questi stessi altari assume ben

altre tinte.

Allora la cosa creata assume una diversa prospet-

tiva.

Capire queste ragioni, è penetrare per il vero il si-

gnificato di un affermazione che altro non è che

un rifiuto.

Un rifiuto costante di credere che quel mondo bel-

lo, creato e perfetto, possa celare tanto orrore.

Noi in quelle umili tavolate ad immagine e somi-

glianza, non abbiamo tramato una bestemmia an-

tica, siamo solo convenuti ai troppi inganni.

E quando questi si fanno opprimenti, il nostro Sé,

spesso ha sentenziato  una diversa natura del tem-

po e delle cose, incarnato in questa umile materia

umida, che nell’umiltà di una candela, cercavamo

di far parlare.

In quegli istanti abbiamo pregato, abbiamo spez-

zato il pane e bevuto il vino, cercando al contrario

di quanto da te celebrato, di non tracannare il san-

gue di nessuna vittima, e soprattutto di mangiar-

ne le carni sacrificali.

Se questa può dirsi bestemmia, nella pace della

comunione del gesto, non abbiamo arrecato offe-

sa ad alcuno.

(Giuliano Lazzari, Dialoghi con Pietro Autier)





dialoghi con pietro autier