I FORZATI DEL RE

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In questa profonda, altosonante, minuta, dolce e fantastica storia,

Cide Hamete Benengeli, autore arabo e mancego, narra che dopo che

tra il famoso don Chisciotte della Mancia e Sancio Panza, suo scudiero,

erano intercorsi quei ragionamenti che alla fine del passo precedente

venivano riferiti, don Chisciotte alzò gli occhi e vide che sulla stessa

strada che percorreva avanzavano a piedi dodici uomini infilati come

conterie, per il collo, a una gran catena di ferro, e tutti quanti con le

manette ai polsi.

Erano con loro due uomini a cavallo e due a piedi; quelli a cavallo con

archibugi a ruota, e quelli a piedi con frecce e spade. E Sancio Panza, come

li vede, disse: – Quella è la catena dei galeotti (chiama uno chiamano tutti…),

forzati del Re, che vanno a servire alle galere.

– Forzati? Come sarebbe a dire?…domandò don Chisciotte.

– E’ possibile mai che il Re usi forza a qualcuno?

– Non ho detto questo, rispose Sancio, ho detto che è gente che è stata condannata

per i sui reati a servire il Re, (non li vedi belli pasciuti in parlamento e non,

dell’Italico fiero popolo) per forza, sulle galere.

– Perciò in definitiva, replicò don Chisciotte, e comunque stiano le cose, questa

gente la portono, ma va per forza (a furor di popolo), non di sua volontà.

– E’ così disse Sancio.

– In tal caso, disse il padrone, è qui che interviene l’esplicazione del mio

compito: abbattere la prepotenza, e soccorrere e prestare aiuto agli oppressi.

– Badi la signoria vostra, disse Sancio ( in divisa da….) che la giustizia,

che è poi lo stesso Re, non fa né prepotenza né offesa a gente di quella

risma, e altro non fa che punirla dei suoi reati (dopo che con loro ha banchettato).

A questo punto arrivò la catena dei galeotti e don Chisciotte con frasi cortesissime,

chiese a quelli che ne erano i guardiani che si compiacessero d’informarlo e di

dirgli la causa per le quali portavano quella gente a quel modo.

Una delle guardie a cavallo rispose che erano dei galeotti, gente di Sua Maestà,

che andava (e veniva)  alle galere, e non c’era altro da dire, né lui era tenuto a

sapere altro.

– Comunque, replicò don Chisciotte, ci terrei a conoscere di ognuno in particolare

la causa della sua disgrazia.

(Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia)

 

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L’UOMO E LA NATURA (9)

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Per un momento ho pensato di                                           lupo lupi svezia.jpg

raccontargli del bosco e della lupa

magra, per mettergli paura, ma

tanto lui avrebbe detto che è solo

il cinematografo della febbre,

così sono rimasto rannicchiato e

muto, e dopo poco il professore

se n’è andato.

C’è la festa stasera, ha ripetuto

prima di riaccostare la porta.

Difatti per tutto il pomeriggio

c’è stato un gran trambusto,

su e giù per le scale, nei

corridoi, nelle stanze.

Sentivo trascinare mobili sul pavimento della sala, e anche accordi di chitarra, rullate

di batteria, attacchi di canzoni ripetuti mille volte, grida. Io non mi sono mai mosso

da sotto al letto, tremavo accucciato sulle mattonelle fredde e pensavo a te Mimosa,

a quando ti ho incontrata al bar davanti scuola, che avevi il giobbotto nero e in testa

il colbacco peloso di tua madre, le prime unghie aguzze, rosse, la peluria bionda accanto

alle orecchie, il viso lungo. Stavi da una parte, lontana dalle compagne e dai ragazzi, come

una forestiera in una stazione.

Ho sentito subito l’odore forte delle mestruazioni e della solitudine.

Eri sola come me, Mimosa, per questo eri bella.

Verso sera la festa è partita decisamente: la musica era per ballare, e li immaginavo nella

luce calata, tutti a fare le loro mossette con la bocca piena di patatine, noccioline, salatini,

le scarpe nella cocacola rovesciata, i professori che vergognosi e porci ballavano con le

carine, toccandole sui fianchi: e i ragazzi grassi appoggiati al muro, con la sigaretta fissa

in bocca.

Ma sentivo anche il vento fischiare, fuori, raffiche tese, libere, e la neve che danza, che

scende dal cielo e sale dalla terra, e le lepri che muovono musi e orecchie sotto la luna.

Sono uscito dal mio nascondiglio e ho spalancato la finestra. Mi sembrava di essere

dimagrito di venti chili, d’avere la pelle incollata ai muscoli e alle ossa, e una forza

moltiplicata, scattante, tutta gomiti e ginocchia.

L’ho vista immediatamente, anche se era avvolta dall’ombra: stava seduta sul bordo

del bosco, dritta come una sentinella, e mandava nell’aria il profumo dell’attesa.

Ha alzato la testa e un mugolio, è tornata a nascondersi tra gli alberi.

Mimosa, non sai come correvo sulla neve, che balzi in avanti: il desiderio mi trasformava

e non ero più malato, non ero più io. La lupa appariva tra i tronchi, s’allontanava,

s’avvicinava, stringeva il cerchio attorno a me. Potevo sentire il suo affanno, e lei il mio.

Mi sono messo a quattro zampe per farle capire che ero come lei.

E per lei, Mimosa, ho ricoperto la mia pelle d’un pelo ispido, ho estratto la coda dal

dorso e ho sospinto in avanti il muso, ho affilato i denti e drizzato le orecchie, ho ululato

alla luna. E la lupa mi è strisciata contro, calda e tesa, ha mescolato il suo fiato fumante

al mio, mi ha accettato. Abbiamo galoppato inseme tutta la notte, fino sui monti più

alti, spalla a spalla. Per lei ho ucciso un animaletto. Scappava in diagonale nel campo,

ma l’ho raggiunto in un attimo e l’ho azzannato: il sangue mi colava sul collo e nella

bocca, sentivo le convulsioni finali di quella bestiolina, le zampette che s’agitavano

nell’aria, gli squittii, e poi era solo carne da offrire alla mia lupa.

Abbiamo bevuto la neve e giocato a rotolarci giù da un pendio: io l’ho morsa dietro

le orecchie, non troppo forte. Quello che lei mi diceva, io lo capivo, storie di uomini

con il fucile, di terrore, ferite, nascondigli, buche, solitudine, e altre parole che ora

mi vagano nella testa come i sogni quando sono svaniti.

Ci siamo accoppiati all’alba, rapidamente, sul bordo di un lago ghiacciato, con un

vento furibondo che ci sollevava il pelo. Ma dentro di lei s’apriva una notte umida,

sospirosa, la prima notte del mondo, e io ho sentito le stelle che mi uscivano dal

corpo e entravano nel suo, come da cielo a cielo. Con i fianchi obbedivamo a qualcosa

di più grande di noi, la forza che ci teneva avvinghiati era quella che solleva le maree

e le foreste, che inghiotte le navi e i vecchi. Ma quando ci siamo staccati, lei mi ha

girato uno sguardo pieno di indifferenza: ho provato a leccarla sul muso e m’ha

ringhiato con i denti lucidi, è andata via per sempre.

Tra me e lei s’è alzato un volo di corvi, centinaia di punti neri che gracchiando

strappavano l’aria…..

Questo è successo, anche….

(Marco Lodoli, Cani e lupi)

un intervento contro l’orrore in:

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L’UOMO E LA NATURA (intermezzo al pollo)(8)

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Progetto Babilonia continua (in):

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(paginedistoria.myblog.it)

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GRILLO: Dunque ammetti che l’anima degli                      odisseo.jpg 

animali è più felicemente predisposta per

natura alla nascita della virtù ed è più

compiuta a tale scopo; perché senza avere

ricevuto imposizione né insegnamenti,

per così dire senza semina né coltura,

essa produce e fa crescere naturalmente

la virtù adeguata a ciscuno di loro.

ODISSEO: E quale virtù esiste fra

gli animali, Grillo?

GRILLO: Quale virtù, piuttosto,

non esiste fra gli animali in misura

maggiore che nell’uomo più sapiente?

Considera anzitutto, se vuoi, il coraggio,

di cui tu vai superbo; tanto da non

nasconderti il capo se ti chiamano ‘temerario’ e’ distruttore di città’.

Proprio tu, scelleratissimo, che dopo avere raggirato con insidie e artifici uomini

esperti di un modo semplice e nobile di far guerra, e ignari altresì di inganni e di

menzogne, dai il nome di virtù alla tua malvagità, mentre l’una è assolutamente

incompatabile con l’altra. Eppure, quanto ai combattimenti delle bestie fra loro

e contro di voi, puoi notare come siano leali e privi di artifici, e come le bestie

si difendano con coraggio aperto e schietto, assecondando una genuina prodezza.

E non perché siano state convocate dalla legge o perché temano l’accusa di diserzione,

ma per natura esse evitano di lasciarsi sconfiggere, opponendo resistenza fino

alla morte e mantenendo intatto il proprio spirito indomito.

Non si danno infatti per vinte quando sono fisicamente soggiogate, né soccombono

nell’animo, ma muoiono combattendo.

In molti casi, quando gli animali stanno

per morire, assieme al loro ardimento                 6548.jpg 

il vigore si ritira e si concentra in una

sola parte del corpo. Esso oppone

resistenza all’uccisore, sussulta e

recalcitra, finché, come fuoco, non

si estingue e non svanisce del tutto.

Gli animali non supplicano non

invocano pietà, né ammettono la

propria sconfitta; e un leone non è

schiavo per codardia di un altro leone

né un cavallo di un altro cavallo,

come lo è invece un uomo di un suo

simile, quando accoglie supinamente la schiavitù che prende il proprio nome dalla

viltà. Fra le bestie che gli uomini catturano con reti e inganni, gli esemplari ormai

adulti, rifiutando il cibo e resistendo alla sete, si procurano la morte e la accalgono

di buon grado invece della schiavitù. 

Ma ai pulcini e ai cuccioli, che per la tenera età sono docili e malleabili, vengono

propinati, come una malia, molti ingannevoli allettamenti e lusinghe, che fanno 

loro assaporare piaceri e sistemi di vita contro natura. Così col tempo essi vengono

indeboliti, finché ccettano e tollerano il cosiddetto ‘addomesticamento’, che 

consiste nell’evirare il loro ardore. Per questi motivi riesce del tutto evidente che

le bestie hanno per natura una buona disposizione al coraggio. Negli uomini, invece,

la fermezza è senz’altro contro natura: e puoi arguirlo in particolare da quanto 

segue, mio ottimo Odisseo. 

La natura distribuisce in modo equilibrato la prodezza fra gli animali, e la femmina non 

è affatto inferiore al maschio sia nel sostenere le fatiche per le necessità della vita,

sia nell’affrontare le lotte in difesa della prole. Hai certamente sentito parlare della

scrofa di Crommione che, pur essendo femmina, provocò molte difficoltà a Teseo.

E la sapienza non avrebbe giovato alla famosa Sfinge, che se ne stava seduta in

cima al Ficio a tramare enigmi e indovinelli, se essa non fosse stata vistosamente

superiore ai Cadmei per forza e per coraggio. Là nei dintorni si dice vivesse pure

la volpe di Teumesso, ‘creatura maliziosa’, e non lontano stava la pitonessa che

combatté a Delfi con Apollo per l’oracolo. Il vostro sovrano, poi, ricevette Ete

dall’uomo di Sicione come ricompensa per averlo esentato dalla spedizione

militare; la sua fu un’ottima decisione, giacché preferì una cavalla valente e

animosa a un uomo vile.

Tu stesso, hai avuto molte occasioni di osservare, nelle pantere e nelle leonesse,

come le femmine non cedano affatto ai maschi per impeto e per prodezza: davvero

come tua moglie che, mentre tu sei in guerra, se ne sta seduta a casa accanto al focolare

e non è zelante come le rondini nel respingere chi insidia lei e la sua casa.

Eppure è una spartana! Perché allora citare in aggiunta le donne di Caria e di Meonia?

Da questi esempi risulta senz’altro evidente che gli uomini non possiedono il

coraggio per natura; se così fosse, infatti, anche le donne parteciperebbero in

modo simile del valore. Ne consegue che voi praticate il coraggio per costrizione

legale, che non è volontaria né intenzionale, bensì soggetta ai costumi, alle

critiche, a opinioni estranee e a discorsi fuorvianti; e vi sottoponete alle fatiche

e ai pericoli non per audacia verso queste cose, ma perché ne temete maggiormente

delle altre. Il tuo compagno che si imbarca per primo prende il remo leggero, non

per disprezzo, ma perché teme quello più pesante e lo vuole evitare; analogamente,

chi tollera le percosse pur di non essere ferito e chi va contro un nemico piuttosto

che affrontare la tortura e la morte, non è audace in rapporto alle azioni menzionate

per prime, ma piuttosto ha paura delle seconde. E’ dunque evidente che il vostro

coraggio è una FORMA DI VILTA’ INTELLIGENTE, e il vostro ardimento E’ UNA

FORMA DI PAURA, consapevole di fuggire determinate cose affrontandone altre.

INSOMMA, SE VI CONSIDERATE SUPERIORI AGLI ANIMALI PER CORAGGIO, 

perché mai i vostri poeti attribuiscono ai guerrieri più forti contro il nemico gli

appellativi ‘animo di lupo’, ‘cuor di leone’ e ‘pari a un cinghiale per valore’, mentre 

nessuno di loro chiama un leone ‘cuor di uomo’, né un cinghiale ‘pari a un uomo

per valore’?

Io credo piuttosto che, come essi definiscono chi è veloce ‘piè di vento’ e chi è bello

‘simile a un dio’, ricorrendo a espressioni iperboliche, così paragonato chi è valente

nel combattere a creature superiori. Ciò è dovuto al fatto che il valore è una sorta

di tempra e di affilamento del coraggio, esso è impiegato allo stato puro dalle bestie

nei loro combattimenti, mentre nel caso di VOI UOMINI, ESSENDO MESCOLATO

AL CALCOLO COME VINO ALL’ACQUA, SI RITRAE DI FRONTE AI PERICOLI

E VIENE MENO AL MOMENTO OPPORTUNO. Alcuni di voi, poi, sostengono che

non si debba affatto lasciar spazio al valore in battaglia, ma che occorra sbarazzarsene

e far uso di un calcolo lucido: affermazione esatta al fine di assicurarsi la salvezza, 

ma quanto mai scorretta in vista di una difesa valorosa. Non è assurdo che voi

accusate la natura perché non ha provvisto i vostri corpi di pungiglioni, né di 

artigli adunchi, né di denti atti alla difesa, mentre voi stessi eliminate e reprimete

l’arma della mente di cui proprio essa vi ha forniti? 

(Plutarco, Del mangiare carne)

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L’UOMO E LA NATURA (7)

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Il primo animale a essere sottratto alle condizioni relativamente naturali

della fattoria tradizionale è stato il pollo. Gli esseri umani usano i polli

in due modi: per la carne e per le uova. Esistono ora delle tecniche standard

per la produzione di massa di entrambi questi prodotti.

I sostenitori dell’agro-industriale considerano la nascita dell’industria uno dei

grandi successi della storia dell’allevamento. Alla fine della seconda guerra

mondiale il pollo da tavola era ancora relativamento raro. Esso proveniva

soprattutto dai piccoli allevatori indipendenti o dai maschi inutilizzati prodotti

dagli allevamenti di galline ovaiole. Oggi, negli Stati Uniti, 102 milioni di broilers

– come sono chiamati i polli da tavola – vengono macellati ogni settimana dopo

esser stati allevati in impianti paraindustriali altamente automatizzati, appartenenti

alle grandi società che controllano la produzione. Più del 50% dei 5 miliardi e 300

milioni di uccelli uccisi ogni anno negli Stati Uniti proviene da 8 di queste società.

Il passo fondamentale verso la trasformazione del pollo da animale da cortile in

prodotto industriale consistette nel confinarlo al chiuso. Un produttore di broilers

ottiene oggi dalle incubatrici un carico da 10000, 50000 o anche più pulcini di giornata,

che sistema in un lungo capannone senza finestre – di solito sul pavimento, sebbene

alcuni produttori impieghino file sovrapposte di gabbie per poter tenere più

volatili in un capannone delle stesse dimensioni. All’interno del capannone, ogni

elemento dell’ambiente dell’animale è calcolato per farlo screscere alla massima

velocità con la minor quantità di mangime. Cibo e acqua sono forniti automaticamente

attraverso beccatoi che calano dal soffitto. L’illuminazione viene regolata secondo

i consigli degli esperti di agronomia: per esempio, ci può essere una luce intensa

per ventiquattr’ore su ventiquattro per i primi sette o quindici giorni, per favorire

un rapido aumento di peso dei pulcini; quindi le luci possono essere leggermente

abbassate, e venire spente e riaccese ogni due ore, nella convinzione che i polli

siano più inclini a mangiare dopo un periodo di sonno; infine si raggiunge uno

stadio, verso le sei settimane di vita, in cui gli uccelli sono cresciuti tanto da

creare affollamento, e le luci saranno allora tenute molto basse a tutte le ore.

Lo scopo di tale riduzione dell’illuminazione è ridurre l’aggressività provocata

dall’affollamento. I broilers vengono uccisi quando hanno sette settimane.

Al termine di questo breve periodo, gli uccelli pesano intorno ai due chili;

eppure continuano a poter disporre di uno spazio di appena 450 centimetri

quadrati a testa – inferiore cioè alla superficie di un normale foglio di carta.

In queste condizioni, se l’illuminazione è normale, lo stress dovuto all’affollamento

e la mancanza di uno sfogo naturale per le energie provocano esplosioni di

aggressività, nel corso delle quali i polli si strappano le penne l’un l’altro e

talvolta si divorano a vicenda. Si è scoperto che un’illuminazione molto debole

riduce questo fenomeno, e perciò è probabile che gli uccelli trascorrano le loro

ultime settimane di vita nella quasi totale oscurità.

Lo spennamento e il cannibalismo sono, nel linguaggio del produttore di broilers,

‘vizi’. Non si tratta di vizi naturali, ma del risultato dello stress e dell’affollamento cui

il moderno allevatore sottopone gli uccelli.

(Peter Singer, Liberazione animale)

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L’UOMO E LA NATURA (6)

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Per la maggior parte degli esseri umani, specie quelli che vivono nelle moderne

comunità urbane e suburbane, la più diretta forma di contatto con gli animali

non umani si verifica all’ora dei pasti: noi li mangiamo.

Questo semplice fatto costituisce la chiave del nostro atteggiamento verso gli

animali, e anche la chiave di ciò che ciascuno di noi può fare per cambiare tale

atteggiamento. L’uso e l’abuso degli animali allevati a scopo alimentare supera

di gran lunga, per numero totale di animali interessati, ogni altro tipo di

maltrattamento. Più di cento milioni di bovini, suini e ovini sono allevati e

macellati ogni anno solo negli Stati Uniti; e per il pollame si raggiunge

l’impressionante cifra di cinque miliardi. E’ qui, sulla nostra tavola da pranzo

e nel supermercato o  nella macelleria sotto casa, che entriamo direttamente

in contatto con il più esteso sfruttamento delle altre specie che mai sia esistito.

In generale, noi ignoriamo l’abuso di creature viventi che sta dietro a ciò che

mangiamo. L’acquisto di cibo in un negozio o in un ristorante è il culmine di

un lungo processo di cui ogni parte, a eccezione del prodotto finale, viene

accuratamente celata ai nostri occhi. La carne e il pollo che scopriamo sono

imballati in linde confezioni di plastica, e difficilmente sanguinano.

Non c’è ragione di associare tali involti a un animale vivo, che respira, cammina,

soffre. Gli stessi termini che utilizziamo ne nascondono l’origine: noi mangiamo

non bulls (tori) o cows (mucche) ma beef; non pigs (maiali) ma pork.

Il termine meat è in se stesso ingannevole. Originariamente indicava qualsiasi

cibo solido, non necessariamente la carne degli animali. Tale uso del vocabolo

permane in un’espressione come nut meat (polpa di noce) che sembra implicare

un’imitazione di flesh meat (polpa di carne), ma in effetti ha altrettanto diritto

di chiamarsi meat a titolo proprio. Usando il più generico meat noi esitiamo ad

affrontare il fatto che ciò che stiamo mangiando è in realtà FLESH.

Questi camuffamenti verbali rappresentano semplicemente lo strato superficiale

di una ben più profonda ignoranza sull’origine del nostro cibo. Si pensi alle

immagini evocate dalla parola ‘fattoria’: una casa; una stalla; una frotta di galline

che razzolano nel cortile, sorvegliate da un gallo impettito; una mandria di

mucche ricondotte dai campi per la mungitura; e forse una scrofa che grufola

nel frutteto, con una nidiata di maialini che le corrono dietro squittendo

allegramente.

Pochissime fattorie sono mai state idilliache quanto la tradizionale oleografia vorrebbe

farci credere. Noi continuiamo tuttavia a immaginarcela come luoghi ameni, lontani

dalla vita attiva e tesa al profitto che conduciamo in città. Tra quei pochi cui capita

di pensare alla vita degli animali nelle fattorie di campagna, non molti sono al corrente

dei moderni metodi di allevamento. C’è chi si domanda se la macellazione sia indolore,

e chiunque si sia trovato a viaggiare sulla strada dietro un camion carico di bestiame

saprà probabilmente che gli animali d’allevamento vengono trasportati in condizioni

di estremo affollamento ma pochi sospettano che il trasporto e la macellazione siano

qualcosa di diverso dalla rapida e inevitabile conclusione di una vita comoda e appagante,

una vita che comporta i naturali piaceri dell’esistenza animale senza le difficoltà che

gli animali selvatici devono affrontare nella lotta per la sopravvivenza.

Queste rassicuranti supposizioni hanno ben poca relazione con la realtà dell’allevamento

moderno. Tanto per cominciare, l’allevamento non è più nelle mani di semplice gente

di campagna: nel corso degli ultimi cinquant’anni, l’ingresso nel settore di grandi

società e l’introduzione di metodi di produzione basati sulla catena di montaggio hanno

trasformato l’agricoltura in agro-industria. Il processo ebbe inizio quando le grandi

imprese acquistarono il controllo della produzione di pollame, un tempo appannaggio

della moglie del contadino. Oggi, cinquanta grandi società controllano praticamente

tutta la produzione avicola degli Stati Uniti.

(…….) Le grandi società e coloro che devono sostenerne la concorrenza non sono certo

interessati all’armonia fra piante e animali e natura. La loro è un’attività competitiva,

e i metodi che si adottano sono quelli che riducono i costi e aumentano la produzione.

Così, l’allevamento è oggi ‘allevamento industriale’: gli animali sono trattati come

macchine che convertono foraggio a basso prezzo in carne ad alto prezzo, e qualsiasi

innovazione verrà adottata se porterà a un ‘rapporto di conversione’ più conveniente.

(……) Una volta che gli animali non umani vengono posti al di fuori della nostra sfera

di considerazione morale e sono trattati come cose da usare per soddisfare i nostri

desideri, il risultato è prevedibile.

(Peter Singer, La vita come si dovrebbe)

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L’UOMO E LA NATURA (5)

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Consideriamo senz’altro assurda la convinzione di quanti affermano che l’uso

di mangiare la carne abbia un’origine naturale. Che l’uomo non sia carnivoro per

natura, è provato in primo luogo dalla sua struttura fisica. Il corpo umano infatti

non ha affinità con alcuna creatura formata per mangiare la carne: non possiede

becco ricurvo, né artigli affilati, né denti aguzzi, né viscere resistenti e umori caldi

in grado di digerire e assimilare un pesante pasto a base di carne.

Invece, proprio per la levigatezza dei denti, per le dimensioni ridotte della bocca,

per la lingua molle e per la debolezza degli umori destinati alla digestione, la natura

esclude la nostra disposizione a mangiare la carne.

Se però sei convinto di essere naturalmente predisposto a tale alimentazione, prova

anzitutto a uccidere tu stesso l’animale che vuoi mangiare. Ma ammazzalo tu in persona,

con le tue mani, senza ricorrere a un coltello, a un bastone o a una scure. Fa’ come i

lupi, gli orsi e i leoni, che ammazzano da sé quanto mangiano: uccidi un bue a morsi

o un porco con la bocca, oppure dilania un agnello o una lepre, e divorali dopo averli

aggrediti mentre sono ancora vivi, come fanno le bestie. Ma se aspetti che il tuo cibo

sia morto e se la vita presente in quelle creature ti fa vergognare di goderne la carne,

perché continui a mangiare contro natura gli esseri dotati di vita?

Eppure, neanche quando l’animale è morto lo si potrebbe mangiare così come si

trova, ma si lessa, si arrostisce, si modifica la sua carne per mezzo del fuoco e

delle spezie, alterando, trasformando e mitigando con innumerevoli condimenti

il sapore del sangue, affinché il sapore del sangue, affinché il sapore del gusto,

tratto in inganno, possa accettare quanto gli è estraneo.

Davvero spiritosa è la battuta dello Spartano, che comprò in un’osteria un piccolo

pesce e lo diede da preparare all’oste; quando costui gli chiese formaggio, aceto e olio,

lo Spartano replicò:’Ma se avessi tutto ciò, non avrei comprato un pesce’.

Noi invece, viviamo così mollemente sprofondati nella nostra sete di sangue da

chiamare la carne una prelibatezza; ma poi abbiamo bisogno di intincoli prelibati per

la carne stessa, mescolando olio, vino, miele, garo e aceto a spezie siriane e arabiche,

come se preparassimo effettivamente un cadavere per la sepoltura. Dopo che le carni

sono state così macerate, ammorbidite e, in un certo senso, fatte imputridire prima

del tempo, è realmente arduo per la digestione avere la meglio; e una volta che

quest’ultima ha perduto la battaglia, le carni sono fonte di fastidi terribili e di

malsane indigestioni.

(Plutarco, Del mangiar carne)

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L’UOMO E LA NATURA (4)

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Innanzi tutto, dunque, gli avversari                                             2005-03-n2-pitagora.gif

dicono che la giustizia è violata e

che l’immoto è mosso, se estendiamo

il diritto non solo al genere razionale

ma anche a quello irrazionale:

perché così non riteniamo legati

da parentela soltanto gli

uomini e gli dei, ma abbiamo

familiarità anche con le altre

bestie, le quali non hanno

nessun legame di parentela

con noi, e, servendoci di

alcune per i lavori, di altre

per il nutrimento, non le

consideriamo estranee e

indegne della nostra

comunità come di una

cittadinanza.

Chi infatti usa le bestie come se fossero uomini, risparmiandole e non offendendole,

attribuendo così alla giustizia una funzione che essa non può avere, non soltanto

ne distrugge la forza, ma rovina anche quel che è a noi proprio con l’introduzione

di quel che ci è estraneo.

‘Poiché ci capita o che siamo necessariamente ingiusti se non risparmiamo le bestie

o che viviamo una vita impossibile e impraticabile se non ci serviamo di esse, e in

un certo senso vivremo una vita di bestie se rinunziamo all’uso delle bestie.

Tralascio le multitudini incalcolabili dei Nomadi e dei Trogloditi, i quali come

alimento conoscono la carne e nient’altro: ma anche a noi che crediamo di vivere in

maniera civile ed umana quale occupazione rimane sulla terra, quale sul mare, qual

arte produttiva, quale raffinatezza se assumiamo nei riguardi degli animali un

atteggiamento inoffensivo come se fossero della nostra stessa razza e se ci comportiamo

con prudenza nei loro confronti?

Non c’è alcun bisogno di dirlo.

Noi non abbiamo altro aiuto né altro rimedio per questo dilemma che ci priva e della

vita o della giustizia se non conserviamo quest’antica legge e norma, per la quale,

secondo Esiodo, Zeus, distinguendo le specie naturali e dando a ciascuna un suo

specifico dominio, diede ‘ai pesci, alle bestie, agli uccelli alati di divorarsi l’un l’altro,

perché fra essi non c’è giustizia, ma agli uomini diede la giustizia’ ..fra loro.

E nei confronti di coloro ai quali non è possibile praticare la giustizia nei nostri

riguardi neppure a noi capita di essere ingiusti. Sicché coloro i quali hanno respinto

questo argomento non hanno lasciato alla giustizia altra strada né larga né stretta in cui

essa possa infilarsi’.

Come infatti abbiamo già osservato, poiché la nostra natura non è sufficiente a se stessa

ma ha bisogno di molte cose, se la si tiene lontano dall’aiuto derivato dagli animali,

ciò significa distruggerla completamente e ridurla ad una vita senza risorse, priva

di strumenti e sfornita del necessario. Dicono che i primi uomini non vivessero una

vita felice: poiché la superstizione non si ferma agli animali ma usa violenza anche

alle piante. Infatti, chi scanna un bue o una pecora qual ingiustizia maggiore compie

di colui che taglia un ulivo o una quercia, se anche in questi è insita un’anima,

secondo la metensomatosi?

Questi dunque, sono i principali argomenti degli Stoici e dei Peripatetici.

(Porfirio, Astinenza dagli animali)

Da www.giulianolazzari.com

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L’UOMO E LA NATURA (3)

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Negando l’immortalità alle bestie,                                        masaccio-cacciata.jpg

il cartesianesimo sopprimeva tutti

i dubbi che potevano sussistere

circa il diritto dell’uomo a sfruttare

gli animali.

Infatti, come osservavano i cartesiani,

se gli animali avessero veramente una

parte immortale, sarebbe impossibile

giustificare le libertà che gli uomini

si prendevano con loro; e se si

concedessero agli animali delle

sensazioni, il comportamento

umano apparirebbe intollerabilmente

crudele.

Il commento di Locke era il seguente:

l’idea stessa che una bestia potesse avere

dei sentimenti o possedere un’anima

immortale aveva talmente turbato

certe persone che queste avevano creduto che fosse giusto concludere che tutte

le bestie erano macchine perfette piuttosto che accordare l’immortalità alle loro anime.

(……) Lo scopo esplicito di Cartesio era stato quello di rendere gli uomini ‘signori e

padroni della natura’. Ciò s’adattava perfettamente con il suo progetto di dipingere

le altre specie come inerti e prive di ogni dimensione spirituale. In tal modo egli

creava una frattura assoluta tra l’uomo e il resto della natura, aprendo così la via,

in maniera estremamente soddisfacente, all’esercizio illimitato dell’autorità umana.

(…….) Eppure Cartesio s’era limitato a portare alla sua conclusione logica il rilievo

dato dagli europei all’abisso che separa l’uomo dalla bestia. Un Dio trascendente,

esterno alla sua creazione, è il simbolo della separazione tra lo spirito e la natura.

L’uomo sta all’animale come il cielo alla terra, l’anima al corpo, la cultura alla

natura. Tra l’uomo e la bestia esisteva una differenza totale di qualità. In Inghilterra

la teoria dell’unicità dell’uomo era proclamata dall’alto di ogni pulpito.

John Evelyn udì nel 1659 un sermone in cui si diceva che l’uomo era ‘una creatura

di composizione diversa da quella degli altri animali; sia per l’anima sia per il corpo;

come l’uno dovesse essere soggetto all’altra’.

Nel 1638 il Decano di Winchester concedeva che gli animali avessero certe qualità

umane, ‘sebbene in maniera inferiore’, ma denunciava come ‘una pericolosa immaginazione’

l’idea che animali e uomini fossero perciò la stessa cosa. Questo tema fu ribadito

per tutto il 700.

(……) Erano considerati più di tutti simili agli animali coloro che vivevano ai margini

della società: i pazzi che sembravano possedere e posseduti dalla bestia selvaggia che

era in loro, e i vagabondi, che non seguivano nessuna vocazione ma vivevano ‘una vita

da bestia’, secondo la definizione del puritano William Perkins. Qualcuno ha giustamente

detto che sul manicomio aleggiava l’immagine dell’animalità, e la stessa immagine percorre

le accuse mosse in quel tempo ai vagabondi, che non ‘si sistemavano in famiglie,

ma si associavano come bestie’.

Anche i mendicanti erano simili alle bestie brute poiché passavano tutta la giornata

in cerca di cibo. Una volta percepiti come bestie, come tali potevano essere trattati.

L’etica della dominazione dell’uomo escludeva gli animali dalla sfera delle preoccupazioni

umane, ma legittimava il maltrattamento di quegli esseri umani che si supponeva

vivessero nelle condizioni di animali.

Nelle colonie, il trattamento riservato agli uomini che si ritenevano simili alle bestie era

la schiavitù, con i suoi mercati, la marchiatura a fuoco e il lavoro senza tregua.

(Keith Thomas, L’uomo e la natura)

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AVVENTURE DELLA DOMENICA: LA BICICLETTA L’AMANTE SEGRETA (14)

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Chicago 13 settembre

 

Sono a Chicago.

Sono nella più vasta e più vigorosa metropoli dell’America del Nord. Guardando

indietro, mi figuro l’Italia piccina, piccina; Milano, Venezia, Torino e le altre città

come tanti puntini; e i parenti e gli amici aggirarsi invisibili in quelli a guisa di

atomi fuggenti.

Quante idee si affollano confuse e indefinite di chi ha legami d’affetto così lontani!

Il ciclista prova un senso che sta fra il piacere e la tristezza. Finché egli parla e desta

entusiasmo per il suo Eolo, prevale la soddisfazione e il piacere; quando un momento

tace, gli vola il pensiero al bel paese che Appennin parte, ed egli pure vorrebbe volare…..

Ma ritorniamo al Niagara.

Niagara è una piccola città di circa 6000 abitanti, distante una trentina di chilometri da

Buffalo, situata vicino alla grandi cascata del Niagara, da cui prende il nome e da cui

è separata per mezzo d’un parco.

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Essa ha graziose abitazioni e magnifici alberghi nascosti o, meglio, disseminati fra piante

rigogliose agitate e in parte sfrondate dai perpetui venti. Fino a pochi anni fa, viveva

esclusivamente del danaro lsciatovi dai visitatori di tutte le parti del mondo, ed ora,

avendo incominciato ad industrializzarsi come le altre sorelle degli Stati Uniti,

ingrandisce ed arricchisce.

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Il vero Niagara poi è una specie di canale, una larga riviera che scarica le acque degli

immensi laghi Erie, Huon, Michigan e Superiore nel lago Ontario; e poco dopo la

metà del suo percorso, che è di Km 60, laddove raggiunge la sua massima larghezza,

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incontra prima una grande isola che la divide in due, poi un salto di circa 55 metri

di altezza, dove l’acqua si precipita rimbombante al fondo, e spuma e si agita in

terribili vortici, e solleva una fina nebbia bianca come fior di farina, che il vento

porta ad inumidirvi gli abiti e la faccia fino alla distanza di un miglio.

Le chiazze di spuma sulla nerastra superficie delle onde seguono la rapida corsa

dell’acqua caduta per parecchie miglia; il fragore è continuo e imponente pari

a quello io direi di quindici treni insieme; il sole forma in quel candido polverio

de’ magnifici archibaleno….

E’ uno spettacolo meraviglioso.

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Io, compratami la mia colazione e varcato il ponte che unisce la grand’isola alla

sponda americana, mangiai saporitamente, là seduto su un tronco d’albero schiantato

dal vento. La grand’isola, formata da tante isolette riunite fra loro per mezzo di

ponticelli, è serpeggiata da strade per le carrozze e sentieri per i pedoni; ed è ricca

di piante superbe lasciate là intatte come son nate, rovinate o morte.

Quelle graziose isolette hanno nomi diversi: e offre specialmente una bella veduta

quella chiamata Le tre sorelle, all’estremità sud della grand’isola, mostrando tutta

la colonna d’acqua fra quelle rive, s’avanza a sbalzi, aumentando la precipitosa

corsa fino a 45 chilometri l’ora, dove incontra il salto.

All’estremità nord è pure bellissima L’isola della luna, che dicono sia un incanto

al chiaror di luna e permette di vedere da vicino l’acqua cascante verso la sponda

americana. Se non fosse costato un dollaro, sarei andato pure a udire il più grande

fragore ch’esista al mondo, discendendo nella Cantina dei venti, sotto la cascata.

Però ne spesi un mezzo per farmi trasportare con altri in battello a vapore vicino

alle cascate, fino alla nebbia.

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Allora soltanto si ha idea dell’altezza.

(Luigi Rossi, L’anarchico delle due ruote)

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AVVENTURE DELLA DOMENICA: LA BICICLETTA L’AMANTE SEGRETA (13)

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Sul Sempione

Per un accidente postale, la prima lettera del sig. Masetti, partito in bicicletto

per Chicago, ci è giunta molto in ritardo, abbiamo atteso pazientemente. E’ in

data del 15 luglio. La riassumiamo qui appresso, e la faremo tosto seguire dalla

seconda lettera.

La sera del 13 corrente, alla mezzanotte, si celebrò con vino e birra il battesimo

del mio bicicletto nuovo. L’amico Ernesto Tofani, un ex-campione del 1890,

e l’amico Aldo Regazzi ne furono i padrini.

Dopo lunga e accalorata discussione, si concluse di porgli nome Eolo, anche

per propiziarmi il dio dei venti sull’alpi, al piano e in mare.

A Gallarate eravamo rimasti in tre: l’amico Filippi, speranza del ciclismo, l’amico

Moretti, un pacifico trottatore che non si lascia mai sedurre alle volate, ed io.

Lietissimi sopra una strada stupenda, s’arrivò alle 8 di sera a Bevano –

Km 84. Là fummo ospitati dall’amico mio Cesare Trebbi, farmacista del

luogo, ma godemmo per poche ore i suoi ottimi letti, essendoci coricati

soltanto alle 2 dopo la mezzanotte.

Alle 5, l’amico Filippi rimontò in sella per Milano: alle 5 e mezzo io mi levai,

e l’amico Moretti non tardò egli pure ad abbandonare le molli piume.

Alle 8, confortato da tre uova sbattute, in un bicchiere di latte con pane,

fra gli auguri di molta gente, ripartii da Bevano accompagnato dall’

instancabile Moretti, dallo studente signor Donnini e dal signor Adami.

A Ornavasso, rimasi solo.

Il cuore mi batteva più forte, mentre il pensiero tentava intanto d’internarsi

nell’ignota meta del mio viaggio.

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Su una dolce discesa abbasai il capo e corsi fortemente per un paio di chilometri:

poi mi rialzai confortato e continuai di buon passo, contento d’esser solo. In certi

momenti, mi piace tanto pensare e correre che mi annoierebbe anche l’interruzione

di qualsiasi voce amica.

Alle 10 era a Domodossola, che attraversai a piedi in mezzo a molta gente. Un

crocchio di signorine era raccolto presso l’uscita della città, e il delicato suono

delle loro vocine mi giunse all’orecchio: ‘Buon viaggio!’.

Subito dopo Domodossola, la valle si fa più stretta, la strada sempre più bella,

ma s’incomincia ad incontrare delle salite da fare a piedi.

A mezzogiorno ero ad Isella.

Al confine svizzero, depositai L. 38 per entrare col mio Eolo. E su, e su, mentre

il vento si andava facendo più gagliardo e acuto.

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Attraversato il villaggio Sempione, circondato da cime nevose, la valle s’allarga.

A poco a poco cessa il fragore dell’acqua precipitante, finché subentra il silenzio,

interrotto solo dal sussurro di qualche gruppo di pini.

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Alle 8 giunsi finalmente al provvido e sospirato Ospizio del Sempione, posto

al colmo della lunga salita, alto 2040 m. sul livello del mare, la cui temperatura,

questa sera, è di 7 gradi sopra lo zero. Un buon frate, il padre Carron, m’

accolse, ritirò il mio Eolo e, fattomi salire una scala, mi assegnò la mia stanza.

Dopo pochi minuti mi chiamò nella sala da pranzo. Girò egli stesso una ruota

incassata nel muro e fece salire dalla cucina un’abbondante minestra di

tagliatelle. Ripeté il giuoco e mi presentò una buona porzione di manzo

lesso e pane e patate; poi arrosto di vitello, una mezza bottiglia di vino

eccellente, insomma una cena ottima.

(L. Rossi. L’anarchico delle due ruote)

 

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