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La notte si addensava ancora intorno a noi, sotto gli abeti
le cui cime tracciavano la loro alta scrittura nel cielo ormai
di perla; poi, in basso fra i tronchi, si accesero rossori e mol-
ti di noi videro aprirsi il cielo l’azzurro chiarissimo degli oc-
chi delle loro nonne.
A poco a poco la gamma dei verdi usciva dal nero, e a tratti
un faggio rinfrescava col suo profumo l’odore della resina
e metteva in risalto quello dei funghi.
Con voci di raganella, o di fonte, o d’argento, o di flauto,
gli uccelli si scambiavano il loro chiacchierio del mattino.
Andavamo in silenzio.
La carovana era lunga, con i nostri dieci asini, i tre uomini
che li conducevano e i nostri quindici portatori.
Ognuno di noi portava la propria razione di viveri per la
giornata e i propri effetti personali.
Di questi ultimi, qualcuno ne aveva di molto pesanti da
portare anche nel cuore e nella testa.
Avevamo presto ritrovato il passo da alpinista e l’atteggia-
mento rilassato che conviene prendere fin dai primi passi
se si vuol camminare a lungo senza stancarsi.
Mentre camminavo, riandavo nella memoria agli avvenimen-
ti che mi avevano condotto fin lì – dal mio articolo sulla Re-
vue des Fossiles e il mio primo incontro con Sogol.
Per fortuna gli asini erano addestrati a non camminare troppo
in fretta; mi ricordavo quelli di Bigorre, e prendevo forza nel
guardare l’agile gioco dei loro muscoli, che nessuna contra-
zione inutile rompeva mai.
Pensai ai quattro rinunciatari che si erano scusati di non
poterci accompagnare. Come erano lontani Julie Bonasse, e
Emile Gorge, e Cicoria, e quel bravo Alphonse Camard con le
sue canzoni di marcia!
Era già un altro mondo.
Mi misi a ridere da solo al pensiero di quelle canzoni di mar-
cia. Come se i montanari cantassero mai camminando!
Sì, si canta qualche volta, dopo qualche ora di arrampicata su
sfasciumi o su prati, ma ognuno per conto proprio, stringendo
i denti……
Non si vedevano più cime nevose, ma solo pendii tagliati da
strapiombi calcarei, e il torrente in fondo alla valle, a destra, at-
traverso le radure della foresta. All’ultima svolta del sentiero
l’orizzonte marino, che non aveva cessato di alzarsi da noi, era
scomparso.
Rosicchiai un pezzetto di biscotto.
L’asino con la sua coda, mi buttò in faccia un nugolo di mosche.
Anche i miei compagni erano pensierosi.
C’era pur sempre qualcosa di misterioso nella facilità con la
quale eravamo approdati al continente del Monte Analogo; e
poi sembrava proprio che li avessimo aspettati.
(René Daumal, Il Monte Analogo)