UNO SVEDESE (11)

Precedenti capitoli:

Uno svizzero: 10 &

Una passeggiata…

Prosegue in:

Uno svedese: (12) &

Nessun superbo ama Dio (né la verità)

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Foto del blog:

Che avanzi leggero, o invece sprofondi, nessuno ti vede,

e nessuno ti sente, quando tu invochi, se muori, se resti

sepolto in un letto di fiori di neve!

Da:

i miei libri

 

 

TD2008.96

 

 

 

 

 

Due giorni prima o due giorni dopo…..

 

Nottetempo come l’ebreo errante ritorna furtivo

al luogo dove prima c’era la sua culla,

e dove poi gli innalzarono il patibolo

poiché non credeva nel dio nazionale (e neppure alla sua naz…)

 

 

Nell’avenue de Neuilly

c’è una macelleria,

e quando vado in città

sempre ci passo davanti.

 

La grande vetrina aperta

riluce rossa di sangue,

su bianche lastre di marmo

fuma la carne appena macellata.

 

Oggi dalla porta di vetro pendeva

un cuore, credo di vitello,

che ravvolto nella carta goffrata

pareva tremasse dal freddo.

 

Allora i miei pensieri corsero veloci

alle vecchie botteghe di Norrbro,

dove file di scintillanti vetrine

sono contemplate da donne e bambini.

 

Là pende nella vetrina dell’ (invisibile) libraio

un libretto dall’involucro sottile.

E’ un cuore divelto

penzolante dal suo uncino.

(A. Strindberg, Nell’avenue de Neuilly)

 

 

 

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DA RUOLO A RUOLO: un olandese (9)

 

Precedenti capitoli:

Da ruolo a ruolo: un francese, un olandese &

Gente di passaggio: contro la politica di ‘Giulio’

Prosegue in:

Gente di passaggio: contro la politica di ‘Giulio’ &

Pagine di storia:

Da ruolo a ruolo: uno svizzero (10)

Foto del blog:

Da ruolo a ruolo (1) &

Da ruolo a ruolo (2)

Da:

i miei libri

 

 

 

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Santo cielo, ci può essere una

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felicità maggiore di quella

posseduta da quel tipo di

uomini che vengono comune-

mente chiamati matti, sciocchi,

pazzi e bietoloni, nomi 

bellissimi, secondo me?

Dirò qualcosa di sciocco ed assurdo a prima vista, e tuttavia di 

straordinariamente vero.

Anzitutto non hanno paura della morte: per Giove, non è un

guaio da niente!

Non hanno il tormento della coscienza.

Non vengono spaventati dalle storie dell’inferno.

Non sono atterriti da spettri e fantasmi, non sono torturati dalla

paura dei mali imminenti, la speranza di futuri beni non li di-

strae.

Insomma non vengono straziati dalle migliaia di preoccupazio-

ni cui va soggetta questa vita.

Non provano vergogna, non pudore, non cercano il successo, non

provano ostilità né amore. Infine se si avvicinano ancora un po’ al-

la mancanza d’intelligenza dei bruti non commettono neppure pec-

cato, ci garantiscono i teologi.

A questo punto vorrei mi facessi il piacere di riflettere, demente

di un saggio, da quante angosce di ogni tipo notte e giorno venga

tormentato il tuo animo, vorrei che tu facessi un mucchio di tutti i

fastidi della tua vita: allora finalmente capirai a quanti mali ho sot-

tratto i miei folli.

Aggiungi, poi, che non sono soltanto loro stessi sempre di buon

umore, giocano, canterellano, ridono, ma anche sono oggetto di

piacere, di gioco, di scherzo e di riso per tutti gli altri, a chiun-

que: ed è come se gli dèi, nella loro indulgenza, li avessero do-

nati agli uomini con lo scopo preciso di rasserenare la tetraggi-

ne della loro vita.

(Erasmo, Elogio della follia)

 

 

 

 

 

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DA RUOLO A RUOLO: un olandese (8)

 

Precedenti capitoli:

Da ruolo a ruolo: un francese (7) &

Gente di passaggio: contro la politica di ‘Giulio’

Prosegue in:

Da ruolo a ruolo: un olandese (9)

 

 

 

 

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A cosa potrà servire la bellezza, il dono                            uijhgtfgd.jpg

maggiore degli dèi immortali, se viene

guastata dallo spleen?

A cosa la giovinezza, se il lievito della

tetraggine senile la fa inacidire?

Infine cosa sarai in grado di fare nel

modo appropriato, di fronte a te stesso

e agli altri, in ogni dimensione della vita  senza la ben in-

tenzionata assistenza del qui presente Amor Proprio, che a

buon diritto per me è quasi fratello, tanto valore dimostra

nel sostenere ovunque la mia causa?

Infatti cosa c’è di più insensato dell’essere soddisfatti di sé?

Dell’ammirare se stessi?

Ma d’altra parte, come potrai agire in modo elegante aggra-

ziato, non sconveniente se sei scontento di te?

Prova ad eliminare questo sale della via: subito l’oratore che

perora lascerà indifferenti, il musicista non avrà alcun succes-

so coi toni, l’attore sarà preso in giro con le sue Muse, il pitto-

re sarà disprezzato con la sua arte, il medico farà la fame con

i suoi farmaci.

Infine sembrerai Tersite anziché Nireo, Nestore anziché Faone,

maiale anziché Minerva, balbuziente anziché eloquente, cafone

anziché raffinato cittadino.

A tal punto occorre che ognuno lusinghi persino se stesso e si

raccomandi a se stesso con una lisciatina prima di poter godere

della stima altrui.

Infine, dato che voler essere ciò che si è è la componente più

importante della felicità, il mio Amor Proprio riesce ad ottene-

re per la via breve che nessuno sia insoddisfatto della sua bel-

lezza, nessuno della sua intelligenza, nessuno della sua stirpe,

nessuno del luogo di nascita, nessuno della professione, nessu-

no della patria, tanto che l’Irlandese non vuole fare a cambio con

l’Italiano né il Trace coll’Ateniese né lo Scita con l’abitante delle

isole Fortunate. 

Con che diligenza incredibile ha agito la natura, bilanciando tut-

to nella varietà delle cose! Dove ha distribuito più avaramente i

suoi doni, aggiunge un po’ di Amor Proprio….

Ma ho detto veramente una sciocchezza, perché appunto l’Amor

Proprio è certo il dono maggiore. 

Tutto questo per non dire poi che nessuna azione nobile viene

intrapresa senza che io la stimoli, nessuna nobile arte è stata tro-

vata senza che ne fossi io l’inventrice.

Non è forse la guerra germe                                                           erasmo1.jpg

e fonte di tutte le azioni lodevoli?

Ma cosa c’è di più insensato che 

affrontare uno scontro in cui entrambe

le parti riportano più danni che vantaggi

per cause del tutto insignificanti?

Dei caduti, poi, non si parla, come dei

Megaresi.

Poi, quando le schiere scintillanti di ferro hanno preso posizione

su entrambe le fronti e le trombe hanno fatto risuonare il rauco

segnale che se ne può fare, vi chiedo, di questi valenti saggi che,

spossati dagli studi, col loro sangue sottile e raffredato fanno fa-

tica persino a respirare: c’è bisogno di tipi grossi e forzuti, pieni

di audacia e senza cervello.

A meno che non si preferisca come soldato Demostene, il quale

seguendo il consiglio di Archiloco fece appena a tempo a vedere

i nemici per poi scappare gettando lo scudo, soldato buono a nul-

la quanto era saggio oratore.    

Dicono però che in guerra conta molto la riflessione.

Certo, nel comandante, e per di più strategica, non filosofica; per

il resto questo capolavoro che è la guerra si fa                                             

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senza scrocconi, ruffiani, briganti,

killers, burini, deficienti, debitori e

simile bruttura, non con filosofi

abituati alla lucerna.

Del resto quanto poco servono

i filosofi per tutte le faccende

pratiche basta Socrate ad

insegnarlo, lui giudicato dall’oracolo di Apollo, ma non certo

sapientemente, l’unico sapiente: quando provò a fare non so

bene cosa nella vita pubblica, dovette andarsene in mezzo al

riso generale. Ma non era sciocco del tutto, lui che non accetta

di esser chiamato saggio e riserva questo nome soltanto al dio

e che ritiene che il sapiente debba astenersi dalla politica: ma

avrebbe fatto meglio ad insegnare che chi vuole venir contato

fra gli uomini deve astenersi dalla sapienza. 

Cos’altro lo ha costretto a bere la cicuta, quando è stato accu-

sato, se non la sapienza?

(Erasmo, Elogio della follia)

 

 

 

 

 

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DA RUOLO A RUOLO: un francese (7)

 

Precedenti capitoli:  

Al di là del mare: un americano (6) &

Gente di passaggio: contro la politica di ‘Giulio’ (95)

Prosegue in:

Da ruolo a ruolo: un olandese (8)

 

 

 

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E’ inutile a ripetere ciò che disse Erasmo in quel famoso libretto,

che oggi sembrerebbe un tessuto di luoghi comuni.

Noi chiamiamo follia quella malattia degli organi del cervello

che impedisce di necessità a un uomo di pensare e agire come

gli altri.

Non potendo amministrare i suoi beni, questo uomo viene inter-

detto; non potendo avere idee consone alla vita sociale, ne viene

escluso; se è pericoloso, lo si rinchiude; se è furioso, gli si mette

la camicia di forza.

Qualche volta si riesce anche a guarirlo, con docce, o salassi o

diete appropriate.

Ma ciò che ci preme osservare, è che quest’uomo non è per nul-

la privo di idee: egli ne ha come tutti gli altri, nella veglia, e tal-

volta anche nel sonno.

Ci si può chiedere come mai la sua anima spirituale e immorta-

le, alloggiata nel suo cervello, ricevendo tutte le impressioni dei

sensi ben nette e distinte, non riesca tuttavia a valutarle netta-

mente.

Essa vede gli oggetti come l’anima di Aristotele e di Platone, o di

Locke o di Newton; intende gli stessi suoni, riceve le stesse sensa-

zioni tattili: come mai allora, avendo le stesse percezioni delle per-

sone più a posto, le combina in un modo così stravagante, senza

poterne fare a meno?

Se questa sostanza semplice e eterna ha a disposizione per funzio-

nare gli stessi strumenti che hanno le anime degli uomini più sag-

gi, dovrebbe ragionar giusto come loro.

Chi può impedirmela?

Io concepisco benissimo che, se un matto vede rosso dove i saggi

vedono blu, se quando i saggi odono una musica questo matto o-

de il raglio di un asino, se, assistendo a un sermone, egli si figura

di assistere a una farsa, se quando gli altri intendono sì, egli inten-

de no, capirei allora che la sua anima ragioni in modo diverso da-

gli altri.

Ma questo pazzo ha le stesse percezioni degli altri: non c’è nessu-

na ragione apparente perché la sua anima, che riceve dai sensi in

ottimo stato gli elementi su cui ragionare, non possa farne un giu-

sto uso.

Eppure l’anima è pura, mi dicono: essa non può andar soggetta in

sé a nessun’ infermità: eccola munita di tutti i punti d’appoggio ne-

cessari; qualunque cosa accada nel suo corpo, nulla può mutare la

sua essenza….

Ma ciò non toglie che quest’anima sia condotta, col suo involucro,

al manicomio.

Questa riflessione può far sospettare che la facoltà di ragionare,

data da Dio all’uomo, sia soggetta ad alterarsi come gli altri orga-

ni. Un pazzo è un malato il cui cervello soffre, come il gottoso è

un malato che ha male ai piedi e alle mani: egli pensava col cervel-

lo, come camminava coi piedi, senza d’altronde avere chiara idea

né della sua incomprensibile facoltà di camminare, né della sua

non meno incomprensibile facoltà di pensare.

Dunque si può aver la gotta al cervello, come si ha la gotta ai piedi?

Insomma, dopo mille ragionamenti, c’è forse soltanto la fede che pos-

sa persuadarci che una sostanza semplice e immateriale vada sogget-

ta alle malattie.

I dotti, o dottori, diranno al matto: ” Caro mio, benché tu abbia per-

duto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale, pura, im-

mortale come la nostra; ma la nostra anima è bene alloggiata, e la tua

male: le finestre della casa sono ostruite per lei, le manca l’aria, soffo-

ca”.

Il pazzo nei suoi momenti di lucidità potrebbe risponder loro: 

” Amici miei, voi presupponete, secondo la vostra abitudine, ciò

che invece è in discussione.

Le mie finestre sono aperte come le vostre, poiché io vedo gli 

stessi oggetti che voi, e odo le stesse parole: bisogna dunque

credere che la mia anima faccia un cattivo uso dei dati delle

sensazioni, o che lei stessa sia come un senso viziato, una

qualità depravata.  In conclusione: o è la mia anima in sé che è

pazza, o io non ho anima”.

Uno dei dottori potrà forse rispondere:

” Fratello, Dio ha creato forse delle anime folli, come ha creato

delle anime savie”.

Ma il matto risponderà:

” Se io credessi a ciò che mi dite, sarei ancor più matto di quel

che sono. Di grazia, voi che la sapete così lunga, ditemi: per-

ché son matto?”.

Qui se i dottori hanno ancora un po’ di cervello, gli risponde-

ranno:

” Non ne sappiamo nulla”.

Essi non comprenderanno perché un cervello debba avere del-

le idee incoerenti (geniali), come non comprenderanno perché

un altro cervello ha delle idee (troppo) normali e ben concate-

nate.

Si crederanno saggi, e saranno tanto pazzi quanto il loro malato.

( Il quale, sempre in un momento di lucidità, potrà dire ancora:

“Poveri mortali, che non potete né trovare la causa del mio male,

nè guarirlo, state bene attenti a non diventare interamente simili

a me, o a non sorpassarmi. Voi non siete più nobili del re di Fran-

cia Carlo VI, del re d’Inghilterra Enrico VI, ne dell’imperatore

Venceslao, i quali perdettero la facoltà di ragionare pressapoco

nello stesso torno di tempo. E non avete neppure un cervello più

fino di Biagio Pascal, di Giacomo Abadie, o di Gionata Swift, che

tutti e tre sono morti pazzi.

L’ultimo almeno ebbe la buona idea di fondare un ospedale per

noi: volete che vada a fissarvi un posto?”.)

(Voltaire, Dizionario filosofico)

 

 

 

 

 

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AL DI LA’ DEL MARE: un americano (5)

 

Precedente capitolo:

Al di là della linea nemica: gli inglesi (3/4) &

Prosegue in:

Al di là del mare: un americano (6)

 

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Rivoluzionari &

Owl Creek &

Billy the Kid ….

 

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Al di sopra delle grandi vette (2)

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i miei libri

 

 

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Proprio mentre Lincoln stava per insediarsi alla Presidenza degli Stati

Uniti, Cavour vedeva la sua opera quasi al culmine….

Di lì a tre mesi egli sarebbe sceso nella tomba.

Quattro anni dopo Lincoln avrebbe avuto un destino stranamente simile:

quello di mancare al suo paese e al suo partito proprio nell’ora suprema,

nella crisi di passaggio tra due ere; e, come Cavour, Lincoln avrebbe la-

sciato la direzione della politica nelle mani di uomini che (sotto l’aspetto

di continuatori dell’opera sua) ne sarebbero stati in realtà i capovolgitori

e gli eversori.

 

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… Il processo di formazione della nazione americana era stato allora

solo avviato: ed ora questa nazione doveva sorgere, salda, unita, omo-

genea, capace di armonizzare gli interessi del Mezzogiorno e del Set-

tentrione, di adattare le vecchie strutture agrarie alla nuova realtà della

rivoluzione industriale senza però sopprimerle.

Nella persona di Lincoln il Medio Ovest aspirava ad assidersi arbitro tra

i due mondi ‘l’uno contro l’altro armato’. Ma il Sud aveva fatto ricorso alla

secessione: ora l’Unione doveva essere salvata, se il processo di forma-

zione della nazione americana doveva andare avanti.

 

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E’ uno dei grandi drammi storici che i due moti, per la formazione di una

nazione americana omogenea da una parte, e per l’indipendenza di un’-

autonoma nazione sudista dall’altra, si siano così tragicamente incon-

trati su un’area ove dei due ideali doveva venire inesorabilmente sacrifi-

cato.

E’ chiaro che nel pensiero di Lincoln il Sud doveva avere un posto, e un

grande posto, nella nuova nazione: ma l’indipendentismo sudista doveva

essere irrimediabilmente bandito.

Abbiamo citato prima il nome di Cavour e non a caso…

 

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Perché Lincoln era veramente il Cavour di questo nuovo risorgimento a-

mericano le cui battaglie stavano per combattersi. E come per Cavour il

processo di unificazione nazionale italiana doveva portare non ad un’Ita-

lia qualunque, ma ad un’Italia liberale e parlamentare, così per Lincoln la

‘grande Repubblica’ doveva essere essenzialmente fondata su uno svi-

luppo ulteriore della democrazia.

Questo doveva essere l’Unione: questo, o nulla!

Lincoln non era un nazionalista… Per lui si trattava di salvare l’unità ove

un governo del popolo si era potuto stabilire ed ove, se pure ancora so-

pravvivevano (e probabilmente sarebbero sopravvissute a lungo) disu-

guaglianze e ingiustizie, la strada era tuttavia aperta per il pacifico pro-

gresso verso un’età in cui tali disuguaglianze e ingiustizie sarebbero

state eliminate per sempre.

 

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La democrazia doveva ‘elevare le condizioni dell’uomo, scaricare da

ogni spalla i pesi inutili, aprire per tutti il cammino verso lodevoli impre-

se, garantire a tutti un punto di partenza senza intralci ed una onesta

possibilità di riuscire nella gara della vita…’.

Ma questo non era possibile accettando la secessione: ‘Il nostro gover-

no popolare è spesso stato definito un esperimento. Due suoi capisaldi

il nostro popolo ha già definitivamente stabilito: la possibilità di fondarlo

con successo e di amministrarlo con successo. Uno ancora ne rima-

ne: la possibilità di mantenerlo con successo di fronte ad un formidabi-

le tentativo di rovesciarlo… E in questa lotta è in gioco ben più che il

destino di questi Stati Uniti. Essa infatti pone all’intera famiglia umana il

problema se una repubblica costituzionale, o una democrazia, – un go-

verno del popolo, per opera del popolo, – può o no mantenere la sua in-

tegrità territoriale contro i suoi nemici interni…

 

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Ciò ci costringe a chiederci: una debolezza su questo punto è forse

inerente e fatale a tutte le democrazie?’.

Così il suo sguardo si levava a dominare prospettive politiche immen-

se, ben di sopra e di là dagli orizzonti di tutti i suoi conterranei, e spa-

ziava oltre i confini degli Stati Uniti, sul mondo.

Da quando i patrioti dell’indipendenza avevano fondato l’Unione, essa

era parsa una sfida all’intera Europa feudale e assolutista e di là dall’-

Atlantico monarchi e tiranni ne avevano atteso con impazienza la

caduta. 

Essi, per il vero, avevano irriso alla pretesa democratica di lasciare i

destini dello stato nelle mani del popolo: e avevano profetizzato il pros-

simo crollo di quella grande comunità in cui gli uomini avevano osato

tentare di vivere liberi ed eguali!

 

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Ora, la democrazia non poteva reggersi che sul rispetto della volontà

della maggioranza: se si consentiva alla minoranza di andarsene a fon-

dare un’altra unione, allora la democrazia era morte e non rimaneva ai

monarchi e ai tiranni che seppellirla, dopo aver dimostrato che solo

piegando il popolo sotto la sferza si poteva mantenere l’unità dello Sta-

to.

I sudisti che avevano fatto la secessione amavano la democrazia non

meno di Lincoln ed erano pronti per i suoi principi a dare la vita: ma la

loro visione pareva piuttosto ‘locale’, mentre quella del grande Presi-

dente spaziava sul mondo intero (oltre i piccoli e meschini interessi

della piccola o grande borghesia di provincia) ove le sorti stesse della

democrazia erano in gioco.

 

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Un giorno, parlando al suo segretario John Hay, Lincoln ebbe a dire

senza ambagi: ‘per parte mia, io penso che l’idea-base di questa lotta

consista nel provare che il governo popolare non è un’assurdità. Noi

dobbiamo chiarire ora questo problema: se, in un governo libero, la

minoranza ha il diritto di spezzare in due lo stato quando meglio cre-

de. Se noi falliremo, ciò sarà portato come prova dell’incapacità del

popolo a governarsi da solo. Ci può essere una sola considerazione

 

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da fare per obiettare ad un tale giudizio: che cioè nel caso nostro si

è in presenza di un vasto e ramificato elemento perturbatore tale che

non si troverà mai nella storia di alcun’altra nazione libera.

Questo tuttavia non lo dobbiamo dire ora.

Prendendo il governo come lo abbiamo trovato, vedremo se la mag-

gioranza può preservarlo’.

La vittoria della secessione avrebbe però significato per lui non solo

la disfatta morale della democrazia, ma lo spezzettamento del Nord

America in potenze ostili, a……

(R. Luraghi, Storia della Guerra Civile Americana)

 

(Prosegue….)

 

 

 

 

 

 

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AL DI LA’ DELLA LINEA NEMICA: gli inglesi (3)

Precedente capitolo:

Gli italiani (1/2) &

Il senso del ‘viaggio’

Prosegue in:

Al di là della linea nemica (4) &

Il senso del ‘viaggio’

Foto del blog:

Il senso del ‘viaggio’ (1) &

Il senso del ‘viaggio’ (2)

Da:

i miei libri

 

 

nono luigi 1bis

 

 

 

 

 

 

Per fortuna il sentiero tortuoso e sconnesso era quasi finito

e presto fummo su una strada ampia, che altro non era se

non quella proveniente da Villach (e ben si potrebbe dire da

Vienna), che qui penetra entro i monti della Carnia dividen-

dosi a Tarvis, per scendere a Trieste e a Venezia, rispett-

ivamente per i passi di Predil e Pontebba.

La strada è stata in maggior parte ricostruita recentemente;

ampia e bella, con i suoi ponti, le opere di sterro, i parapetti,

è la riprova di come l’Austria imperiale si prenda seriamente

cura di simile opere.

 

guglielmo ciardi 1

 

E’ però probabile che i lavori sul versante carinziano vengano

sospesi, in quanto la linea ferroviaria per Trieste l’ha resa di

minore importanza rispetto al passato, quale via di comunica-

zione con l’Italia, sebbene non abbia mai potuto rivaleggiare,

sotto questo profilo, col Brennero.

Ecco ora un breve elenco di queste strade alpine austriache.

Lo Stelvio è il percorso più occidentale; l’unica sua importanza

era costituita, dal punto di vista militare, dall’accesso che forni-

va alla Lombardia.

Perdute quelle province, esso è forse più di danno che di van-

taggio, tantoché si pensò che il governo austriaco volesse ab-

bandonarlo ad una rapida distruzione ad opera delle bufere del-

l’inverno.

 

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Nell’ordine viene poi il Brennero, antica ed utile strada, tanto per

la sua modesta elevazione che per le regioni che esso mette in

comunicazione dai due lati della catena alpina, Innsbruck e la

valle dell’Inn, Trento e la valle dell’Adige hanno avuto sempre u-

na grande importanza e, in tempi recenti, la diretta comunica-

zione con il Quadrilatero, consentita da questo passo, l’ha po-

sta ancor più in evidenza.

 

thomas ender 1

 

Poi viene Ampezzo, che può essere considerato niente di più di

una strada locale, in quanto non attraversa la principale catena

norica ed è solo sussidiaria delle arterie che si trovano alla sua

sinistra e alla sua destra.

Pontebba e Predil, che si uniscono a Tarvis costituiscono la quar-

ta e la quinta di queste vie di comunicazione. Dopo di esse viene,

il Passo del Loibl, attraverso il quale si superano le Caravanche

(una continuazione delle Alpi Carniche), direttamente a sud di Kla-

genfurt, per raggiungere poi Lubiana e Trieste.

Settimo, il passo oltre l’Alpe Stein, che unisce Kappel, nella Vella-

ch Thal, a Krainburg, nella Kanker Thal, dall’altro versante. Questo

passo, molto ripido, con l’apertura del Loibl è poco percorso e di

conseguenza trascurato, come constatammo in un’escursione di

cui parleremo.

 

thomas ender 2

 

Ultima, molto ad est, c’è la linea ferroviaria, l’unico percorso com-

pleto della capitale all’Italia. Questa linea non ha però un carattere

alpino, se si fa eccezione per il Semmering, al confine fra la Stiria

e l’Austria propriamente detta. Essa evita la grande barriera, giran-

do intorno alla sua estremità orientale e scendendo poi verso Trie-

ste.

La distanza maggiore fra due di queste strade è quella fra il Bren-

nero e Pontebba, escludendo Ampezzo per quanto si è detto: all’-

incirca si tratta di un centinaio di miglia. Vi è compresa la regione

dolomitica e proprio alla mancanza di grandi strade intermedie

può essere addebitato, in prevalenza, l’isolamento in cui essa si

trova.

 

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Della principale arteria romana attraverso le Alpi orientali – quella da

Aquileia a Lienz – abbiamo già detto. Superata del tutto la lieve pen-

denza della strada di Tarvis, anche la pioggia si attenuò in modo da

permettere la visuale del passo che si apriva davanti a noi.

Scoscese pareti balenanti in luce soprannaturale fra le nubi e una

grande mole di forma conica, il Konigsberg, eretto proprio al centro

del varco, sorgevano con grande imponenza, mentre le masse di

vapori in continuo movimento ora si addensavano ora fuggivano da

quelle nude muraglie.

 

thomas ender 3

 

Nonostante il tempo sfavorevole potemmo osservare nel paesaggio

circostante alcuni di quegli aspetti che lo avevano reso così gradito a

Sir Humphry Davy. Lo Schlitza Bach, proveniente dalla base del Pre-

dil, entra nella Gail Thal attraverso un’immensa gola, i cui fianchi so-

no modellati a pendii e terrazze.

Queste ultime, verdeggianti e ornate dei campanili dei villaggi, posso-

no giustificare il frequente paragone di Sir Humphry con il paesaggio di

certi parchi inglesi. Ci fosse stato il sole questi declivi avrebbero mes-

so in mostra i loro splendidi tappeti erbosi, ma ora si potevano vedere

appena nel tumultuoso svaporare delle nubi.

 

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Più avanti la strada era stata rinforzata con terrapieni a scarpa, ornati con

filari di salici già in germoglio, in modo da formare con il tempo una fitta

copertura arbustiva, le cui radici avrebbero consolidato il suolo poco com-

patto.

Bruscamente scendemmo per uno stretto viottolo, che affianca l’argine e

le arcate di sostegno della strada principale, e ci trovammo nella piccola

città di Tarvis, o più esattamente ‘Sotto Tarvis’, dove la valle di Pontebba

si volge a destra.

 

thomas ender 9

 

La salita al Weissenfels inizia a sinistra e quella al Passo Predil si trova

immediatamente di fronte. Ci fu di nuovo un improvviso acquazzone e le

lunghe grondaie formarono una successione di docce, tanto che fu ne-

cessario procedere con prudenza, ‘navigando’ lungo la strada.

Finalmente un porticato buio, buio ma asciutto, ci diede il benvenuto,

nella più antica locanda di posta di Tarvis. ‘Cattiva locanda’, diceva l’a-

michevole lettera dell’unico viaggiatore che vi si era fermato…..

 

(Prosegue….)

(Gilbert/Churchill, Le montagne Dolomitiche)

 

 

 

 

 

 

nono luigi 5

GLI ITALIANI (e alcuni fogli volanti…)

Prosegue in:

Gli italiani (2)

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i sotterranei dei gesuiti (1) &

i sotterranei dei gesuiti (2)

Da:

i miei libri

 

 

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Se mi son fatto francese è perché non potevo sopportare di essere

italiano. In quanto piemontese (per nascita), sentivo di essere soltan-

to la caricatura di un gallo, ma dalle idee più ristrette.

I piemontesi, ogni novità li irrigidisce, l’inatteso li terrorizza, per farli

muovere sino alle Due Sicilie (ma nei garibaldini c’erano pochissimi

piemontesi) ci sono voluti due liguri, un esaltato come Garibaldi e u-

no iettatore come Mazzini. E non parliamo di quel che ho scoperto

quando sono stato mandato a Palermo (quando è stato? debbo

ricostruire).

Solo quel vanitoso di Dumas amava quei popoli, forse perché lo

adulavano più di quanto non facessero i francesi che lo considera-

vano pur sempre un sanguemisto. Piaceva a napoletani e siciliani,

mulatti essi stessi per errore di una madre baldracca ma per sto-

ria di generazioni, nati da incroci di levantini malfidi sudaticci e o-

strogoti degenerati, che hanno preso il peggio di ciascuno dei loro

ibridi antenati, dei saraceni l’indolenza, degli svevi la ferocia, dei

greci l’inconcludenza e il gusto di perdersi in chiacchiere sino a

spaccare un capello in quattro.

E per il resto basti vedere gli scugnizzi che a Napoli incantano gli

stranieri strangolandosi di spaghetti che s’infilano nel gorgozzulle

con le dita, sbrodolandosi di pomodoro andato a male.

 

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Non li ho visti, credo, ma lo so.

L’italiano è infido, bugiardo, vile, traditore, si trova più a suo agio

col pugnale che con la spada, meglio col veleno che col farmaco,

viscido nella trattativa, coerente solo nel cambiar bandiera a ogni

vento – e ho visto che cosa è accaduto ai generali borbonici non

appena sono apparsi gli avventurieri di Garibaldi e i generali pie-

montesi.

E’ che gli italiani si sono modellati sui preti, l’unico vero governo

mai avuto da quando quel pervertito dell’ultimo imperatore romano

è stato sodomizzato dai barbari perché il cristianesimo aveva fiac-

cato la fierezza della razza antica.

I preti… Come lo ho conosciuti? A casa del nonno, mi pare, ho il

ricordo oscuro di sguardi fuggenti, dentature guaste, aliti pesanti,

mani sudate che tentavano di accarezzarmi la nuca.

Che schifo.

Oziosi, appartengono alle classi pericolose, come i ladri e i vaga-

bondi. Uno si fa prete o frate solo per vivere nell’ozio, e l’ozio è ga-

rantito dal loro numero.

Se i preti fossero, diciamo, uno su mille anime, avrebbero talmente

da fare che non potrebbero starsene in panciolle mangiando capponi.

E tra i preti più indegni il governo sceglie i più stupidi, e li nomina ve-

scovi. Cominci ad averli intorno appena nato quando ti battezzano…..

 

(Prosegue….)

(Dedicato ad un falsario….)

 

 

 

 

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LA TRAPPOLA MALEDETTA (lupi di montagna)

Prosegue in:

pionieri dell’alpinismo (lupi di montagna) (2) &

quale sarà la via migliore &

verità senza tempo

Foto del blog:

Lupi di montagna (1)

Lupi di montagna (2) &

Verità senza tempo (1)

Verità senza tempo (2)

Da:

i miei libri

 

 

 

la trapolla maledetta

 

 

 

 

 

 

Non si muoveva un filo di brezza, non un sassolino che frullasse;

il monte regale taceva cupo, quando io tortuosamente con molti

colpi di picozza nel canalone di ghiaccio, che sembrava di vetro

temperato.

Non volevo uscire subito al di là delle fauci della morte, perché

rocce ripide e glabre seguivano la sponda meridionale del cana-

lone; invece scavai circa cinquanta gradini su per il colatoio.

Non ho mai visto un solco di valanghe così profondamente inca-

vato. Anche levando la mano in alto, non riuscivo a raggiungere

l’orlo.

Quindi ci portammo sulla parete ovest e qui la fatalità spalancò

le sue fauci sanguinose. La roccia oscura era costruita a lastroni

erti, quasi senza cornici e risaliti, spesso con una superficie solo

debolmente rugosa. Ma sopra stava il sottile velo di ghiaccio

vetrato, in principio solo qua e là, successivamente di cento me-

tri più compatto.

 

la trapolla maledetta

 

Andavo senza scarpe, insinuandomi come una biscia per qual-

che ora tra gli strati di ghiaccio; ma Lorria doveva ogni volta

aspettare, finché lo potevo recuperare con l’aiuto della corda.

Vennero strisce di neve e, per non perdere tempo, affrontavo

la fatica del gradinare a piedi nudi e a mala pena m’accorgevo

del freddo.

Specialmente a disagio si stava sotto le isole di neve; quivi si

trovavano grosse nicchie ghiacciate, donde pendeva come una

cascatella gelata: picchiando con forza, saltavano delle zolle

di ghiaccio irregolari, che lasciavano fratture ben poco utili per

gli appoggi.

Anche con le grappe non guadagnammo gran che, perché non

facevano presa sullo smalto, che copriva la roccia levigata.

 

la trapolla maledetta

 

Così combattemmo per più di sette ore e il cammino si faceva di

mano in mano più scabroso. Solo verso le undici il sole si river-

sò su questa parete ovest brutalmente stagliata e prima di mezzo-

giorno solo qua e là qualche pietruzza volò sulle nostre teste: l’-

avanguardia dell’esercito selvaggio.

Alle tredici eravamo circa al livello del pinnacolo della cresta

dello Zmutt e poiché il vetro sulla roccia si faceva di ora in ora

più ostinato, riconoscemmo chiaramente che né quel giorno né

l’indomani avremmo potuto passare, ma appena dopo una set-

timana di completo denudamento della roccia.

Perciò, indietro! Presto sulla parete di Penhall si sarebbe scate-

nato l’inferno.

Se avessimo posseduto la conoscenza del Cervino degli alpi-

nisti posteriori, avremmo tentato, anziché salire a destra nella

linea della cima, d’inerpicarci a sinistra verso la cresta nord:

lassù vi è buona roccia e un bivacco sicuro. E se il giorno dopo

fossimo stati abbastanza in forza, avremmo raggiunto il Corno

sopra questa cresta, la quale tutte le settimane al giorno d’oggi

è superata da gente di mediocre capacità.

 

la trapolla maledetta

 

Ma nel 1887 la via di Mummery era altrettanto greve di enigmi

come la nostra parete di Penhall. Tuttavia io credo che questa

fuga in alto ci avrebbe allora salvati; perché la trappola verso

il basso, nel canalone, la trovammo più tardi già chiusa.

Fu proprio questa dura esperienza, che nel 1895 m’indusse sul

Morchner ad esigere dalla mia compagna l’aspro disagio della

prosecuzione della salita piuttosto che ritornare per i solchi del-

le valanghe.

Accigliato e col cuore furente mutai direzione.

Con lotta tenace scendevamo tortuosamente e circospetti per

quelle chine desolanti. Alla fine il sole scottante di sud-ovest

sciolse tutti i ceppi all’inferno. I vincoli del ghiaccio si spezza-

rono stridendo e cominciò un fracasso da scuotere le ossa, qua-

le si poteva difficilmente immaginare.

Massi neri, grandi come carri ferroviari, si staccavano da qual-

che parte lassù, rimbalzando strepitando per centinaia di me-

tri, volavano sopra i risalti scoppiando in cocci innumerevoli,

che fischiavano per l’aria disseminandosi a tromba in forme

e direzioni imprevedibili……

(prosegue in: lupi di montagna (2))

  

 

 

 

 

 

la trapolla maledetta

 

DEDICATO AD UN LUPO (ucciso…) (soltanto per pazzi…)

Prosegue in:

Dedicato ad un lupo… (2) &

Dialoghi con Pietro Autier 2 & 

gli occhi di Atget

Foto del blog:

Un lupo ucciso &

Un lupo ucciso (2)

Da:

i miei libri

 

 

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Il giorno era trascorso come appunto trascorrono i giorni; lo avevo

passato, lo avevo delicatamente ammazzato con la mia timida e

primitiva arte di vivere; avevo lavorato alcune ore, sfogliato vecchi

libri (come una antica nostalgia), avevo avuto per due ore un dolo-

re come capita alle persone anziane, avevo preso una polverina

godendomela al pensiero che si può vincere il dolore con l’astuzia,

avevo fatto un bagno caldo sorbendomi il delizioso calore, ricevuto

tre volte la posta e scorso quelle inutili lettere e stampe, avevo fat-

to i miei esercizi di respirazione ma omesso per comodità gli eser-

cizi di pensiero, ero andato a passeggiare un’oretta e avevo trovato

disegnati nel cielo certi modelli di nuvolette delicate e preziose.

 

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Tutto era molto bello, tanto la lettura dei vecchi libri quanto l’immer-

sione nell’acqua calda, ma tutto sommato non era stata una gior-

nata di felicità entusiasmante né di gioia raggiante, bensì una di

quelle giornate che da parecchio tempo dovrebbero essere per me

normali e comuni: giornate moderatamente piacevoli, abbastanza

sopportabili, giornate tiepide e passabili d’un uomo non più giovane

e malcontento, giornate senza dolori particolari, senza particolari

preoccupazioni, senza crucci veri e propri, senza disperazione,

giornate nelle quali si esamina pacatamente, senza agitazioni o ti-

mori, la questione se non sia ora di seguire l’esempio di Adalberto

Stifter e di esser vittime di una disgrazia facendosi la barba.

 

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Chi ha assaggiato le altre giornate, quelle cattive (e sì che ce ne

sono state.. ma speriamo che la pace torni a regnare in questo

mondo…), quelle con gli attacchi di gotta e col mal di testa appo-

stato dietro i bulbi degli occhi, che trasforma, con diabolica stre-

goneria, ogni gioiosa attività dell’occhio e degli orecchi in una tor-

tura, o quelle giornate di lenta morte spirituale, le maligne giorna-

te di vuoto interiore e di disperazione nelle quali, in mezzo alla

terra distrutta e svuotata dalle società per azioni, gli uomini e la

così detta civiltà col suo orpello di latta mentito e volgare ti ghi-

 

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gnano incontro ad ogni passo come un emetico concentrato e

portato nel proprio io malato all’apice dell’insofferenza: chi ha as-

saporato quelle giornate infernali si dice ben soddisfatto dei giorni

normali e così così, dei giorni come questo, e si siede riconoscen-

te presso la stufa calda, nota riconoscente, alla lettura del giorna-

le, che nemmeno oggi è scoppiata una guerra (e speriamo nem-

meno quella per il nostro comune futuro…), che non è sorta un’-

altra dittatura (ci vuole sempre una conciliante democrazia), non

si è scoperta alcuna grossa porcheria nella politica (cerchiamo

 

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di confermare il buon vivere a tutti i livelli sociali…) e nell’econo-

mia, e con gratitudine accorda la sua lira arrugginita per intonar-

vi un salmo di grazie moderato, passabilmente lieto, quasi alle-

gro, con cui annoiare il suo Dio della contentezza, un Dio così

così, silenzioso (secondo e senza parola…) soave, un po’ inton-

tito dal bromuro, sicché nell’aria grassa e tiepida di questa noia

(e di quel Dio, sempre uguale, pregato e difeso con gli stessi

accadimenti… cacciatore di lupi per queste infinite steppe, alla

fredda parola di un Primo … Dio… silenzioso e simmetrico al

mio invisibile dire… fantasma di una neve caduta al mattino

 

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non ancora pregato al capezzale del vostro Secondo… Dio..)

soddisfatta, della benvenuta assenza di dolore quei due, il Dio

così così, triste e appisolato, e l’uomo così così, leggermente

brizzolato e intento a cantare sommessamente il salmo, si

assomigliano come due gemelli….

Sono una bella cosa la contentezza, l’assenza di dolore, le

giornate tollerabili e accucciate nelle quali né il dolore né il pia-

cere osano alzar la voce, ma tutto bisbiglia e cammina in pun-

ta di piedi. Se non che io sono purtroppo fatto così, non sop-

porto questa contentezza, che dopo un po’ mi diventa odiosa e

 

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insopportabile e ributtante, e devo rifugiarmi disperato in altre a-

tmosfere, possibilmente passando per vie del piacere ma, in

caso di bisogno, anche per le vie del dolore.

Quando sono stato per un po’ senza piaceri e senza dolori e ho

respirato l’insipida sopportabilità delle così dette giornate, la mia

anima infantile è talmente agitata dal vento della miseria che pren-

do la lira arrugginita della gratitudine e la scaglio in faccia al son-

nacchioso e soddisfatto Dio della contentezza e della ricchezza…

e preferisco sentirmi ardere da un dolore diabolico piuttosto che

vivere in questa temperatura sana….

 

(Prosegue…)

(H. Hesse, Il lupo nella steppa)

(Le opere pittoriche proposte sono di: I. Shishkin)

 

 

 

 

 

 

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LA NATURA E’ DOVUNQUE BELLA (2)

 

Precedente capitolo:

La natura è dovunque bella

Prosegue in:

la gnosi (1/11) &

Verità scientifica e verità teologica 

Foto del blog:

La natura è dovunque bella &

La natura è dovunque bella (2)

Da:

i miei libri

 

 

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Le antipatie non sono una prova a sfavore: esse si basano sulla

conoscenza, l’intuizione, anzi sulla partecipazione, non sull’in-

diffirenza.

Quello che mi è antipatico, per me esiste non meno di quello

che amo. Ma quello che non conosco, e non voglio conoscere,

quello che mi è indifferente, quello che non ha alcun rapporto

con me, che non esercita su me alcun richiamo, quello per me

non esiste, e quanto più è consistente, tanto più meschino so-

no io.

Il nostro cuore va incontro all’elementare e apparentemente e-

terno in modo spontaneo e pieno d’amore, pulsa col ritmo del

moto ondoso, respira col vento, vola con le nuvole e gli uccel-

li, sente amore e riconoscenza per la bellezza degli astri, dei

colori e dei suoni, è consapevole di essere una parte di loro,

affine a loro, e tuttavia non riceve dalla terra eterna, dal cielo

eterno altra risposta che quell’imperturbabile, quasi canzona-

torio sguardo del grande per il piccolo, del vecchio per il bam-

bino, del duraturo per l’effimero. 

Finché noi, in arroganza o in umiltà, in superbia o in dispera-

zione, opponiamo decisamente a ciò che è muto il linguaggio,

all’eterno il temporaneo e mortale, e dal senso della piccolez-

za della caducità sorge il senso tanto orgoglioso quanto dispe-

rato dell’uomo, del più infedele ma più capace d’amore, del

più giovane ma più acuto, del più smarrito ma più appassio-

nato figlio della Terra.

Ed ecco che la nostra debolezza è vinta, noi non siamo più

piccoli né arroganti, noi non bramiamo più di diventare una

cosa sola con la natura, ma alla sua grandezza contrapponia-

mo la nostra, alla sua durata contrapponiamo la nostra muta-

bilità, al suo mutismo il nostro linguaggio, alla sua apparente

eternità la nostra consapevolezza della morte, alla sua indiffe-

renza il nostro cuore capace d’amare e di soffrire.

Come sotto il microscopio qualcosa in genere invisibile e repel-

lente, un flocculo di sterco, può diventare un meraviglioso cielo

stellato, così sotto il microscopio di una vera psicologia (che

ancora non esiste) ogni minimo moto di un’anima, per quanto

misera, ottusa o insensata, diverrebbe uno spettacolo sacro, so-

lenne, perché non si vedrebbe in esso che un esempio, un’im-

magine allegorica della cosa più sacra che conosciamo, la vita.

(Hermann Hesse)

 

 

 

 

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