Precedenti capitoli:
umida d’acque, sotto un
cielo azzurro verso cui
salivano dai comignoli
solo fiumi di legna, si
alzavano sopra i tetti
le muraglie del duomo
eternamente in
costruzione.
Anche le campagne di
Novara, terra viscontea,
ricorderanno al
Commynes
le Fiandre:
fossi profondi ai due lati della strada, gran fango d’inverno, polvere d’estate. Fra l’altro,
è in quegli anni che si cominciava a coltivare il riso in Lombardia. A Vercelli si entrava
nelle terre del duca di Savoia. Francesco Janis dice che nelle osterie si vende vino, bianco
o rosso di ‘dolce sapor’: viene da Monferrato.
Tra Firenze e Bruges vi sono quasi otto gradi di latitudine. E’ un viaggio dal Mediterraneo
all’Europa settentrionale con tutto quello che significa. Qui d’estate le giornate sono più
lunghe e i crepuscoli più lenti, d’inverno sono più lunghe le notti; il sole è meno intenso,
il cielo più frequentemente opaco. Da una parte sempre un panorama raccolto di colli,
con fruscianti ulivi e i cipressi lungo i sentieri, i colori intensi; dall’altra i colori sono più
morbidi, gli orizzonti più vasti, ma smorti e spesso inafferrabili per le brume. E’ facile
supporre queste o analoghe sensazioni seguendo il cavallo di Gerozzo. Più difficile
ritrovarsi nella sua geografia politica. Per noi l’itinerario significa percorrere Italia,
Svizzera, Francia, Belgio. L’Italia e il Belgio non esistevano in quanto entità politiche,
la parte di Svizzera che si percorre non era ancora Svizzera, la parte di Francia non
era del tutto Francia. Da Vercelli sino a Bruges si viaggiava per due formazioni del
tutto singolari: gli stati sabaudi e quelli borgognoni. Il ducato sabaudo – i Savoia
erano duchi dal 1416 per concessione dell’imperatore Sigismondo – era una bizzarra
costruzione dinastica feudale, in quel momento al suo vertice: un insieme di terre
non particolarmente pingui, fitte di castelli annidati in impervie vallate e di un
numero limitato di centri urbani, comunali, poco popolosi. Si estendeva sui due
versanti delle Alpi tra il mare e il lago di Neuchatel, da Vercelli fino a poca distanza
da Lione e dal corso della Saona.
Al valico transalpino si saliva da Aosta, sempre racchiusa nel suo perimetro romano.
impossessatesi delle
mura romane vi
avevano frammischiato
le torri dei loro
castelli. Il colle
del Gran San Bernardo
(m 2473) è coperto di
neve nove mesi l’anno;
l’ospizio del valico nel
vallone aspro e desolato –
quattrocento anni prima
l’aveva fondato un
arcidiacono della
chiesa aostana,
Bernardo di Mentone,
da poco la zona
ripulita dai saraceni
– era il più alto lungo il
percorso ma non l’unico.
La strada non era facile,
ma Amedeo VIII vi aveva
fatto passare le artiglierie,
persino in dicembre (1434).
I giovani del villaggio di
Saint-Rhemy, annidato in una
gola dieci chilometri prima e ottocento metri sotto il passo, avevano sostituito l’obbligo
feudale di prendere le armi con quello di tener sgombra la strada dalla neve e di
provvedere alla sicurezza dei viaggiatori.
Nella valle del Rodano (il Valais), in cui si scendeva, sul versante sinistro, nell’ombra
di rocce a picco, si incontrava l’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune. Ricordava Maurizio
e i suoi commilitoni della legione tebana, cristiani martirizzati undici secoli prima, e
possedeva già il suo prezioso tesoro: cofani reliquari di argento sbalzato o d’oro e
smalti, l’acquamanile orientale di Carlomagno e la teca con una spina della corona del
Cristo deriso, donata da san Luigi.
Sul lago di Ginevra si poteva proseguire per acqua o contornarne le rive, quella di vigne
al sole del paese di Vaud o quella di fronte del Chablais. Dominavano le rive grigi castelli,
Chillon e Morges da un lato, Evian e Thonon dall’altro. Erano alcuni di quelli per i
quali girovagavano perennemente i Savoia, che si muovevano per loro terre, portandosi
dietro utensili e arredi, perché le dimore erano alquanto spoglie; letti e altri mobili spesso
dovevano essere graziosamente dati in prestito dai sudditi ai principi e al seguito.
Ginevra, tra il lago, il Rodano e l’Arve, con lo scintillio dei ghiacci e l’aria fredda del
Monte Bianco, era città di sovranità vescovile, comune di borghesia attiva, ostinata
a difendere le sue libertà. La sua importanza economica più che per i commerci di
panni, formaggi, spezie e sale, i prodotti dei conciatori, pelletterie e orefici, veniva
dalla posizione all’incrocio delle vie dall’Italia alla Fiandra e dalla Germania meridionale
alla Spagna; forse ancor più dalle quattro fiere, per l’Epifania, la Pasqua, San Pietro in
vincoli e Ognisanti: vi convenivano uomini di affari di ogni parte d’Europa, erano il
mercato delle lettere di cambio, il principale strumento, allora, del credito, in
sostanza la camera di compensazione della finanza internazionale.
(L. Camusso,Guida ai Viaggi nell’Europa del 1492)
Da http://giulianolazzari.splinder.com