Un altro concittadino inquisito in:
prima-di-grandi-anche-dante-sospetto-d-eresia.html
All’ex monastero delle Murate, a Firenze, la mattina di giovedì 10 ottobre 1895,
dopo le undici, due guardie si fecero aprire il pesante portone ed entrarono nel
carcere. Quando ne riuscirono, poco dopo, in mezzo a loro cammiava ‘un ometto
di bassa statura’, vestito di scuro, che si asciugava continuamente con un fazzoletto
la testa calva.
Aveva appena finito di pagare, come si dice, il suo debito alla giustizia.
Vent’anni e più di casa di forza: meno di due scontati nell’ergastolo fiorentino,
quasi dodici nella fortezza di Volterra e gli ultimi sette galeotto all’isola di Capraia,
da cui era ritornato allora.
Ormai, dunque, Callisto Grandi era libero.
Aeva 44 anni, la madre ancora viva al paese, fratelli, sorelle e molti nipotini, alcuni
dei quali non l’avevano mai conosciuto. In tasca possedeva 700 lire che s’era guadagnato
in galera facendo il fabbro; ma per sé ne avrebbe tenute solo 38. Il resto del gruzzolo
voleva donarlo – scrisse il cronista de ‘La Nazione’ per i suoi lettori – a sette piccole
orfane di un fratello; che in realtà morto non era, né aveva tante figlie. Oppure li
aveva già spediti a delle zie; come appreso quanti seguivano le notizie sul ‘Fieramosca’
– Giornale del popolo -.
In ogni caso, l’ex detenuto sperava di poter trovare presto un impiego, perché di
lavorare non aveva paura ed un mestiere lo sapeva. S’era rivolto già, per questo,
alla società di patronato per i liberati del carcere.
Dove e quando si sarebbe sistemato, però, a quel punto era difficile dirlo.
La questura si stava interessando affinché venisse ammesso, almeno per un po’,
alla Pia Casa di Lavoro. Ma il direttore Carlo Peri quella mattina non lo ricevette
neppure, e perciò gli agenti Rosso e Ridolfi, che l’avevano accompagnato all’ospizio
di Montedomini, dovettero riportarlo via.
Strada facendo, da via Ghibelina a via Malcontenti, nel quartiere di Santa Croce,
avevano incontrato un tale detto Gobbino dell’Incisa, facchino di professione.
Si guardarono.
Si riconobbero.
Il grandi fece cenno al suo compaesano di stare zitto, ma costui prese subito a
indicarlo ai passanti. In breve tempo si sparse la voce. E il non più prigioniero,
sempre accompagnato dalle due guardie e dal brigadiere Miniati, fu seguito
per tutte le strade da moltissima gente, la maggior parte ragazzi che, – aggiungeva
il cronista de ‘La Nazione’, – lo guardavano terrorizzati.
Fu questa la sua prima passeggiata.
Presto conclusa, verso mezzogiorno, in via dei Ginori. Alla questura centrale, lo
presero e lo rinchiusero in una camera di sicurezza.
– Dove mai dovrà andare questo disgraziato?
Si domandava l’anonimo reporter del quotidiano fiorentino.
Chi aveva scontato la pena sentenziata dal tribunale, aveva poi il diritto di usufruire
della propria libertà; ed il Grandi lo rivendicava.
Ma il fatto era che al suo borgo d’origine – Incisa nella Val d’Arno – proprio non
si voleva ch’egli tornasse, e c’era dunque una grande agitazione.
Lo stesso consiglio municipale riteneva opportuno che costui venisse per sempre
allontanato da quei luoghi in cui era ancora tristissimo il ricordo del truce misfatto
e delle sue povere vittime.
A portavoce della generale inquietudine s’era fatto sentire, già da una settimana
innanzi, il quotidiano dei moderati toscani. Con toni veementi, ‘La Nazione’ aveva
sollecitato le autorità cittadine affinché provvedessero, in qualche modo. Il ritorno
di questa belva umana all’Incisa non è opportuno per qualsiasi rispetto; per
tutti esso costituiva una causa di spavento, e, specialmente, nei padri e nelle madri.
Che sarebbe accaduto se costui fosse stato preso di nuovo dalla mania di uccidere
i bambini?
Ed era una vera e propria mania, – diagnosticò il giornalista, – perché Carlino Grandi…
li attirava in agguato con molta industria, li uccideva e li seppelliva sotto lo sterrato
della sua bottega.
Cinque ne aveva strangolati, mal ricordò l’articolo del 4 ottobre 1894, e fu scoperto
mentre aveva già quasi finito di uccidere il sesto.
– E’ vero che ho ammazzato quattro ragazzi, – dichiarò l’omicida intervistato da
‘La Nazione’, – schiacciando loro la testa con una ruota….quindi gettando loro
addosso un palmo di terra. E al cronista cui sembrava pentito, il grandi aggiunse:
Ero anche minchione…se li sotterravo a tre metri di profondità non li trovavano
davvero!
L’ultimo ragazzo che credo ora faccia il prete o il frate non lo presi bene con la
ruota; questa mi sgusciò di mano e lo ferii alla guancia. Mentre stavo per finirlo,
una donna, anzi un donnone, vide tutto da un buco della porta della mia bottega
e così…
L’assassino fu scoperto, il bambino salvato.
(P. Guarnieri)